Marco Sodini (foto R.Caruso 2017)

Marco Sodini (foto R.Caruso 2017)

“Il valore di una persona risiede in ciò che è capace di dare e non in ciò che è capace di prendere”. Abbiamo dovuto scomodare Albert Einstein per una buona ragione. Non sta sicuramente a noi misurare il valore di un essere umano, né tanto meno ci arroghiamo alcun diritto in tal senso. Le dimostrazioni e testimonianze che si ricevono nella quotidianità, però, danno una bella mano a capire qualcosa in più sulla persona, prima, e sull’allenatore e professionista, poi, che risponde al nome di Marco Sodini. Non vuol essere un elogio forzato, né uno sciorinare banale di aggettivi positivi, ma una semplice constatazione di quanto si possa capire e imparare anche da una semplice chiacchierata. Chiedete alle persone con cui ha lavorato, chiedete a chi ha passato ore ad ascoltarlo, chiedete ai suoi giocatori, chiedete ai tifosi di Cantù, dal vecchietto legato alla pallacanestro di trent’anni fa al ragazzo che non si è perso una partita per gustarsi le magie di Culpepper, Thomas, Burns e compagnia bella. Chiedete a loro un pensiero su Marco e avrete una giusta misura di quello che riesce a trasmettere. Usiamo un termine con cui si è autodefinito: anomalo. Anomalo non solo nel modo di esprimersi (se volete dare un’occhiata a qualche conferenza stampa, alzare il volume e munirsi di pop-corn e birra è cosa buona e giusta), ma anche nella sua disponibilità e schiettezza.

Marco, partiamo dalla stagione a Cantù: puoi tracciare un bilancio sulle tue sensazioni, anche come prima esperienza ad alto livello da capo-allenatore? “La realtà concreta di Cantù è che la promozione a capo-allenatore è stata inaspettata. A fronte di tutto, le difficoltà oggettive che c’erano intra ed extra campo e la necessità di ricoprire più ruoli non mi hanno permesso nemmeno di potermi rendere conto di quello che era successo. Con i giocatori avevo già una buona credibilità: con loro mi sono posto nella maniera che reputavo migliore, seguendo anche la mia indole da capo-allenatore, e il bilancio è senz’altro positivo. Non bisogna dimenticare come nei ranking iniziali venivamo accreditati come 15-16 esimi. Già dopo qualche partita si capiva che c’era una certa distanza rispetto alle squadre che effettivamente lottavano per non retrocedere. Il rammarico, forse, è stato proprio quello di non essermi reso conto che stavo facendo il capoallenatore in Serie A. Non c’è stata nemmeno una distribuzione corretta del carico mediatico e della comunicazione sulla mia figura: sono apparso molto di più di quello che sarebbe stata la normalità. La guida della comunicazione è una componente importante ad alto livello, veicolando anche le informazioni in un certo modo: certe mancanze strutturali hanno portato poi alle mie ormai proverbiali conferenze stampa con Dante, la fisica quantistica, mentos nella coca-cola e quant’altro”. (ottimi baluardi di una comunicazione enfatica di cui Marco è arduo sostenitore, raccontandola anche in un bellissimo articolo).

Indipendentemente da come è successo, diventare capoallenatore è quello che hai sempre voluto e rincorso. “Era quello che ho sempre voluto, cercando di assecondare la mia indole. In passato ho anche rifiutato ruoli da vice allenatore di alto livello pur di rimanere libero e provare, anche scendendo di categoria, a fare il capoallenatore. È successo adesso e sono entusiasta. La mia intenzione è quella di proseguire proprio su questa strada”.

