Secondo i pronostici, a quest’ora avremmo dovuto scrivere e pubblicare il commento di gara 1 della finale tra l’EA7 e una qualsiasi vittima sacrificale. Invece, a cinque giorni dalla storica gara 7 della serie contro la Dinamo Sassari, a mente fredda proviamo a fare una sorta di analisi del disastro (annunciato) della stagione milanese, partendo appunto da gara 7 e, andando a ritroso, comprendendo l’intero biennio con Banchi in panchina (se non oltre).
Vi avvisiamo, il pezzo è molto lungo, perché, in una situazione complessa come questa, abbiamo voluto andare a fondo della questione.

Alessandro Gentile, capitano dell'Olimpia (Foto: Savino Paolella)

Alessandro Gentile, capitano dell’Olimpia (Foto: Savino Paolella)

Iniziamo la nostra analisi con le parole di Alessandro Gentile, riportate dalla “Gazzetta dello Sport”, al termine di gara 7 tra Milano e Sassari, che ha sancito il passaggio dei sardi in finale e la conclusione anticipata, rispetto a quelli che erano gli obiettivi dichiarati, della stagione milanese: «La delusione è enorme, questo è un fallimento totale che coinvolge tutti. Complimenti a Sassari che ha meritato questa serie lunga e intensa. Ci hanno battuto tutto l’anno ed è giusto che vadano in finale. Sono disperato tra l’altro per come ho giocato questa partita. Non sta a me dire cosa è mancato alla squadra, io faccio il mio lavoro di giocatore. Sicuramente qualcosa è mancato e se la stagione è andata così è stato un fallimento di tutti. Dal primo all’ultimo, nessuno escluso.»
Le parole del capitano dell’Olimpia riassumono alla perfezione un’annata disastrosa sotto tutti i punti di vista; un disastro, tuttavia, non particolarmente sorprendente, le cui prime avvisaglie risalgono già alla scorsa estate, e che ha avuto quasi sempre la stessa cartina di tornasole: la Dinamo Sassari.

UNA SERIE DI 11 PARTITE. L’ha spiegato in modo semplice ed efficace coach Meo Sacchetti, nella conferenza stampa post-gara 7: «Questa partita finita al supplementare è stata la degna conclusione di una lunghissima serie: quest’anno contro Milano abbiamo giocato 11 partite, 5 vinte da noi, 5 da loro; noi abbiamo vinto l’ultima, e non solo, abbiamo vinto anche le altre due gare secche con qualcosa in palio (Supercoppa e Coppa Italia, ndr). Questo mi fa pensare che forse in certe situazioni noi abbiamo qualcosa in più».
Senza nulla togliere al valore dimostrato da Sassari sul campo, forse sarebbe più corretto dire che è stata l’EA7 ad avere qualcosa in meno: una squadra costruita puntando al triplete in Italia, e a ripetere, se non migliorare, quanto fatto vedere in Eurolega nella stagione precedente, ha fallito clamorosamente tutti e quattro gli obiettivi, non riuscendo mai a sfruttare le qualità che un budget di alto livello avrebbe dovuto portare. A cominciare, o meglio, per finire con gara 7 di semifinale.

POCHI SECONDI CHE VALGONO UNA STAGIONE. Prendiamo come esempio, anzi, come simbolo proprio gara 7. Dopo aver compiuto un mezzo miracolo, pareggiando la serie sul 3-3 dopo essere andata sotto 3-1, l’Olimpia era tornata la grande favorita per il passaggio del turno: non più “solo” la squadra più attrezzata, ma anche quella con l’inerzia e l’entusiasmo dalla sua parte. E infatti fino a meno di 10 secondi dal termine, Milano aveva già un piede (diciamo un piede e mezzo) in finale; poi, cos’è successo? Un mix di scelte tecniche sbagliate, arbitraggio scadente, arroganza, superficialità, inferiorità dal punto di vista caratteriale: più o meno le stesse cose già viste più volte durante l’anno. Sul +3 siglato dalla lunetta da Cerella, dopo il timeout Sassari ha la rimessa da metà campo; la palla va a Dyson, Melli arriva a difendere aggressivo, forse troppo, e forse inutilmente (perché mai un lungo dovrebbe andare a pressare a metà campo il piccolo avversario quando mancano 9 secondi e l’obiettivo della difesa è mandare in lunetta gli avversari prima che possano prendere un tiro da tre?). Fatto sta che Melli non fa fallo: arriva appunto aggressivo, si ferma, Dyson incrocia con un gomito sospettosamente alto, che colpisce Melli in piena faccia.

