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Jackie, Jermaine, Marlon, Michael, Tito. Il quintetto di partenza era questo. Di panchina, nemmeno a parlarne: loro cinque, da soli, bastavano e avanzavano. E il coach? Papà Joseph. Che fungeva anche da direttore sportivo, general manager (soprattutto general manager) e, volendo, sesto uomo. Si parla, o meglio, si straparla dei Jackson 5, della loro prima formazione, la stessa che conquistò gli Usa a ritmo di funk e rhythm and blues. E che, in un giorno lontano, salvarono il basket.
Come? Ci arriviamo per gradi, cominciando col fare il punto della situazione. Che, in quel 1971, è la seguente. I Jackson 5 rappresentano una realtà già da qualche anno, sono sinonimo di freschezza e simpatia, i loro dischi vendono che è una meraviglia. “Goin’ back to Indiana” è il loro sesto 33 giri, l’ennesimo successo: 2.600.000 copie vendute, una bomba di musica nera appena appena un po’ edulcorata. Al suo interno otto pezzi, compreso un paio di cover di Sly and the Family Stone (“I want to take you higher” e “Stand!”), band iconica del funk più sperimentale, passata al mito per aver partecipato al Festival di Woodstock appena due anni prima. “The day basketball was saved” è l’ultimo pezzo in scaletta: last but not least. Impossibile (stra)parlarne senza passare attraverso lo speciale che la rete televisiva ABC dedicò all’intero album il 16 settembre. Ed è proprio quel che faremo.
Bill Cosby e Tommy Smothers in veste di animatori, Bobby Darin e Diana Ross ai cori, due squadre di basket al centro della scena. Sullo sfondo, “The day basketball was saved”, colonna sonora di quello che, in fin dei conti, può essere considerato un videoclip ante-litteram. La sfida è un po’ anomala. A dire il vero, lo sono le due squadre in campo (il tinello del regista, forse). Da una parte i cinque fratelli Jackson (e va beh!), dall’altra un quintetto che sembra reduce da un torneo Uisp di pessimo livello, ma che in realtà si presenta con tre assi Nba del calibro di Elgin Baylor, Elvin Hayes e Bill Russel, assieme a un paio di campioni di football, Roosevelt “Rosy” Grier, e Ben Davidson, ovvero il “Dream Team” (già sentito da qualche altra parte, vero?). Ma perché inscenare una partita simile? E per quale motivo mettere una di fronte all’altra una squadra di ragazzini e un’altra composta da vecchi marpioni? Semplice: perché il Dream Team, spiega il testo della canzone, “è invincibile, e se nessuno riesce a batterlo, allora il basket è morto”.

Appare evidente che i cinque mocciosetti sono alle prese con un compito non proprio facile. Niente di più sbagliato. Perché dal tinello, pardon, dal campo, uscirà una sentenza sorprendente (ehm…). Il match prende il via e i Jackson 5 dimostrano di cavarsela bene (anche se c’è da registrare una clamorosa infrazione di passi di Michael  – ancora nero integrale – non fischiata dagli arbitri), tant’è che Baylor e company sono sorpresi. E dato che la partita si trascina con un imprevisto punto a punto, è necessario escogitare qualcosa. Sì, ma cosa? Semplice, ci vuole una furbata, o meglio, una vera e propria bastardata. Che si concretizza nell’intervallo. Il Dream Team spedisce il venditore di pop corn dagli avversari riuniti in time out e loro, ingenui come sono, ne approfittano per ingozzarsi come non ci fosse un domani. Non si riprenderanno più, il mal di pancia li metterà k.o. Ma Jackie, il più saggio del quintetto, non ci è cascato, lui è in perfetta forma e non può far altro che finire la partita da solo, cosa, peraltro, vietata dal regolamento. Ma non sottilizziamo. Jackie si impossessa della palla, fa fuori uno dopo l’altro i cinque del Dream Team per poi trovare l’uno contro uno vincente. I Jackson 5 esultano, i vecchiacci alzano bandiera bianca. Nonostante un’infrazione di passi grossa come una casa e un regolamento mandato in vacca in modo palese. Ma se l’obiettivo è salvare il basket, tutto passa in secondo piano.

Grazie a Emanuela Turchet