Omaggio di DailyBasket al leggendario allenatore di Pljevlja

“Boscia non era un uomo: era un romanzo. D’amore, rabbia e avventura. Innamorato della luna, nelle notti fredde, limpide e serene. Boscia guardava i fuochi nella notte di Milano, non erano i falò accesi per scacciare i lupi in una vigilia rivoluzionaria, ma soltanto cupi segnali d’improvvisati mercati dove si vendono e si comprano corpi avariati, non certo l’anima delle cose e della gente, come sognava Tanjevic. Boscia deve aver patito tristezze metropolitane. Avara. Per uno zingaro tenero e crudele, che amava bere il fuoco liquido e sognare l’Utopia e la Città del Sole’

Boscia Tanjevic (foto Trendbasket.com)

Cominciamo così, con le ineffabili parole del nostro maestro Werther Pedrazzi, l’elegia-omaggio-panegirico a Bogdan Tanjevic detto Bosci,  nato a Plievlja nel febbraio del 1947. E d’altro canto non potrebbe essere altrimenti.

Non a caso (come nulla, del resto, nella storia di questo intellettuale tardo moderno prestato al cesto) nell’immediato Dopoguerra, quando la Jugoslavia di Tito è appena diventata (dal novembre 1945) Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia. Diverrà Socialista (nel nome) dal 1963, puntando a conciliare l’utopica- una costante, nella vita di Boscia- esigenza di coniugare libertà sociale e giustizia economica.

Pedrazzi (Foto Savino Paolella 2014)

Pedrazzi (Foto Savino Paolella 2014)

E’ solo la forza dell’utopia a consentire, per quasi 50 anni, di sedare il ribollente sostrato storico ed etnico delle genti di Serbia, Croazia, Bosnia, Slovenia, Montenegro, Kosovo…

Ed è con la stessa forza che Boscia Tanjevic, che annuncia il suo ritiro dopo Eurobasket 2017 salvo poi ascendere ad una posizione di responsabilità in seno alla Federazione Italiana grazie a un fulmineo raid politico sportivo di Gianni Petrucci, il Divo del basket italiano (sorrentiniamente parlando), ha sempre condotto la sua esistenza e la sua superlativa carriera di zingaro delle palestre di mezza Europa. Tenero, crudele. Capace di sfidare a scacchi la morte, irridendola come solo le genti balcaniche sanno fare; ce l’ha insegnato Sergio Tavcar nel suo essenziale libro sulla storia cestistica jugoslava. Il libro graficamente più brutto della storia, ma anche uno dei più preziosi. Eccola, scandita in pochi microcapitoli, l’epopea di Boscia.

IL BOSNA DEI MIRACOLI CHE SPEZZO’ LA SUPREMAZIA DELLA VARESE DI GIOVANNI BORGHI

L’ingresso di Boscia Tanjevic nella storia cestistica europea risale al 1979, quando il Bosna Sarajevo (formazione che profuma di culto, per tutti gli amanti del ‘vero basket’, Tavcar dixit; quindi, esterofili americanofili pregansi astenersi) vince la coppa dei Campioni infliggendo l’acre odore della sconfitta all’Emerson Varese del commendator Giovanni Borghi. La formazione egemone nei Settanta, quando inanella dieci finali consecutive nella massima competizione del Continente. L’Emerson versione 1979, allenata da Dodo Rusconi, annovera stelle come Meneghin, Morse, Yelverton ed Ossola, assieme a storici comprimari come Caneva e Carraria. Il Bosna di Tanjevic schiera un centro 23enne di 208 centimetri destinato a durare e parecchio, Ratko Radovanovic, un certo Svetilav Pesic, autore del miracolo europeo del titolo europeo alla Germania nel 1993, e sua maestà Mirza Delibasic, che negli anni di Praja Dalipagic e Kreso Cosic contribuisce a rafforzare il mito della Jugoslavia moderna, quella che finirà la sua storia gloriosa con l’Oro ai Mondiali argentini del 1990 (la Nazionale di Drazen, Kukoc e Divac, allenatore Ivanovi) e quello agli Europei di Roma nel 1991, quelli del rifiuto di Zdovc e dei carri armati che muovono da Belgrado a Lubiana. Il 1991, peraltro, è il primo anno della carriera da allenatore di Zelimir Obradovic, che termina la sua carriera vincendo l’Oro mondiale nella Nazionale dei miracoli 1990.