Chiari, l’arbitro che si trova a mezzo metro di distanza, sanziona invece il contatto al lungo milanese e regala due liberi ai sardi con 9 secondi sul cronometro: la degna conclusione di una serie arbitrata in modo pessimo anche per un campionato di prima divisione (con tutto il rispetto per la prima divisione). Ma se l’episodio appena descritto può essere imputato per la maggior parte a una svista arbitrale (ma sì, chiamiamola così), tutto ciò che succede dopo è esclusivamente colpa di Milano (o merito di Sassari, ovviamente). Dyson va in lunetta, segna il primo, sbaglia il secondo, lotta a rimbalzo, palla allo stesso Dyson, che tira, sbaglia, nuova lotta a rimbalzo, palla a Sanders, che tira e stavolta segna a pochi decimi dalla sirena.

Si potrebbero fare molte considerazioni su questi pochi secondi; andiamo con le prime tre che ci vengono in mente:

– Scelta tecnica: Banchi lascia in campo il quintetto piccolo, con Moss da ala forte, nonostante ci sia da andare a rimbalzo su tiro libero. È vero, manca ancora parecchio perché si sbagli apposta il secondo, e Dyson è un ottimo tiratore, ma… Siamo sicuri che valesse la pena di rischiare l’eventuale rimbalzo che potrebbe costare la stagione?

– Lucidità: sull’errore di Dyson la palla torna fortuitamente in mano alla stessa guardia americana, che si allontana di un paio di passi dall’area per tirare di nuovo. Vi invitiamo a guardare voi stessi il video linkato poco sopra e, al minuto 0:22, a osservare il posizionamento della difesa milanese: Sanders e Lawal sono gli unici due giocatori presenti in area.

– Voglia: bastavano un po’ di grinta, un po’ di aggressività in più, per catturare almeno uno di quei due fatali rimbalzi; o, almeno, per fare fallo su Sanders prima che tirasse. Ma qui si torna alla lucidità di cui sopra.

Con il pareggio di Sanders la partita non è finita, ma pochi hanno avuto dubbi sul fatto che sarebbe stata Sassari ad avere la meglio nel supplementare; anche in questo caso, individuiamo tre fattori:

– Inerzia: la stessa che Milano aveva riconquistato in gara 5 e in gara 6, mantenuto per 39 minuti e 50 secondi e regalato di nuovo ai sardi nel finale del quarto periodo.

– Leadership: David Logan è un leader vero, e lo ha dimostrato ancora una volta. Dopo 40 minuti mediocri da 9 punti con 4/14 al tiro, vince praticamente da solo l’overtime con 7 punti (contro i 6 dell’intera Milano) e 2/3 al tiro (più due liberi).

– Stanchezza fisica e mentale: Banchi ha giocato tutto il secondo tempo spremendo fino allo sfinimento 6-7 giocatori, con Gentile a forzare tiri quando, già in giornata storta, non ne aveva davvero più, Moss a tirare airball dall’angolo, un eufemisticamente poco brillante Hackett a forzare situazioni a lui non congeniali, Samuels, sfinito, a farsi mangiare in testa a rimbalzo e Cerella a doversi prendere responsabilità che non sono proprio il suo pane quotidiano.

