Non dite che non ve l’avevo detto: è stata la Final Eight più pazza della storia.

Se non avete ascoltato il mio consiglio di settimana scorsa e avete puntato un euro su una delle più accreditate, probabilmente, avete inutilmente rinunciato ad un caffè al bar. Eppure, chissà, se qualche pazzo in cerca del colpo grosso abbia deciso di scommettere su una Torino, obbiettivamente, allo sbando. La Fiat ha sbancato il jackpot e si è portata a casa la prima Coppa Italia della sua storia, forse nel momento più difficile dal suo ritorno ai massimi livelli. Due coach dimissionari, spogliatoio scottante, uno dei migliori giocatori messi alla porta (Patterson), due nuovi innesti validi ma all’esordio in partite ad eliminazione diretta (Blue e Boungou Colo) e un coach alla prima annata da vice in serie A, catapultato nel ruolo di capo allenatore. da poco più di una settimana.

Ecco, la chiave, forse, è proprio quella: l’allenatore. Paolo Galbiati, 34 anni compiuti ieri (doppi auguri!) vanta un lungo e brillante cursus honorum nel mondo giovanile ma, soprattutto, l’invidiabile score di 4 partite allenate in un club di A e un trofeo in bacheca. Sarà capitato anche a qualcuno di voi, nel bel mezzo del percorso scolastico, di beccare il classico supplente giovane, generalmente professore di letteratura, che sovverte gli schemi dell’insegnamento, accattivando con parole e verve e, talvolta, con un aspetto rock and roll, facendovi gridare “o, capitano, mio capitano!”, in pieno stile “L’attimo fuggente”. Più o meno, potrebbe essere successo questo nello spogliatoio della Fiat quando Galbiati vi ha messo piede, riuscendo a rimettere in carreggiata un gruppo strapazzato dalle vicissitudini tecniche e societarie. Le facce dei giocatori dicevano tutto, sin dalla palla a due contro una Venezia francamente imbarazzante (1/17 al tiro nel primo quarto e tutti a casa). Una finale palpitante contro Brescia, unica delle teste di serie alte capace di non cadere in agguati, decisa dal lay-up in contropiede di Sasha Vujacic, già incastonato nell’immaginario collettivo del popolo torinese. Sicuramente lo sloveno sentirà questo trionfo più suo rispetto ai due anelli NBA che si è messo al dito ai tempi dei Lakers (e della Sharapova, beato lui!). Complimenti anche al duo azzurro Peppe Poeta, al primo successo personale, e Valerio Mazzola, miglior rimbalzista della finale, decisivi nel plasmare, insieme all’equilibratore Washington, l’assetto di squadra. La ciliegina sulla torta si chiama Vander Blue, nominato mvp, che ha lasciato intravedere sprazzi molto interessanti in ottica futura, oltre ad essere stato determinante per il successo. Certo, dobbiamo mantenere la coerenza rispetto a quanto detto due settimane fa. La gestione Forni non ci ha pienamente convinto e, neppure ora, a bacheca piena, la capiamo, però, il risultato del campo è dalla sua parte, quindi complimenti ma l’auspicio è che la lezione sia servita e si eviti confusione in futuro. Perché i casini ci sono stati, ed è innegabile.

Congratulazioni anche ad un bella Brescia che si è arresa solo al fotofinish. La mentalità è quella giusta e la sensazione è che la Leonessa possa candidarsi al ruolo di novella Trento anche nei playoff: la squadra ha una forte identità e gerarchie ben definite, l’amaro in bocca passerà e la beffarda sconfitta potrà essere lo stimolo a migliorarsi ancora e togliersi soddisfazioni. Sicuramente, esce a testa altissima dalla kermesse fiorentina Cremona. Vi avevo messo in guardia dall’inclinazione alle imprese di Meo Sacchetti (pronto a rituffarsi nelle qualificazioni mondiali azzurre) che, puntualmente, non ha tradito. Sbattuta fuori ai quarti una brutta Avellino, troppo Rich/ Fesenko dipendente e con un Fitipaldo irritante, c’è mancato poco che non facesse fuori pure Torino. Encomio solenne per Cantù: che cuore gigante i ragazzi di Sodini che, con 6 giocatori e mezzo, hanno rischiato di andare in finale, demolendo un’imbelle Milano, senza nemmeno un briciolo del cuore e dell’organizzazione canturina.