L’Ignis Varese della stagione 1970-71

“Il diciottenne Mirza Delibasic ne scriveva 40 a referto, ad ogni partita, con uno stile inconfondibile. Uno e novantasette, magrissimo, giocava una partita di basket tutta sua: coordinazione e stacco da terra degne di un afroamericano, mani dolcissime per tirare e passare, visione di gioco e istinti cestistici di un’altra dimensione…Un alieno. Scelse clamorosamente Sarajevo, rifiutando le proposte più allettanti del potentissimo Partizan, consentendo a Tanjevic la costruzione di una rivale acerrima dei colossi serbi e croati. Mirza divenne all’istante il nostro Pete Maravich, perché abbinò alla sostanza una capacità irriproducibile di provocare divertimento e stupore con quelle invenzioni. La fama di scapestrato aveva preso corpo fin dai suoi esordi come tennista (!), quando fu considerato il miglior under 16 della nazione”

E’ così che Simone Basso, autore di culto per i cestofili underground, descrive sull’Indiscreto di Stefano Olivari Mirza Delibasic.

Ben prima dei fasti lucenti di Drazen in Nba, Mirza Delibasic vola a Madrid per vestire la camiseta blanca del Real. Ma, prosegue Simone Basso,   “Mirza nell’ultimo anno spagnolo, il 1983, andò in crisi a causa del suo fallimento matrimoniale. Lontano dall’urlo inumano dello Skenderija, senza una persona da amare e in un diabolico flirt con gli alcolici, fu salvato dal “fratello” Boscia che propose il suo ingaggio nella Juve Caserta di patron Maggiò. Rispettando il diktat di Tanjevic (niente sigarette e vino) s’allenò finalmente in maniera seria e fece sognare tutti nel sodalizio dove giocava un altro eletto come Oscar. Ma proprio alla vigilia dell’esordio un ictus pose definitivamente fine alla sua carriera agonistica”.

E lì comincia la seconda, leggendaria parentesi di Boscia… La stagione all’ombra della Reggia

 

MAGGIO’ E IL BRASILIANO PIANGENTE, LA NASCITA DEL MITO DI NANDOKAN. ANNO DOMINI 1982

Nel 1982 la Pallacanestro Caserta è presieduta da Giovanni Maggiò, proprietario del club da 11 anni, e milita in serie A2. Nel roster si leggono i nomi di La Gioia (Aldo Giordani, Aldo Giordani…), ‘Moka’ Slavnic, Donadoni, Carraro, Ricci, Mastroianni e quelli di un brasiliano classe 1958- Oscar Schmidt, l’uomo che pianse di gioia ai Panamericani del 1987 dopo la vittoria sulla nazionale Usa- e di un 15enne di Maddaloni, tale Ferdinando Gentile. Giunta seconda alla fine della regular, Caserta ottiene la promozione. Boscia tenta il colpo che avrebbe formato la più mortifera coppia di stranieri mai concepita così grandemente, per apparente contraddizione: Delibasic-Oscar. Un ictus metterà fine a quella utopia, e nel 2001 si porterà via per sempre Delibasic.

(Foto Savino PAOLELLA 2015)

(Foto Savino PAOLELLA 2015)