Riassumendo, di chi è la colpa? A nostro parere, 25% degli arbitri (il fallo di Melli non c’era, anzi, a ben vedere il fallo era di Dyson; ma diciamo che l’errore arbitrale va accettato), 25% dei giocatori (quei rimbalzi valevano la stagione, dovevano prenderli), 50% di Banchi e dello staff tecnico, che hanno operato scelte a dir poco discutibili. Non solo nel finale, nemmeno nella partita, e nemmeno nella serie, ma proprio in tutta la stagione (ci torneremo tra poco). Nella conferenza stampa post-gara, Banchi si è preso la responsabilità delle sue scelte, sottolineando però che «se fossimo riusciti a conquistare quel pallone, adesso parleremmo di un’altra storia»; poco prima, proprio a proposito di quel pallone e del finale di partita, aveva detto: «non abbiamo avuto la lucidità, il cinismo e la fortuna che sarebbero servite per portare a casa una vittoria che per lunghi tratti sembravamo in grado di poter afferrare, fino agli ultimi istanti».

Luca Banchi (Foto: Savino Paolella)

Luca Banchi (Foto: Savino Paolella)

A PROPOSITO DI FORTUNA. Fa sorridere che sia proprio Banchi a parlare di fortuna: a ben vedere le sue due stagioni a Milano non possono essere considerate un totale fallimento solo perché lo scorso anno, in gara 6 contro Siena, Curtis Jerrells infilò una tripla miracolosa allo scadere. Utilizziamo per un attimo il sillogismo banchiano: se la fortuna non avesse fatto entrare il tiro di Jerrells, Siena, con una squadra che non era nemmeno lontana parente di quella che aveva dominato il basket italiano negli anni precedenti, avrebbe avuto una seria possibilità di vincere lo scudetto. E, di conseguenza, Banchi avrebbe chiuso il bilancio del suo biennio milanese con due inutili primi posti in stagione regolare e, come si direbbe nel mondo del calcio, “zeru tituli”. Tutto questo nonostante il budget più alto di tutta la pallacanestro italiana, e con un certo distacco dalle altre.

RESPONSABILITÀ. Lasciamo perdere la fortuna e parliamo di quello che si è visto in campo un paio di volte a settimana da ottobre in poi: una squadra disunita, senza uno straccio di gioco offensivo che andasse oltre isolamenti, sporadici e inefficaci pick’n’roll e macchinosi penetra e scarica, spesso messa in campo con quintetti a dir poco fantasiosi. E se l’anno scorso la difesa, principale marchio di Banchi, funzionava e faceva vincere diverse partite, quest’anno si è vista solo a sprazzi, sia perché i nuovi acquisti non erano particolarmente conosciuti per la loro attitudine difensiva, sia perché, con loro in campo, anche giocatori più grintosi si adeguavano al clima da vacanza imperante. Se Banchi nel secondo tempo di gara 7 si è visto costretto a giocare con i soli Gentile, Hackett, Cerella, Moss, Samuels, Melli e Ragland (quest’ultimo solo perché era uno dei pochi a fare canestro), è perché ha capito che solo con questi giocatori avrebbe potuto provare a vincere. E questo è paradossale, se si pensa che la principale forza di Milano quest’anno era (o avrebbe dovuto essere) nella profondità e nella qualità di tutto il roster.
Ma allora di chi è la colpa? Chi ha scelto i giocatori? Com’è possibile che, ormai da anni, si spendano vagonate di soldi per prendere dei giocatori che, nella maggior parte dei casi, quando va bene giocano discretamente e nulla più? Com’è possibile che ogni allenatore che arriva ad allenare a Milano fallisca clamorosamente? La risposta, da ogni parte, è sempre uguale: l’ambiente. Già, ma cosa vuol dire “l’ambiente”? Ci arriveremo tra poco.

LE PAGELLE DEI GIOCATORI. Prima, tiriamo un po’ le somme, anzi, diamo proprio i voti alla stagione dei giocatori dell’EA7, andando forse anche un po’ controcorrente; giocatori, ricordiamolo, scelti da Banchi e dallo staff tecnico-dirigenziale per dominare in Italia e fare bene in Europa.

