Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Innanzitutto grazie. Grazie per avermi migliorato l’umore con i vostri commenti al mio ultimo post che testimoniano del fatto che i frequentatori di questo sito sono persone che non vogliono smettere di pensare con la propria testa e che discutono in modo pertinente pur avendo opinioni diverse su molte cose. Insomma, quello che speravo che questo blog diventasse e, lasciatemelo dire, ne sono un tantino fiero.

In questi tempi, devo dire, ho visto poco basket, più o meno solo spezzoni di partite. Il mio interesse era rivolto ovviamente ai duemondiali di sport invernali che sono finiti domenica, quello di sci e quello di biathlon. Per non parlare del fatto che da giovedì sono in pista con i commenti dei mondiali di sci di fondo dalla Val di Fiemme (Tommaso Manià commenterà invece i salti), per cui ho visto il più possibile delle gare di questi ultimi tempi di questo sport (che fra l’altro mi piace tantissimo, per cui non è stato nessun tipo di sacrificio, sia ben chiaro). Mi sono entusiasmato alle gesta della Maze, dei saltatori sloveni che per un pelo non hanno vinto la tournee tedesca a squadre (c’è voluta la migliore Norvegia per batterli – di 9 punti su un totale di oltre 1400!), dell’allucinante successo di Jesenice che, unica cittadina al mondo, andrà alle Olimpiadi con la sua squadra di hockey, mi sono meravigliato per le ragazzeaostane e di Anterselva che hanno vinto un incredibile bronzo nella staffetta di biathlon, insomma il mio interesse è rimasto lontano dal basket. Ho visto solo alcune partite di Coppa Italia, ovviamente Varese-Milano (ma non avevo già scritto tempo fa che Varese mi sembrava semplicemente migliore di Milano?) e la finale che Siena ha vinto in sostanza perchè l’esperienza acquisita giocando partite chiave nelle competizioni internazionali è fondamentale. Poi puoi fare quel che vuoi, ma un 0 a 19 all’inizio lo paghi, non c’è via di scampo. Fra l’altro durante la partita mi chiedevo continuamente perchè Vitucci non mettesse De Nicolao su Brown, essendo l’unico giocatore di Varese con lo stesso passo di Brown e dunque poteva impedirgli di tirare le sue famose triple sotterranee (le scocca infatti partendo da altezze infime, anche se supplisce a ciò con la sua eccezionale velocità di esecuzione) costringendolo a penetrare o comunque a fare cose che avrebbe preferito non dover fare (segreto di ogni difesa individuale). E infatti guarda caso, appena lo ha fatto, Siena ha segnato zero punti nei primi sei minuti dell’ultimo quarto ed è stata salvata solo dalla decisiva tripla di Hackett che è stata il canestro di tutta la Coppa Italia.

Per questa ragione oggi vorrei intavolare un tema che finora mi sembra sia stato affrontato poco e supeficialmente. Insomma la mia solita tiritera teorica che però spero venga almeno letta se non apprezzata, ma che comunque serva da stimolo per un po’ di esercizio per le cellule grigie di chi legge.

Parlo del mestiere di coach e di che qualità debba avere una persona che vuole diventare un bravo allenatore di basket. Per far ciò bisogna innanzitutto partire da una analisi su cosa si debba fare per trasformare cinque singoli in una squadra, insomma su come si ottimizza il materiale umano che si ha a disposizione..

Prima premessa. Parlo esclusivamente di coach di squadre senior per le quali l’unico metro di successo è il risultato ottenuto alla fine del campionato. Per le squadre giovanili il profilo dell’istruttore di successo è completamente diverso.

Seconda premessa a mo’ di introduzione. Il bravo coach deve capire di basket. Sembra stupido, ma lo è molto meno di quanto sembri. Uno che non è stato un bravo giocatore, diciamo un giocatore chiave per la Lega nella quale giocava (che, intendiamoci, poteva anche essere la Prima divisione, il livello assoluto non c’entra, c’entra solo quello relativo), che era il leader della sua squadra in campo, ma soprattutto fuori dal campo, che era il punto di riferimento morale e spirituale della squadra, che veniva ascoltato quando dava consigli sia tecnici che umani, non potrà mai essere un coach di vertice. Potrà essere un bravo studente, una persona che passa tutti gli esami di coach con il massimo dei voti, che conosce a memoria tutti gli schemi praticati dai più grandi coach, ma a mio avviso a una persona del genere mancherà sempre qualcosa, anzi, più che qualcosa, mancheranno proprio le doti fondamentali e imprescindibili del grande coach. Un grande coach deve capire l’essenza del basket, deve sapere quali sono le cose importanti e quelle accessorie, cosa deve avere un giocatore per poter migliorare, deve insomma avere una visione a quattro se non cinque dimensioni dei giocatori con cui ha a che fare, perchè oltre a valutarli per quello che sanno fare in quel preciso momento deve saperli anche valutare dal punto di vista mentale ed emotivo per capire quanto e come possono essere allenabili sempre con la visione temporale di che tipo di giocatore avrò fra un dato lasso di tempo e quale sarà la sua collocazione all’interno della squadra che voglio creare. Capire di basket vuol dire anche selezionare (sempre che la situazione finanziaria della società nella quale opero lo consenta) i giocatori in modo tale da scegliere solo quelli funzionali al progetto che si ha in mente che deve sempre e comunque essere quello di mettere in campo cinque giocatori che pensano all’unisono e fanno il massimo che un coach possa ottenere: rendere di più della somma dei valori individuali di ciascuno dei cinque.

