Il Prof. Maurizio Mondoni

L’età evolutiva e l’avviamento allo sport

 

La problematica dell’avviamento all’attività sportiva in età evolutiva ha sempre tenuto vivo l’interesse degli addetti ai lavori, per i molteplici aspetti di ordine motorio-medico-biologico che essa presenta, strettamente legati alla tendenza attuale di anticipare nei giovani l’inizio della pratica sportiva.

L’età evolutiva comprende sei periodi:

 

–         neonatale (dal 1° al 15° giorno di vita);

–         prima infanzia (dal 16° giorno al 2° anno di vita);

–         seconda infanzia o fanciullezza (dai 2 ai 6 anni);

–         terza infanzia (dai 6 anni ai 10-12 anni: crisi puberale);

–         pubertà (dai 10-12 anni ai 15-17 anni);

–         adolescenza (dai 17 ai 21 anni per le femmine e 25 per i maschi: fine dell’accrescimento somatico).

 

Di questi sei periodi, la terza infanzia e la pubertà (dai 6 ai 15-17 per i maschi e dai 6 ai 13-15 per le femmine) sono i periodi che presentano maggiore interesse riguardo ai rapporti tra accrescimento e attività fisico-sportiva.

In riferimento all’attività motoria e sportiva, occorre distinguere tra:

 

–         “attività fisica tout-court” con le varianti ludico addestrative e di mantenimento;

–         “attività sportiva propriamente detta”, con le sue varietà agonistiche e non agonistiche.

 

Nell’attività fisica “tout-court” sono comprese tutte le attività di movimento che si prefiggono lo svago, il divertimento e l’addestramento del corpo, volte a migliorare gli schemi motori di base e posturali e le capacità motorie individuali e di conseguenza la salute e il benessere fisico.

Nell’attività sportiva “propriamente detta” l’elemento caratterizzante è la competizione, la tendenza a gareggiare, a superare l’avversario, a confrontarsi, caratteristica del resto connaturata alla specie umana.

Sul gradino più alto della scala dell’impegno psico-fisico troviamo l’agonismo; agonismo non significa solo lotta, ma amore per la lotta. L’agonismo è una componente insopprimibile della pratica sportiva, da non confondersi con l’antagonismo, cioè vincere a tutti i costi utilizzando anche mezzi sleali. I giovani devono affrontare l’agonismo come esperienza di crescita individuale e di consapevolezza.

Il concetto di agonismo sottolinea che l’importante è confrontarsi e verificare quanto una persona vale (da non confondersi con antagonismo).

Spesso è stato affermato che l’importante è partecipare, ma secondo noi l’importante è mettersi in gioco subito, senza eccessivi stress o ansie (educare alla vittoria e alla sconfitta).

Importanza ed effetti dell’attività fisico-sportiva “tout-court”

 

Sull’utilità e necessità dell’attività fisica “tout-court” nei soggetti in età evolutiva, si è tutti d’accordo: una non pratica o una sua diminuzione danneggia il loro sviluppo psicomotorio.

E’ noto che il movimento ha una notevole importanza nello sviluppo dei meccanismi cognitivi.

Stephard e Volle affermano che esiste una correlazione positiva tra l’aumento dell’attività motoria e l’accelerazione dello sviluppo psicomotorio, con un miglioramento di tutte le funzioni intellettuali. Vietare al bambino il movimento, il gioco e l’attività fisica può alterare il suo futuro rapporto con queste attività ed essere spesso causa del suo isolamento sociale. Carichi di lavoro insufficienti possono essere responsabili di una significativa riduzione della quantità degli stimoli indispensabili al normale sviluppo degli organi e degli apparati.

Nella Scuola dell’Infanzia e nella Scuola Primaria poco è il tempo dedicato all’Educazione Psicomotoria e al gioco-sport, due ore di Educazione Fisica la settimana nella Scuola Secondaria Inferiore e Superiore sono insufficienti per un individuo che non pratica altre attività sportive (carico di lavoro basso che non produce effetti positivi).

Cheek ha stabilito che il numero definitivo di cellule e nuclei muscolari dell’adulto è determinato dalla loro moltiplicazione in età infantile, in funzione principalmente di un’attività fisica praticata.

La più alta intensità di moltiplicazione si raggiunge attorno ai 10 anni di età; in seguito si verifica una diminuzione con progressivo aumento dell’ipertrofia.

Ben conosciuto è anche l’effetto positivo che l’attività fisica ha sulla crescita e sul metabolismo delle ossa.

L’immobilismo e il sedentarismo negativizzano il bilancio dell’azoto e del calcio (principale costituente delle ossa); l’attività fisica, al contrario, esercita un effetto positivo su entrambi.

Il “mangiare male” e il non esercizio fisico, portano inevitabilmente al sovrappeso, perché tutto ciò che è ingerito non è “bruciato” e quindi, va ad aumentare la “massa grassa”.