E arriviamo alle dolenti note: apriamo il capitolo Milano. La letteratura baskettofila e psicologica (forse psichiatrica) potrebbe versare fiumi e fiumi d’inchiostro: cercherò di riassumere in poche righe. Le parole di Proli a fine gara, con tanto di riferimento a fior di stipendi percepiti dai giocatori e scuse ad Armani, hanno fittiziamente scoperto un vaso di Pandora, di fatti, già scoperchiato da tempo. Questa è una squadra senza certezze, senza  uno straccio d’identità e con una difesa che definire imbarazzante è fare un complimento. Pianigiani, difeso a spada tratta da Proli, è per forza sul banco degli imputati: se questa squadra non assimila i suoi concetti e dimostra una cronica – e storica – propensione al fallimento, le colpe sono anche sue. Non tutte, ovviamente.

Alla base ci sono mali atavici come l’approssimazione e la sindrome da album delle figurine nella costruzione della squadra (che, quest’anno, sembrava  – e sottolineo sembrava – avesse un minino di senso in più), affidandosi, forse, più a consigli sbagliati che a un reale funzionalità al progetto (e sul progetto ci sarebbe da discutere …), oltre che la convinzione che i problemi si risolvano inserendo giocatori in corsa, sperando che salvino la patria. La percezione è che in giro per l’Europa – e, forse, non solo – si sia sparsa la voce che all’Olimpia si possano spuntare ingaggi top potendo permettersi di giochicchiare, travisando probabilmente il ruolo della proprietà glamour per eccellenza. Servirebbe una figura dirigenziale forte, autorevole e navigata nel mondo cestistico.  Un avvocato Porelli della situazione (semmai Dirigenti così, la D maiuscola non è casuale, esistessero ancora), tanto per intenderci. Le parole di Livio Proli, ottimo lavoratore e persona perbene ma non formatosi nel settore, piuttosto, sono la spia preoccupante di un malessere che, giustamente, potrebbe iniziare a serpeggiare in Armani: fino a quando re Giorgio sarà disposto a metterci milioni su milioni se rimedierà queste figure?

In fondo, la squadra porta in giro per l’Europa, con risultati deficitari, il suo nome, forse è arrivato il momento di prendere le redini e sterzare. Il nostro basket non può permettersi di lasciarsi scappare un imprenditore planetario come Giorgio Armani.

Nicolo Melli e Andrea Trinchieri (foto di Matteo Cogliati)

Archiviata la mega parentesi Coppa Italia, una piccola finestra sull’All Star Game Nba.
Il commissioner Adam Silver ha lodato, forse troppo encomiasticamente, l’impegno mostrato dai giocatori, dopo anni di edizioni da circo Orfei. La difesa di LeBron, poi mvp, su Durant è lo specchio di una partita – si a difese dalle maglie larghe – che è possibile definire tale.
Promossa anche la nuova formula dei capitani che, stando a Silver, avrà, a partire dal prossimo come sbocco naturale la diretta tv del reclutamento delle superstars.

Chi spera di approdare nel dorato mondo americano, forse, è il nostro Andrea Trinchieri, che ha concluso la sua esperienza al Bamberg. L’addio era nell’aria: un’ Eurolega difficile, con qualche guizzo, ma un campionato deludente, con un record di 11 vinte e 10 perse e il decimo posto in classifica, hanno accelerato il processo.
Un coach come lui fa gola in Europa ma attenzione ad aspirazioni di un posto come assistente in Nba.
Perché, in fondo, è anche di ambizioni che vive l’uomo.

 

Jacopo Romeo