Che termina una carriera lunare a neppure 30 anni. Nell’ottobre del 1983, la prima partita dal vivo vista da chi scrive, al Pianella di Cucciago arrivano gli scugnizzi di Tanjevic, che sfidano la JollyColombani campione d’Europa. Nando Gentile, che le telecamere Rai immortalano mentre slalomeggia mancando di rispetto  Pierluigi Marzorati, prende per mano la Juve, che espugna il campo canturino. In panchina per la Jolly c’era Gianni Asti, in campo un lungagnone che lasciò lo stesso segno di Luther Blisset: si chiamava Les Craft. E’ una partita, a suo modo, storicissima. Ma Boscia non vincerà nulla, in quegli anni d’euforia da Prima Repubblica a cui Tanjevic oppone lo sprezzo dell’Utopia, in qualche modo coerente con lo Spirito del Tempo. Anche se nel cuore e negli occhi dello Zingaro Triste è sempre ben vivo il senso della Tragedia, e l’unità di tempo, luogo e azione. L’ultima versione di Caserta firmata Tanjevic è quella del 1985-86, formazione farcita di soldati che Gabriele D’Annunzio avrebbe preso tutti in vista dell’impresa di Fiume: Tato Lopez, barba da Tupamaro; Gentile, Dell’Agnello, il neppure maggiorenne Enzo Esposito, Generali, Ricci, Scaranzin, Capone ed Oscar. Sono due le finali raggiunte e perse quell’anno: in Korac, contro Roma, e in Campionato contro i satrapi dell’Olimpia della dinastia Peterson-Casalini. Boscia lascerà Caserta nelle mani di Franco Marcelletti, casertano classe 1955, che alzerà la coppa Italia nel 1988, si piegherà ai 62 di Petrovic nella finale di Madrid del 1989 finendo il cerchio leggendario avviato da Boscia nel 1982 stregando il Forum nel 1991, con Enzino in barella che smoccola ai microfoni Rai di Franco Lauro. C’eravamo anche quel giorno. Settore B qualcosa, posizione d’angolo. Per Boscia è tempo di trasferirsi nella Trieste dei caffè e della cultura impregnata di Krisis mitteleuropea, dove un effervescente imprenditore tessile dal nome di Giuseppe ‘Bepi’ Stefanel.

TRIESTE COME FIUME, SI FACEVA L’AMORE E SI POETAVA. PUR SENZA VINCERE

Trieste, nel 1984, è reduce dalle stagioni con l’abbinamento Bic, il divorzio da Dado Lombardi, l’avvento di Rudy D’Amico (che poi, a  Firenze, forgerà il mito di Jj Anderson), l’ex pro Nba Coby Dietrick e in seguito il funambolico Mike Harper. Stefanel prende la formazione ‘piombata’ nella terza serie nazionale,  chiama Boscia e ottiene due promozioni in fila, dalla B all’A1. Comincia l’epoca dei Pretoriani Triestini, giocatori di sfolgorante grandezza che vinceranno tantissimo, ma lontano da Chiarbola: Nando Gentile, Pilutti, Cantarelo, De Pol e ovviamente  Gregor Fucka e Dejan Bodiroga, che ricordiamo in una diretta del periodo natalizio infilare 50 punti col suo inarrivabile fare dinoccolato. Ci  dicono i taccuini che l’apice della Stefanel di Bepi e Boscia arriva probabilmente nel 1993-94, col secondo posto in coppa Korac e la semifinale scudetto contro Pesaro. Lo starting five era Gentile, Bodiroga, Pilutti, Fucka e Lemone Lampley. Non sappiamo perché, ma quella serie la vinse la Pesaro di Magnifico e Myers, salvo poi perdere in finale contro la Buckler di Zar Danilovic.

Le sliding doors di Boscia, capitolo a parte della sua parabola umana e sportiva, ci negarono anche quella volta un’occasione d’intrigante fascino: lo scontro Tanjevic-Danilovic. Eppure non bisogna confondere le vittorie con la riuscita di un’impresa: quella triestina di Tanjevic fu impresa analoga a quella fiumana, con gli arditi che reinventavano il linguaggio del cesto (la sfida di ragazzini lanciati nell’arena a dispetto delle riserve dei non visionari), facevano l’amore, giocavano e combattevano da poeti guerrieri. Il loro fine, come ricorda Joey Labbra Fagan in The Commitments, “era allargare gli orizzonti, combattere per qualcosa di più grande che qualche disco venduto”. O coppe messe nella teca. La riprova? Nessuno, mai, dimenticherà la Trieste del duo Stefanel-Tanjevic. Però si dimenticherà presto molto altro.