La sedentarietà e il non movimento sono indici di sovrappeso e di obesità, che in futuro potranno registrare nell’individuo conseguenze negative come il diabete e problemi a livello cardio-circolatorio.

 

Il carico di lavoro e relativi effetti

 

E’ difficile definire l’ottimale livello di attività fisica e sportiva necessaria allo sviluppo fisiologico del singolo individuo.

Gli studi sul rapporto tra esercizio fisico ed accrescimento sono numerosi e tutti concludono che l’esercizio fisico, se praticato con oculatezza, può provocare modificazioni e adattamenti paragonabili  a quelle conseguenti all’accrescimento.

Purtroppo molti giovani nel tempo libero guardano la televisione, giocano con la “play station o al computer; praticano poco movimento e anche e l’attività sportiva spesso diventa un “optional”.

Più complessa si presenta la problematica concernente il rapporto tra accrescimento fisico e sport agonistico.

Essa comporta l’esame critico di molteplici aspetti che vanno dall’indicazione o alla controindicazione della pratica sportiva, dalla valutazione degli effetti favorevoli sull’evoluzione psicofisica del soggetto agli effetti negativi e ai danni che ne possono derivare se condotta male.

Sull’argomento esiste una copiosa letteratura e numerose sono state le polemiche, anche aspre tra pediatri e medici sportivi. I primi ravvisano un possibile danno nella specializzazione precoce; di parere diverso sono i secondi che, forti di una solida esperienza acquisita negli anni e confortati dai fatti (ad esempio i record olimpici e i titoli mondiali conquistati in più discipline da giovani o giovanissimi, senza alcuna conseguenza sul loro stato di salute e sull’equilibrio psicofisico), ritengono a buon diritto che l’attività sportiva, anche agonistica, non sia di per sè responsabile di danni immediati o a distanza.

Col passare del tempo i contrasti hanno ceduto il passo a discussioni e confronti più pacati, ma soprattutto ad un maggiore approfondimento del problema.

Allenarsi una o due volte la settimana produce pochi effetti positivi a livello di organi e apparati, allenarsi troppo e con metodi di allenamento poco corretti porta alla sindrome del superallenamento, con effetti negativi anche a livello psicologico.

Oggi si può affermare che tutti sono sostanzialmente concordi nel ritenere che un’attività motoria e sportiva “controllata” non solo non nuoce, ma può addirittura arrecare benefici anche al soggetto in età evolutiva.

In questo senso si orienta anche la nostra esperienza personale, maturata in oltre trenta anni di insegnamento, formazione, aggiornamento, osservazione e controllo periodico di giovani dediti allo sport, presso la F.I.P., il C.O.N.I., l’Università e gli Istituti di Medicina dello Sport.

 

Secondo noi

 

Secondo noi è dannosa la specializzazione e la tecnicizzazione precoce (aumento del carico di lavoro, esaltazione del campione, esasperazione nel lavoro analitico, utilizzo di feedback negativi), che comporta successivamente nel giovane, ansia da stress, superallenamento e conseguente abbandono.

Non si può pensare di migliorare la tecnica esecutiva di un gesto se prima non si educano e si sviluppano le capacità motorie (condizionali, di mobilità articolare e coordinative).

Fin dall’inizio è necessario stimolare gli allievi a perfezionare il gesto; un insegnamento qualitativo precoce, basato sulla presa di coscienza dei propri movimenti, garantisce un apprendimento a lungo termine, più fine e più stabile.

Sicuramente l’acquisizione di una tecnica corretta da parte dei propri atleti è l’obiettivo di ciascun allenatore, ma bisogna andare per gradi e non esagerare subito!

Spetta all’Istruttore trovare soluzioni per favorire lo sviluppo tecnico-tattico dei soggetti che allena, per permettere a tutti di raggiungere il massimo delle loro potenzialità individuali.

Lavorare in modo estremamente specializzato su alcune abilità è dannoso e porta spesso al “drop-out”.

L’Istruttore deve essere un artista, deve educare sia alla vittoria che alla sconfitta, perché umano è vincere e umano è perdere, anche se perdere rompe.

 

La capacità di lavoro aerobico e anaerobico

 

La capacità di lavoro aerobico, misurata attraverso il rilievo del VO2 max (massimo consumo di ossigeno), risulta particolarmente favorevole nell’età evolutiva.

Il soggetto, in età evolutiva, è in condizioni, dal punto di vista bioenergetico, di fornire buone prestazioni di tipo prolungato (resistenza aerobica), nonché in quelle di brevissima durata (potenza anaerobica alattacida).

Difetta invece nel lavoro di tipo anaerobico lattacido, cioè in quelle discipline sportive che richiedono una notevole capacità di sopportare tassi elevati di acido lattico.