Samardo Samuels: 7. È stato il punto di riferimento dell’attacco milanese fin dalle prime partite, ed è stato uno degli ultimi ad arrendersi. Ha dominato in Italia ma è stato dominato in Eurolega, nonché in generale a rimbalzo (compreso nella famigerata gara 7), ma che non fosse la specialità della casa già si sapeva.
Alessandro Gentile: 7. Un inizio di stagione così così, anche per qualche acciacco fisico, ma è cresciuto di partita in partita, diventando un giocatore decisivo, più oculato nelle scelte, e vero leader. Dopo una grande, grandissima serie di semifinale, ha toppato alla grande gara 7, in cui, nonostante la serataccia al tiro, ha continuato a forzare fino alla fine, un po’ per provare a vincerla da solo, un po’ perché in effetti, giunti a quel punto, di fatto le alternative non erano molte…

(Foto Savino PAOLELLA 2015)

Bruno Cerella, idolo del Forum (Foto: Savino Paolella)

Bruno Cerella: 7. Dimenticato in panchina per tutto l’anno, quando Banchi ancora sperava di far crescere i più celebri nuovi acquisti, è stato richiamato in causa con l’inizio dei playoff, e, come al solito, ha dato il 110% di quello che poteva. In attacco ha i suoi limiti, e spesso gli si chiedono miracoli fuori dalle sue corde, ma in difesa è un fattore che può girare le partite; sempre che dall’atra parte qualcuno la butti dentro, è ovvio…
Frank Elegar: 6,5. Salta, stoppa e schiaccia. Non sa fare altro, ma si sapeva (o almeno avrebbero dovuto saperlo i membri dello staff quando l’hanno firmato). E quello che sa fare l’ha fatto piuttosto bene. Che poi questo non fosse abbastanza per il livello richiesto come backup di Samuels è un altro discorso.
Angelo Gigli: 6,5. Ha passato tutta la stagione a scaldare la panchina e sventolare asciugamani; trattato come un quarantenne, lui che di anni ne ha 32 e che sa giocare a basket per davvero, è rimasto al servizio della squadra senza mai una parola fuori posto, da vero professionista. Uno dei pochi di questa squadra.
MarShon Brooks 5,5. Un inizio disastroso, poi piano piano ha capito come funzionano il basket europeo e quello italiano ed è cresciuto, arrivando a fare quasi quello che voleva in campionato grazie a un talento smisurato. Poi sono iniziati i playoff, altro muro contro cui è andato a sbattere. Certo, dopo un’incoraggiante gara 6, forse in gara 7 Banchi avrebbe potuto dargli un po’ più dei 10 miseri minuti concessigli nel primo tempo, soprattutto quando la squadra aveva bisogno di punti come dell’ossigeno.
Jonathan Tabu: 5. Preso a fine stagione come “polizza assicurativa” in caso di infortunio a uno degli esterni, quando l’emergenza è arrivata (squalifica di Hackett) ha giocato pochi, anonimi minuti, quasi timoroso anche solo di prendersi un tiro. Domanda 1: era davvero necessario? Domanda 2: davvero non c’era di meglio in giro?
Nicolò Melli: 5. Spiace dare un voto così basso a un giocatore che, comunque, non ha mai fatto mancare il suo impegno. Ma è inutile negare l’evidenza: la stagione del (sempre meno) giovane lungo reggiano è stata una vera delusione. Se l’anno scorso non era esploso come qualcuno sperava, ma aveva comunque fatto vedere qualche incoraggiante passo avanti, quest’anno se ne aspettavano perlomeno altrettanti. Invece, Melli è addirittura involuto, arrivando a essere praticamente nullo in attacco quando invece più sarebbe servito, con una difficoltà al tiro figlia probabilmente di una fiducia nei suoi mezzi sempre più declinante.
David Moss: 5. Provato dalle tante botte prese negli anni e da un fisico che lo sorregge sempre meno, il buon Moss da baluardo difensivo sta lentamente trasformandosi in ex giocatore. Nonostante l’impegno, che non è mai mancato, a parte qualche sprazzo in difesa e ancor meno sprazzi offensivi stagione purtroppo ampiamente insufficiente.
Joe Ragland: 5. Altalenante in campionato, in seria difficoltà in Europa, “Slow ball handling” ha mostrato tutto quello che non è (costruttore di gioco, trattatore di palla, difensore in 1 vs 1) e tutto quello che è (sporadico tiratore di striscia, sporadico penetratore contro avversari più deboli di lui fisicamente). E non si può certo dire che sia abbastanza.