In Coppa Italia, oltre a trovare la partita perfetta contro Milano, avete sempre dimostrato anche contro Brescia di dare tutto quello che avevate in campo. Si è visto Thomas giocare praticamente su una gamba sola, in semifinale. Quanto c’è di tuo in questo atteggiamento mentale, al di là di ogni aspetto tecnico? “Ci sono due aspetti da riportare. Per indole non amo perdere in nessun gioco e chiaramente trasferisco quello che sono alla mia squadra. Sono stato avvantaggiato però, da un contesto che ho chiuso rispetto all’esterno e, molto differentemente dalla normalità del professionismo, ho fatto accalorare rispetto al risultato. Il fatto di doversi aggregare tra noi per combattere condizioni di lavoro assolutamente non perfette ci ha fatto diventare una squadra molto più simile ad un team di promozione che si trova a giocare semplicemente per il piacere di stare insieme”.  In Coppa Italia sapevamo di essere senza Culpepper e Crosariol, ma già prima di Milano ho detto che saremmo dovuti essere dei gladiatori, senza accampare scuse. La disponibilità dei giocatori nel fare il passo in questa direzione c’è sempre stata. La partita contro Brescia, usando la zona, difese diverse, possibilità inaspettate, è stata molto più bella dal punto di vista tecnico, anche se, dopo la vittoria con Milano, non sapevo chi sarebbe potuto scendere in campo il giorno dopo.  Non abbiamo smesso di giocare anche quando lo svantaggio era in doppia cifra, ma è successo tante volte anche in stagione regolare.  Il mio modo di essere ha trovato, in una squadra che aveva anche molti difetti (in difesa, sopratutto), nella grande voglia di competere dei giocatori una perfetta commistione di intenti”.

Sodini durante una delle sue celebri conferenze stampa (Foto R.Caruso 2017)

Durante la stagione ho avuto la fortuna di vedere qualche partita di Cantù e devo dire che era veramente tanto tempo che non vedevo un basket così frizzante, basato sull’entusiasmo, su tagli, su ritmi molto alti. Non vi siete mai snaturati, ma siete sempre rimasti voi stessi contro ogni avversaria, è stato forse anche questo il plus di questa stagione?  “Ho una proiezione personale che guarda sempre all’Eurolega. Li difficilmente le squadre cambiano e snaturano il modo di giocare perché non c’è tempo di farlo. La mia idea di pallacanestro è stata quella, prima di tutto, di adeguarmi ai giocatori che avevo. Abbiamo avuto una doppia dimensione: pre e post infortunio di Crosariol. Dopo, la componente di gioco ad alto ritmo si è ulteriormente esasperata, anche con l’acquisto di un giocatore (completamente diverso da Crosariol) come Perry Ellis. Il gruppo ha sempre mostrato grande disponibilità a lavorare e competere in palestra, un po’ meno a recepire molte informazioni. Noi facevamo scelte di campo e decidevamo le tre situazioni degli avversari su cui lavorare dal punto di vista difensivo. Abbiamo fatto partite difensivamente anche molto buone, ma per il nostro modo di essere e per il talento individuale dei ragazzi la scelta è stata sempre quella di alzare il numero dei possessi e di prendere il miglior tiro possibile. È una caratteristica da Eurolega (lo fa lo Zalgiris, ad esempio): se dai l’opportunità alla squadra avversaria di schierarsi, ad alti livelli, alla fine difficilmente riesci a prendere un vantaggio e, a quel punto, devi sfruttare sempre la prima opzione disponibile. Avendo ragionevolmente in mente gli obiettivi societari, con una pallacanestro del genere avremmo potuto imporre un gioco non confortevole agli avversari: poi ha funzionato e chiaramente la squadra ne ha giovato. Avendo tanti giocatori terminali nella loro carriera, sarebbe stato difficile accontentare tutti senza alzare il numero dei possessi. Se hai una squadra con talento, è molto più facile metterlo insieme che costruire un sistema in una squadra che talento non ne ha”.

Un po’ come ha fatto Caja a Varese, no? “E’ l’esempio perfetto. Al di là del fatto di essere due team diametralmente opposti, abbiamo vinto lo stesso numero di partite. Due sistemi completamente diversi che hanno portato al medesimo risultato. C’è una bravura aggiuntiva di Attilio, perché insieme alla società ha costruito il gruppo e poi l’ha plasmato lavorandoci. Qualcuno potrebbe pensare che io sia rammaricato a non aver vinto il premio di Allenatore dell’anno. Invece, penso che Attilio l’abbia stra-meritato proprio perché dal processo di formazione della squadra al processo di miglioramento della stessa tramite allenamento è stato esemplare e perfetto”.

