Il basket, l’amore e il playground. Centrifugati dagli Air e dal loro French Touch.

Il termine playground può essere tradotto con campetto. Certo, per i nordamericani la questione è più complessa: dalle loro parti dicasi playground il luogo (all’aperto, va da sé) usato per giocare più o meno a qualsiasi cosa, dalla mosca cieca al baseball, dal lancio della tavoletta del water al soccer. Ma per noi, attanagliati nella periferia dell’impero, per noi bravi a semplificare per evitare che la fatica ci ottenebri la mente, per noi che c’è solo la spicchia il playground è il campetto da basket. E basta.
Un luogo dell’anima, nel quale a contare non sono la tecnica, la forza fisica o la conoscenza di regole, delle quali, peraltro, spesso ce ne fottiamo: dai, chi se ne frega se uno pianta le radici in mezzo all’area dei tre secondi o se i passi in partenza potresti usarli per portare fuori il cane e rientrare a casa in tutta comodità? Sono altri i principi fondanti del campetto. Dove vige la democrazia. Ma fino a un certo punto: se hai 13 anni e stai lì a cercare di insaccare il canestro risolutivo, quello del 21-20, e arriva un branco di cinquantenni famelici pronti ad azzannarti se non sloggi entro cinque secondi, devi soccombere. E l’estetica. Perché puoi essere bravo quanto vuoi ma se pretendi di giocare conciato come un boat-people allora ti complichi la vita. Ricordo un ragazzo dalle notevoli capacità, difensore fortissimo, dotato di un uno contro uno irresistibile arricchito da un’entrata spettacolare, per non parlare del suo tiro chirurgico. E ricordo anche come si conciava: magliette e pantaloncini presi al 3×2 di un centro commerciale di periferia, calzini lisi, orfani di elastico o di qualcosa che almeno gli somigliasse. Poi le scarpe. Giurava di averle scovate negli USA in un negozio di articoli sportivi esclusivo e che per impossessarsene aveva sborsato fior di verdoni. Inutile cercarle in Italia, diceva: il brand ne aveva disposto il divieto di esportazione per impedire che venissero copiate da stilisti senza scrupoli. Il brand era quello della DH, pronuncia Dieicc. In realtà si trattava di volgarissime calzature di produzione orientale usate, peraltro con notevole imbarazzo, da tossici all’ultimo stadio per il loro costo accessibile. Ecco, quel ragazzo, nonostante le indiscutibili doti cestistiche (e di cazzaro), era relegato ai margini del campetto per i suoi gusti estetici estremi. Al massimo se la sfangava con i tredicenni quando erano in numero dispari ma quando arrivava il branco di cinquantenni di cui sopra era costretto a smammare anche lui. Un giorno sparì assieme alle sue Dieicc. Corre voce si sia innamorato. Di una ragazza del campetto. Perché il playground è anche amore. E solo l’amore è democratico.

Un tema caro agli Air, ovvero Jean-Benoit Dunckel e Nicolas Godin, ragazzotti noti per aver tirato un bel tot di acqua al mulino del French Touch.
Non so fino a che punto i due siano appassionati di basket. E poi la pallacanestro, nel Paese dei mangiatori di rane, è una scoperta abbastanza recente, legata soprattutto al passaporto di un certo Tony Parker. Fino agli anni ’80, tanto per dire una, l’idolo principale dei palasport transalpini è stato l’ex Olimpia Milano George Brosterhous, uno che qui, nel Belpaese, è considerato l’emblema della broccaggine (word segnala broccaggine con una linea rossa orizzontale, va be’, pazienza…). Sarà anche l’invidia, ma è così.
Per evitare di divagare ulteriormente torniamo agli Air e alla loro “Playground love”. Nient’altro che l’apertura di “The virgin suicides”, album del 2000, colonna sonora de “Il giardino delle vergine suicide”, film girato da Sofia Coppola. Sorvoliamo sulla sceneggiatura della pellicola restando sul pezzo del duo francese. Che prende spunto da un amore adolescenziale (“Eppure le mie mani tremano, sento i resti del mio corpo, il tempo non conta, sto ardendo nel playground, amore”) e si dirada tra quel suono elettronico un po’ retrò che ha farro la fortuna della premiata ditta Dunckel-Godin. Poi c’è il videoclip. Primissimi secondi del girato: un ragazzo prova a spaccare in due la retina mentre la vita scorre tranquilla. La prova inconfutabile che “Playground love” sia nato con una palla a spicchi tenuta fissa in mente. Che poi il film dica un’altra cosa (una delle protagoniste farà l’amore col suo ragazzo in un campo da football) è solo un particolare. Ma si sa, playground è un termine complesso. E poi, tornando al video, non si vedono quelle scarpe durante la festa da ballo? Sì, sono due Dieicc…

L’immagine è tratta da repubblica.it