I Prefab Sprout, il gruppo pop perfetto. Be’, non proprio: pensate che non hanno mai giocato a basket!

Dici Prefab Sprout e pensi al pop. Non quello carico di saccarina, che più ne ingurgiti e più hai il voltastomaco, e nemmeno quello che te lo godi lì, ai vertici delle classifiche di vendita e sei contento fino a quando un nuovo successo ti farà voltare pagina. Lo diceva anche Fabrizio De André in “La canzone dall’amore perduto”, ricordate? “Ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato, per un amore nuovo”. Lo so, non c’entra nulla, ma era per dare l’idea. E che i Prefab Sprout rappresentino il prototipo del gruppo pop perfetto non è una semplice idea. È un assioma. Una verità incontrovertibile. Un postulato. Un principio sul quale si basano le fondamenta della civiltà occidentale. Prendete “Steve McQueen”, l’opera seconda (siamo nel 1985) firmata dalla band di Newcastle. Un gioiello, una pietra miliare. Tanto da convincere il New Musical Express a piazzarlo al quarto posto della sua classifica di fine anno, mentre Alex Robertson, firma dell’influente Sputnikmusic, ne parlerà come di “una convergenza quasi impeccabile di splendidi e intelligenti canzoni pop e produzione immediatamente piacevoli, che si divide in undici canzoni distinte da un filo comune di eccellenza”. 92 minuti di applausi.
Ma i Prefab Sprout non sono solo “Steve McQueen”. Per il gruppo capitanato da Paddy McAloon c’è stato un prima e anche un dopo. Ed è sul prima che concentriamo la nostra attenzione, in particolare su “Swoon” (acronimo di Songs Written Out Of Necessity), l’album di esordio, uscito nel 1984. Un disco non semplice, anche se i frammenti che forniranno forma e sostanza al futuro prossimo sono già lì, belli compressi. Per giunta, l’accoglienza del pubblico è più che buona. Ma chissà cos’avranno pensato gli appassionati della palla a spicchi britannici. Certo, nel Regno Unito sono in pochi e li proteggono nemmeno fossero dei panda, però anche quei pochi lì si saran detti: “Raga, qui butta male. Male davvero”. Perché a un amante della spicchia puoi dir tutto, tranne che non hai mai giocato a basket. Un’affermazione gravissima, inconcepibile, un affronto bello e buono. E Paddy McAloon non si nasconde, confessando il proprio peccato originale, facendo il più classico degli outing. Come in una riunione di Alcolisti Anonimi. Ma senza alcol.

Lato B, solco numero 7, sotto la puntina comincia a scorrere “I never play basketball now”.  È un bel pezzo, che farebbe la sua porca figura anche all’interno di “Steve McQueen”. Ma non è questo il punto. Ci interessa il testo. E non è un bel sentire. Non per noi di Pick and Rock, almeno. È un racconto strano, visionario, sul quale preferiamo non dilungarci: meglio affrontare la questione sin da subito. Prendendola di petto. “Non ho mai giocato a basket: si aggiunge a una lista di cose che non avrò mai, come il fioretto e le ragazze alle quali non sono riuscito a dare un bacio”. Il fulcro delle liriche è rinchiuso in queste poche, decisive parole. Che ci stanno, per carità. Ci sta se le ragazze ti danno il due di picche, ci sta se non riesci a dare di fioretto, metafora o no che sia. Ma se non hai mai giocato a basket, allora è inevitabile gridare vendetta. Perché non sai cosa ti perdi. Certo, non è necessario sapere come si esce da un blocco cieco, e nessuno potrà biasimarti se non riesci a trovare la spaziatura giusta sul pick and pop, che peraltro è come il punto G: tutti sanno che esiste ma nessuno sa dove si trova. No, parliamo di cose più terra terra: il rumore del “ciuff”, passare una stoppata all’avversario che ti sta sui maroni, i contatti sotto canestro, il piacere di tenere palla per 24 secondi e poi forzare il tiro solo per il gusto di far incazzare i compagni, le partite al campetto senza un domani… E potremmo continuare ma tanto ci siamo capiti. Nel frattempo, Mr. McAllon avrà avuto l’occasione di buttare la palla tra la retina di un canestro? Ne dubitiamo. Siamo tentati di chiudere quest’ennesimo episodio di Pick and Rock con un “Ok Paddy, ti vogliamo bene lo stesso”. Però non ce la facciamo. Sul serio…