Parrillo, votato giocatore dell’anno dai tifosi, si è sviluppato molto e ha beneficiato anche del modo di giocare di Cantù, mentre Cournooh (che più volte hai definito “un titolare che non parte in quintetto”) è diventato una pedina imprescindibile: vorrei chiederti una tua opinione sul percorso che stanno facendo e se soprattutto il secondo possa ormai entrare in pianta stabile in Nazionale.  “Sono assolutamente d’accordo su entrambi i temi. Salvatore ha fatto un po’ fatica all’inizio dell’anno in un sistema di gioco completamente diverso rispetto alla stagione precedente. Ha dovuto ricordarsi che la sua priorità era quella di ritornare il lottatore e il difensore che era, mentre da parte mia c’è stata totale fiducia nel suo tiro e nelle sue scelte. Quando si è liberato di tale preoccupazione di “non poter fare perché gli altri facevano” ne ha totalmente beneficiato.  Non solo ha tenuto per diverse partite alte percentuali al tiro, ma ci ha fatto vincere anche diversi match, oltre a non perdere quella componente di lotta che è la ragione per cui è così adorato dai tifosi. Siamo molto simili in questo, perché abbiamo avuto un affetto, anche inaspettato, in virtù del nostro modo di essere più che del risultato. Per quanto riguarda David negli anni precedenti c’erano aspettative diverse rispetto al giocatore che è tecnicamente. Sta diventando molto più intelligente ed è stato bravissimo a mettere in condizione gli altri di esaltare le loro caratteristiche. Ha migliorato tantissimo il playmaking e poi difende su tre ruoli: quest’anno gli ho chiesto di essere molto più aggressivo al ferro rispetto al passato e ha dato grandi risposte anche sotto questo aspetto. Rispetto alla convocazione in Nazionale, nel momento in cui ci dovessero essere necessità di quel tipo, è indubbiamente pronto e gli auguro che Meo lo possa richiamare. Forse le scelte in questo momento vanno in un’altra direzione, più di tipo prospettico”.

Spostando il discorso su altri due giocatori “convocabili“ come Abass e Fontecchio, la scelta di andare a Milano forse non è stata proprio azzeccata. “Ogni ragionamento in questo campo deve partire sempre da quali aspettative si abbiano: non posso entrare nel merito delle scelte personali. Rispetto allo sviluppo tecnico di un giocatore, avere spazio e giocare è indubbiamente una componente molto importante. Spesso, però, giornalisti e tifosi dimenticano che c’è anche una componente lavorativa ed economica che deve essere valutata da un professionista”.

Leggendo diverse interviste non sembri affatto una persona abituata a ragionare con i “se”, considerando ad esempio che l’avventura a Cantù fosse continuata con i giusti presupposti. Non ti voglio chiedere dove andrai, ma dalla prossima esperienza in panchina cosa ti aspetti e che progetto vorresti? “La priorità è necessariamente egoistica. Ho bisogno di un progetto che aumenti la mia credibilità e possa sviluppare la mia crescita dal punto di vista tecnico. Mi sento in dovere di cercare un’opportunità che mi dia modo di sperimentare quello che è il mio credo cestistico. Sono entrato in corso d’opera in un contesto che non ho costruito io: vorrei che ci fosse una progettualità e non mi interessa un livello di ambizione delimitato da un obiettivo tecnico come fare i playoff o vincere il campionato. La componente scenografica mi interessa poco, io sono un appassionato dell’allenare: maggiore è il livello del campionato, maggiore sono i giocatori, maggiore è il problema di farli migliorare. Qualche volta è possibile decidere e qualche volta, chiaramente, meno. Vivo serenamente il fatto che la componente politica dello sport è molto più determinante che i risultati”.