‘DOTTORE, BOSCIA PIU’ FORTE. ANCHE DELLA MORTE’

La vita di Boscia Tanjevic confina con la mistica. Come definire, infatti, quella volta in cui (pare) che il suo medico, comunicandogli l’ulteriore recidiva tumorale si espresse con parole del tipo ‘ Boscia, sei ancora malato. Questa volta è ragionevole pensare che morirai’, e lui, sprezzante (cit.) dall’altro capo del filo, rispose con parole del tipo ‘dottore, Boscia più forte. Anche della morte’. Più o meno lo stesso tenore della telefonata notturna di Bepi Stefanel (che lo manderà via da Milano dopo aver vinto il titolo italiano neo 1996), che sapendo della paventata e prossima dipartita terrena del suo coach lo chiamò dicendogli, in lacrime, ‘Boscia, ho pensato che non ti ho mai detto quanto ti voglio bene’. E mise giù la cornetta.

MILANO-PARIGI, CALL TO ACTION (AND TO WIN)

Gli anni Novanta di Boscia, nel medio voltare di pagina, proseguono col triennio targato Stefanel ed Olimpia, con la vittoria in coppa Italia e il titolo del 1996, cui seguirà un digiuno quasi ventennale. Bodiroga, Blackman e Bodiroga riportano il titolo alla società che fu di Adolfo Bogoncelli, mentre Nandokan di fatto chiude quasi 15 anni ai vertici del basket italiano di club aprendo la parentesi dei tre  anni al Panathinaikos. Tre titoli greci ed un’Eurolega alzata in 3 anni… In Francia, nel 1999, l’ultimo oro italiano di una generazione cresciuta nell’epoca dei Re Creso, culminata negli anni della presidenza della Lega di Gianni De Michelis (il Partito Socialista legge benissimo lo Zeitgeist) e l’avvento di Raul Gardini al Messaggero Roma, che ricopre di oro i vari Ferry, Cooper, Radja e Shaw.

Boscia Tanjevic (foto Trendbasket.com)

Il capolavoro di Boscia è probabilmente la vittoria in semifinale, il 2 luglio 1999 a Bercy, contro gli slavi Bodiroga, Danilovic, Divac, Loncar e Scepanovic. Una congrega di assi stoppata dai 17 di Fucka, i 16 di Meneghin e gli 11 di Myers. In finale la gloria contro la Spagna dell’era pre Gasol e Navarro, ma dov’evoluiva già il 19enne Felipe Reyes: 64-56, in doppia cifra ci vanno Myers (18), Abbio e Fucka (10). Una vittoria straordinaria, che si celebra mentre Clinton e la Nato sganciano bombe democratiche su Belgrado spezzando per sempre l’utopia jugoslava. Così come Boscia, eccezion fatta per l’argento di Charlie Recalcati ad Atene nel 2004, innalza per l’ultima volta alla gloria una Nazionale dove le differenze individuali si sublimano nello sforzo collettivo.

IL TERZO MILLENNIO, IL TRAMONTO DEL ROMANTICISMO, L’EXPLOIT TURCO… E LA DISSOLUZIONE DELL’EX JUGOSLAVIA

Il Terzo Millennio significa molte cose, nella vita di Boscia Tanjevic. La malattia, ancorché temibile ed insidiosa, non vince la partita della Vita e della Morte, come nella profezia al proprio medico curante. Dopo la guerra in Kosovo, la dissoluzione dell’ex Jugoslavia si completa in via definitiva, coi naturali passaggi e l’adesione delle repubbliche nate dalla diaspora agli organismi sovranazionali. Crolla per sempre l’Utopia (rieccola…) di tenere insieme serbi e croati, Belgrado e Sarajevo, la Slovenia e il Montenegro, così come Boscia  vagheggia in una dichiarazione d’amore riportata da Superbasket nel 1991. Sotto il rigido pugno di ferro titino, per decenni, hanno continuato ad ardere i richiami storici, esistenziali e memoriali alla battaglia di Piana dei Merli, del principe Lazar, dello scontro tra ortodossi e islamici, di Ante Pavelic e degli Ustascia, della pressione mussulmana nel cuore dell’Europa, di Arkan e delle sue Tigri, del nazionalismo socialista di Milosevic, della presidenza di Karadzic e del suo braccio armato Ratko Mladic, di Srebenica e del carattere drammaticamente sanguinario di popoli segnati da secoli di lotte sanguinose. Un braciere tratteggiato meravigliosamente dal cinema di Emir Kusturica o dalla musica di Goran Bregovic, un altro folle utopista che gira i festival d’Europa con la sua Wedding e Funeral Orchestra (ossia, banda per matrimoni e funerali…).