Daniel Hackett, troppo spesso seduto a guardare (Foto: Savino Paolella)

Daniel Hackett, troppo spesso seduto a guardare (Foto: Savino Paolella)

Daniel Hackett: 4,5. È difficile, molto difficile analizzare obiettivamente la stagione di Hackett, che ha alternato ottime prove, soprattutto dal punto di vista dell’intensità, ad altre in cui è parso il fantasma di se stesso, come la fatidica gara 7. Non si possono poi dimenticare le sue assenze: prima i tre mesi di squalifica per la nota vicenda estiva con la Nazionale, poi le due giornate per l’espulsione in gara 4 contro Sassari, per aver, come si dice in gergo squisitamente tecnico, perso la brocca. Insomma, due indizi non fanno una prova, ma forse qualche dubbio sulla sua professionalità inizia a venire.
Shawn James: 4. Oggetto volante (?) non identificato. In teoria avrebbe dovuto dividersi i minuti con Samuels nel ruolo di centro proprio per dare ciò che Samardo per struttura fisica non può dare (verticalità, rimbalzi, intimidazione), ma in pratica ancora non si capisce perché sia stato preso (i suoi problemi fisici erano ben noti), perché sia stato messo in campo a inizio stagione (quando evidentemente non stava bene) e perché poi sia stato addirittura relegato in tribuna alla fine dell’anno (quando, almeno a suo dire, era perfettamente in salute). Non è polemica, sono dubbi reali, per i quali tifosi e giornalisti aspettano da tempo una risposta.
Linas Kleiza: 2. Che dire, è il simbolo del fallimentare mercato estivo milanese. L’acquisto di punta, il campione, il giocatore di classe ed esperienza che avrebbe dovuto far fare il salto di qualità alla squadra ha finito la stagione spiaggiato in panchina per 45 minuti nella partita decisiva per la stagione. E per fortuna. Molle, svogliato, indolente, inesistente in difesa, scheggiaferri in attacco (aiutato, a onor di verità, dal fatto che non esistesse uno straccio di gioco offensivo per liberarlo al tiro), imbarazzante in generale, maestro nell’aggiustare le cifre nell’ultimo quarto, quando, in campionato, normalmente Milano aveva almeno 15 punti di vantaggio. E il tutto alla modica cifra di 700.000 euro. Se 1 è il voto minimo, gli diamo 2 giusto per quelle due o tre partite da vero campione che ha disputato.

INADEGUATEZZA, QUESTA È LA PAROLA. È vero che le pagelle sono opinabili per definizione, ma sfidiamo chiunque a contestarcele nella sostanza, e a contestarci, in particolare, il fatto che i due (quasi tre) peggiori giocatori della stagione siano stati i nuovi acquisti annunciati con squilli di tromba la scorsa estate. Dopo un fallimento come quello vissuto da Milano quest’anno, un allenatore dovrebbe dimettersi. E allo stesso modo, dopo un fallimento nel mercato come quello della scorsa estate, chi quegli acquisti li ha disposti dovrebbe dimettersi. Ma in Italia, e soprattutto a Milano, la parola “dimissioni” non esiste.

Flavio Portaluppi (Foto: Savino Paolella)

Flavio Portaluppi (Foto: Savino Paolella)