Detto questo posso passare alla discussione vera e propria. Secondo me il valore di un coach si giudica in quattro campi diversi ed è dunque la somma di quattro diverse valutazioni che sono abbastanza scollegate fra loro, almeno dall’esperienza personale che penso di avere. Bisogna valutare: a) la sua capacità di far progredire tecnicamente, mentalmente e dal punto di vista comportamentale i singoli giocatori a sua disposizione, b) la sua capacità di amalgamare il gruppo creando le giuste gerarchie in squadra, omogeneizzando i vari livelli e tipi di motivazione dei singoli giocatori (magistrale lezione in merito di Lucio Zanca a Trieste la scorsa stagione) per trasporre il tutto al servizio del fine ultimo, che è quello di vincere le partite, insomma la capacità di “creare” una squadra senza particolarismi e egoismi con tutti che remano nella stessa direzione, ognuno consapevole dell’esatto compito che a lui viene richiesto, e unita a questa la capacità di gestire lo spogliatoio ed i rapporti interpersonali fra giocatori, funzionari e staff tecnico, capacità questa che presuppone anche grandi doti umane, col fine ultimo di riuscire a far passare l’idea che si è in presenza di persone che hanno una vita anche al di fuori del basket, persone che bisogna gestire dunque nella loro interezza e complessità sempre affermando la propria autorità con l’esempio e la coerenza e non certo con metodi coercitivi che sono il rifugio ultimo degli incapaci in ogni campo della vita sociale, c) capacità di gestire la partita preparando il piano giusto sapendolo cambiare in corsa, reagire prontamente alle situazioni contingenti, azzeccare i cambi e le difese, insomma essere svegli e reattivi in panchina e infine, d)punto di valore assolutamente insignificante dal punto di vista tecnico, ma che è purtroppo quello più importante agli occhi dei media e dell’opinione pubblica, che è la capacità di gestire i rapporti con la proprietà, la stampa ed i tifosi, insomma la capacità di vendere fumo per tenere buoni soprattutto i giornalisti, categoria sommamente narcisista che pensa che il mondo ruoti attorno a loro, per cui se non li aduli e li tratti da persone altamente importanti, non vali niente. Vulgo la dote d) si chiama paraculaggine ed è quella più visibile e più amplificata dai media, ma, ripeto, dal punto di vista del valore intrinseco del coach non ha nessunissima importanza. Questo ovviamente dal punto di vista teorico (un nome salta subito alla testa, Matteo Boniciolli), perchè poi in pratica se la stampa ti massacra ci sono inevitabili strascichi nello spogliatoio, ma soprattutto nella proprietà, il più delle volte formata da gente incompetente di basket (o, peggio ancora, che pensa di essere competente – guarda caso se chi comanda è un grande ex giocatore di basket tipo Vescovi le cose vanno subito bene – che caso, no?) che per principio e convenienza ascolta i giornalisti e la piazza, per cui finisce per sottoporre il coach ad una pressione tale che alla fine scoppia. Tutto ciò però, spero di essermi spiegato, con le vere capacità del coach non c’entra niente.

Da quanto scritto sopra i più astuti di quelli che mi leggono avranno capito che per me il punto assolutamente fondamentale e dirimente è quello b), anche se affermo subito per dovere di chiarezza che reputo importantissimi anche il punto a) e quello c). Il coach che difetta in uno qualsiasi di questi punti non può ambire a nessun posto alto nella classifica dei migliori coach in circolazione. Un po’ come l’atleta del triathlon scarso nel nuoto che parte per la corsa in bici dieci minuti dopo l’ultimo davanti a lui. Per quanto poi possa essere Contador e Kenenisa Bekele la gara non la vincerà comunque mai. Tornando al discorso coach a me si apre il cuore quando vedo una squadra che gioca secondo un criterio ed una filosofia precisi, una squadra nella quale si sa chi beve e chi paga, chi risponde di cosa, nella quale ognuno viene ottimizzato per quello che sa fare meglio e mascherato dagli altri in quello che sa fare peggio, insomma quando vedo una squadra vera. La quale però può comunque perdere se il coach dorme in panchina e sbaglia i cambi decisivi o chiama un gioco sciagurato nei momenti decisivi.

Per finire ancora una piccola postilla sul punto a) che è quello più delicato perchè paga solamente a lungo andare e viene apprezzato da pochi. Un altro nome salta qui subito in mente ed è quello di Luca Banchi. Qualcuno si ricorda il primo Eze? O il primo Ress? Qualcuno avrà pur insegnato a Aradori a diventare un giocatore chiave appena uscito da una situazione che sicuramente non si può imputare a Banchi. Per non parlare di Hackett che in quattro mesi a Siena sembra diventato un altro giocatore, quasi fosse il gemello bravo e intelligente di quello che era a Pesaro. Oddio, Luca è un amico per cui posso essere vergognosamente parziale, ma un qualcosa di vero in quanto detto c’è sicuramente. Questo per dire che la dote a) è una dote invisibile a prima vista che però nel tempo è forse quella che pesa di più e lascia il segno più duraturo nella squadra e nella società.

Quasi quasi cambio idea su quanto detto a proposito della dote b)…