Solo l’Utopia e la Città del Sole avevano retto, in un equilibrio magicamente instabile eppure duraturo, così tante storie all’apparenza inconciliabili tra loro. E quando tutto questo si dissolve, dopo che la Bosman spezza per sempre quella certa idea del basket con cui Boscia era cresciuto e divenuto grande, mentre il melting pot dilaga sovrano, l’Nba attinge a piene mani da ogni parte d’Europa, mentre la dimensione dell’Io sopravanza nettamente quella del Noi, Boscia passa da Buducnost, Asvel, per una brevissima parentesi virtussina, prima di fare incetta degli ultimi titoli da squadra di club negli anni in cui guida il Fenerbahce (2007-2010).

Boscia Tanjevic, determinato come sempre

L’ultima grande impresa dell’Immarcescibile Condottiero sono i 6 anni da allenatore della Turchia, che Boscia porta fino allo storico Argento dei Mondiali 2010: la Mezzaluna schiera Turkoglu, Ilyasova, Savas, Erden, Guler.

Il rientro in panca nella Nazione che sembra dimenticare la lezione di Ataturk avviene nel 2012; un Europeo incolore nel girone con l’Itaia a Capodistria, prima dell’ultima tappa: il ‘ritorno’ in Montenegro, e i tre anni da capo allenatore della Nazionale sino ai recenti europei. Il più letterario dei grandi allenatori del Vecchio Continente sembra così dimostrare la lezione di Bruce Chatwin: la vita di ogni uomo è un lungo viaggio nel quale il punto d’inizio coincide col punto d’arrivo.

“Oggi Bogdan Boscia Tanjevic, allenatore di basket, l’uomo che sussurra ai cavalli capaci di giocare a basket anche se non tutti di razza, un genio, un leone che ha vinto tantissimo in tutta Europa, brinderà ai suoi settant’anni nella casa di Trieste, la Camelot dopo la vita a Sarajevo, amata e perduta con dolore negli anni della sporca guerra, dove era arrivato da Pljevlja cittadina del nord est montenegrino dopo gli studi e la vita nel grande basket alla fortezza di Belgrado come giocatore”, questo l’omaggio di un altro dei suoi grandi estimatori da polpalestrello, monsù Oscar Eleni.

‘CI SIAMO SEMPRE BATTUTI PER QUALCOSA DI PIU’ GRANDE’

Oggi Boscia Tanjevic si specchia nel mare che carezza Trieste e una delle più belle piazze d’Italia, negli occhi incantevoli della figlia che rapì la nostra attenzione alla presentazione del libro di Werther in una libreria triestina, nel settembre 2013. Una bellezza sfolgorante e lontana. Nei suoi occhi, nel suo incedere, in quel che resta del suo sigaro, nelle sue geniali sentenze spesso prive di articoli determinativi se ‘rese’ in lingua italiana, ad ogni istante, sembra risuonare l’ammonimento di D’Artagnan a Porthos, Aramis ed Athos: ‘Ve lo siete dimenticato? Noi ci siamo sempre battuti per qualcosa di più grande che non fosse la nostra divisa, e persino del nostro Re. Qualcosa di più grande, animava le nostre spade’.

Può ben dirlo Boscia Tanjevic, l’Inattuale innamorato dell’Utopia. Forse non il solo, ma tra i pochissimi a non aver mai avuto dalla sua parte soltanto un pubblico. Ma un popolo.

Oltre le dolcezze dell’Harrys Bar

e le tenerezze di Zanzibar

c’era questra strada

 

Oltre le illusioni di Timbuctù

e le gambe lunghe di Babal

c’era questa strada

 

Questa strada zitta che vola via

come una farfalla, una nostalgia,

nostalgia al gusto di curaçao

Forse un giorno meglio mi spiegherò

Et alors, monsieur Tanjevic, sa va?

 

Fabrizio B. Provera