Esiste però, eccome, la parola “inadeguatezza”: inadeguato è stato Luca Banchi come coach, per i motivi che abbiamo abbondantemente elencato in precedenza. Così come sono inadeguati il presidente Flavio Portaluppi e il general manager Simone Casali, che non hanno azzeccato un’operazione di mercato nemmeno per sbaglio. Forse perché non basta essere stato una bandiera dell’Olimpia Milano da giocatore per essere un buon dirigente. Allo stesso modo, si stenta a capire come possa essere adatto a ricoprire la carica di general manager della prima squadra italiana per budget, nonché società che ambisce a entrare tra i top team europei, un ragazzo poco più che trentenne che nel giro di un paio d’anni è passato da scout a team manager e da team manager alla carica attuale, senza mai aver fatto esperienze simili altrove.
A essere inadeguata, allora, è la società tutta; e in tutto, perché le figuracce non si fermano alle questioni legate al basket. Limitiamoci a un esempio eclatante: il malfunzionamento della rete Wi-Fi per la tribuna stampa, che ufficialmente c’è, ma che in pratica non funziona da anni, e costringe i giornalisti a munirsi di chiavetta o a utilizzare il proprio smartphone come modem per poter lavorare. E se per chi è presenza fissa al Forum ormai è la prassi, per chi viene da fuori, magari dall’estero, magari da quei Paesi che un top team europeo ce l’hanno, questa situazione appare tutt’altro che normale. Più volte i colleghi turchi, spagnoli, greci, russi, israeliani ci hanno chiesto: «Ma la password del Wi-Fi è questa?» e, al nostro «Sì, ma tanto non funziona», ci hanno risposto con uno sguardo allibito. Ma il problema di fondo, a ben vedere, non è il malfunzionamento, è come si cerca di (non) risolvere il problema. Perché quando, ogni tanto, chiediamo: «Ma perché non funziona il Wi-Fi?», la risposta dell’ufficio stampa a volte è: «A me funziona», a volte «Non è colpa nostra, è colpa del Forum». Insomma, negare il problema o “scaricare il barile”.
Proviamo allora a chiedere perché Simone Casali sia stato promosso general manager, per quali meriti che non siano quelli sportivi (ovvero acquisiti sul campo in maglia biancorossa) Flavio Portaluppi sia presidente, perché siano stati presi un giocatore con evidenti limiti fisici per poter primeggiare in Europa (Ragland), un altro con evidenti limiti di salute (James) e un altro ancora con evidenti limiti caratteriali (Kleiza). E, ancora e soprattutto, chi sia il responsabile di questi acquisti. E come abbia fatto a non centrare nemmeno un obiettivo stagionale una squadra che, solo per i contratti dei due peggiori giocatori visti quest’anno (Kleiza e James, se ancora ci fossero dubbi), ha abbondantemente superato il milione di euro, una cifra con cui si potrebbe costruire una squadra in lotta per i playoff. A queste domande, le reazioni sarebbero sempre le stesse degli ultimi anni: risposte vaghe e inconcludenti. In linea con l’andamento della squadra.

Linas Kleiza ha dato spesso l'impressione di preferire stare comodamente seduto in panchina (Foto: Savino Paolella)

Linas Kleiza ha dato spesso l’impressione di preferire stare comodamente seduto in panchina (Foto: Savino Paolella)

QUALE FUTURO? Le parole d’ordine che si leggono in questi giorni su giornali, siti web e forum dei tifosi sono bene o male sempre le stesse: rivoluzione, rifondare, mandare via tutti e ripartire da zero (o quasi). Quasi tutti, però, si fermano a chi è in campo: via Kleiza e James, via Hackett che non è gestibile, via Melli che ha deluso, via Moss che non si regge più in piedi. Via Banchi, che non ne ha azzeccata una. E basta. A nostro parere, invece, bisogna andare a monte del problema: se rifondazione deve essere, lo deve essere per davvero, a tutti i livelli. Serve gente competente, adeguata al livello che, stando alle dichiarazioni di ogni inizio stagione, si vuole raggiungere. Per il dopo-Banchi, il quale, per la cronaca, ufficialmente al momento è ancora al suo posto, si fanno già le voci di Pianigiani, Djordjevic, addirittura di Obradovic; per non parlare dei giocatori, per i quali il fantamercato già impazza.
Ma se si vuole rifondare, a nostro parere tutto gira intorno a un nome solo: Giorgio Armani. Il patron dell’Olimpia deve avere il coraggio di aprire gli occhi, riconoscere il fallimento, l’inutilità di tutti i (tanti) soldi spesi negli ultimi anni, e realizzare che buona parte di questo fallimento è dovuto alle persone che lui ha scelto di mettere al comando (o, più probabilmente, alle persone scelte da colui al quale lui ha delegato il comando). Lo ripetiamo, serve gente competente, ma realmente competente, non dirigenti improvvisati o consulenti più o meno fantasma che agiscono in modo poco chiaro dietro le quinte, senza che nessuno si prenda mai una responsabilità netta. Altrimenti, l’anno prossimo si sarà, ancora una volta, allo stesso punto.