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Wilt Chamberlain (foto wikipedia.org)

Wilt Chamberlain vinse appena due anelli NBA. Bill Russell, il suo rivale per eccellenza, ne collezionò undici. Ma Wilt sapeva cantare, Bill no. E la differenza è tutta qua.

Siamo tutti dei potenziali Rob Fleming. Chi non ama inventarsi le playlist più strampalate? Chi non ha mai perso tempo a stilare una o più classifiche attorno ad argomenti il più delle volte risibili? Il protagonista di “Alta fedeltà”, il libro cult di Nick Hornby, non è nient’altro che il mostro che cresce dentro di noi. È solo un’ardita metafora, sia chiaro: in fondo stiamo parlando di un gioco. E allora perché non giocare? Buttiamola lì: una classifica dei migliori centri transitati per i parquet dell’NBA dalla prima metà degli anni ’80 a oggi. Sì, vero, il gioco potrebbe trasformarsi in un massacro. E alla fine rimarrebbero solo sangue e frattaglie. Allora ci conviene cavarcela così, ovvero partire da Kareem Abdul-Jabbar e arrivare a Anthony Davis. E lì in mezzo di praterie da sfruttare se ne trovano in abbondanza. D’accordo, è un modo un po’ codardo per liquidare la questione, ma proviamo solo a pensare se fossimo partiti dagli anni ’60: il compito sarebbe stato impossibile o quasi. E non solo per la vastità dell’argomento. Già, noi poveri mortali stanziati alla periferia dell’Impero, di questioni riguardanti l’NBA, al massimo, potevamo leggerne sui periodici specializzati o tra i trafiletti dei quotidiani sportivi. Televisione, nisba. Poi, un bel giorno, e siamo nella prima metà degli anni ’80, dagli schermi collegati ai nostri tubi catodici spuntano la voce di Dan Peterson e le prime immagini del paradiso. Si apre un mondo. Ma che ve lo raccontiamo a fare? Da quel momento, il massimo campionato professionistico di basket non avrà più segreti. Poi, per quel che riguarda tutto quel che ci siamo persi, troviamo tutto, o quasi, sul Tubo con un doppio colpo di click. Troppo poco, si capisce. Tanto che l’interrogativo rimane il medesimo: come lo scegliamo il centrone dominante che ha scritto la storia antecedente gli anni ’80? Idem come sopra: faticaccia immane. Ma due nomi conviene farli: quelli di Wilt Chamberlain e di Bill Russell. Che è un po’ come dire Larry Bird e Magic Johnson, il Menego e Arturo il Rosso, Roberto Premier e il palasport di Livorno nella sua interezza. Insomma, rivalità. Bella e incandescente. Di certo, Bill ha vinto di più: ben undici anelli, tutti con i Boston Celtics, contro un paio conquistati da Wilt con i Philadelphia 76ers e i Los Angeles Lakers. Però, tra i due c’era una differenza abissale: Chamberlain sapeva cantare, Russell no.

Chamberlain è un pivot di 2,16 estremamente tecnico, veloce e dinamico. Sbarca in NBA nel 1959 dopo un anno da nababbo con gli Harlem Globetrotters. La prima canotta indossata è quella dei Philadelphia Warriors (i futuri Golden State), con i quali chiude la regular season con 37,6 punti e 27 rimbalzi di media a partita. Un esordio sfolgorante per un ragazzone di 23 anni, che ben presto firmerà un’altra impresa: il 2 marzo 1962, durante un match con i New York Knicks, Wilt ne infila 100, un record tuttora imbattuto.
Chamberlain raggiunge la popolarità degna di una superstar in meno di un attimo: gli propongono di incidere un disco e non se lo fa ripetere due volte, anche perché lui di musica ne mastica sin da quando conduceva, dai microfoni della radio della sua università, “Flipping with the dipper” un programma dedicato al jazz. Il 45 “By the river” (su lato B trova posto “That’s easy to say”), scritto dal compositore e cantante Norman Mapp, esce nel 1960 per la End Records, etichetta fondata da George Goldner nel 1957. Il pivot di Filadelfia dichiarerà al quotidiano di Baltimora “Afro American” di aver inciso il disco in quanto stanco di sentire ridere i suoi familiari ogni qualvolta si metteva a cantare. Parole intrise di ironia, si capisce, ma, a ben vedere, questa volta non c’è nulla da ridere: “By the river” è un pezzone. Punto. Ricco di non pochi riferimenti riconducibili all’r’n’b in voga in quegli anni tra gli afroamericani e non solo (come non trovare tracce di Ray Charles e Sam Cooke all’interno di quei solchi?) e di un’interpretazione degna di un artista uscito dagli studi della Motown o della Stax.
Per Wilt Chamberlain la musica resterà un episodio isolato tra quindici stagioni passate, con ruolo di protagonista, nel mezzo dei parquet nell’NBA: non ci sarà nessun’altra canzone da cantare e nessun altro vinile da incidere. Ed è un peccato. Ma, almeno per una volta, Bill Russel avrà sclerato, e non poco, pensando all’eterno rivale dalle ugole d’oro.