Discorso playoff: seguendo l’EA7 il percorso, soprattutto nei playoff, mi è sembrato quello di una spugna: ovvero di una squadra che facesse tesoro dei propri errori e mancanze, per incorporarli partita dopo partita e ritornare nella serie successiva ancora più forte e conscia delle cose da fare per vincere le partite. “Ho fatto l’assistente a Milano sotto la gestione Banchi e quella squadra era strutturalmente e mentalmente molto più forte. Nel corso di questa stagione ci sono state due componenti determinanti per la crescita di Milano. La prima è stata l’uso delle rotazioni durante tutta l’annata. All’inizio erano molto più marcate rispetto all’abitudine (a Siena) normale di Pianigiani, come se fosse quasi una forma di test. Da quando ha deciso i suoi “pretoriani” la squadra è migliorata, anche in conseguenza della sconfitta contro di noi. La seconda componente è stata l’uso sempre più marcato di un giocatore di contorno di alto livello come Cinciarini. Sulla serie lunga non c’è nessuno che ha le alternative di Milano, proprio come squadra. Brescia ha subito sul lungo periodo la profondità dei meneghini. Nelle prime due gare la struttura fisica di Milano ha fatto scemare l’evidenza dell’intensità fisica con cui gioca normalmente la Trento. Il miglioramento è stato figlio di scelte ben precise: sarei sorpreso se l’anno prossimo non ci fosse una prosecuzione di una linea di questo tipo”.

Valerio Bianchini ha scritto su Facebook: gara2 tra Milano e Trento dimostra in modo paradigmatico come il tiro da 3 nel basket di oggi sia totalizzante. Sei d’accordo? “Assolutamente sì. La realtà è che la linea del tiro da tre ha, in qualche maniera, obbligato gli spazi. Ha tolto le distanze medie e soprattutto è troppo vicina per la forza fisica dei giocatori attuali: è troppo conveniente tirare da tre piuttosto che tirare da due. Alla fine affoghi il gioco, tant’è vero che a Cantù le partite peggiori che abbiamo giocato erano quelle in cui abbiamo tirato più da tre perché gli avversari erano riusciti a non farci correre. Vorrei dirti che la pallacanestro possibile è fatta di tagli, di movimenti e così via, ma gli ingombri dei giocatori sono tali per cui è difficile trovare una scappatoia rispetto al saturare certe situazioni ripetute per forza, perché riescono a creare quantomeno un minimo vantaggio”.

Marco Sodini (foto R.Caruso 2017)

Marco Sodini è stato tra i grandi artefici della stagione di Cantù, che in molti alla vigilia davano quasi per spacciata (foto R.Caruso 2017)

Il basket dominato dai lunghi è quindi pura utopia ormai? “Può essere un vantaggio, ma solo quando sono dei pivot mobili e riescono a giocare non da fermo spalle a canestro. Va bene i 210 centimetri, va bene i 130 chili, ma devono essere giocatori, come ad esempio Gudaitis, in grado di correre, portare un blocco e poi correre di nuovo. Bisogna avere un giocatore veramente dominante dal punto di vista tecnico oltre che dal punto di vista fisico. Già in Legadue o in un altro campionato di fascia media si può fare di più questo discorso, ma con la fisicità e l’atletismo di questi giocatori in Serie A è molto più complicato. Non è un caso che la difesa che sta avendo più successo è una difesa fatta di cambi, perché anche i giocatori di 2 metri e 10 riescono a tenere i primi 2-3 palleggi dei piccoli. Serve praticità: allo stato attuale della pallacanestro certe cose non puoi far finta che non esistano e devi comportarti di conseguenza. La verità è che una squadra di Serie A, nel momento in cui ha preso vantaggio e produce un tiro aperto e con altissima percentuale farà canestro. Quindi, devi provare a non far avere quel vantaggio. Anche la Nba si sta muovendo in tal senso con molti meno isolamenti e più giocatori dinamici: Golden State docet”.

Dal punto di vista tecnico nella tua squadra ideale vorresti avere più giocatori polidimensionali, che sanno ricoprire più ruoli e intercambiabili, oppure sei legato più alla scelta di avere dei lunghi di peso, un play più ragionatore e costruttore di gioco che finalizzatore? “No, playmaker ragionatore non tanto. Prima di tutto perché ce ne sono sempre meno. Mi piacerebbe avere una squadra in cui poter gestire i ritmi, con un play in grado di spingere esasperando o anche in grado di tirare il freno a mano all’occorrenza. La concretezza della mia pallacanestro in attacco è divisa in tre tronconi. Il primo, ovvero quello in cui riesco ad avere una soluzione facile: vorrei avere la squadra di quest’anno per i primi 8 secondi dell’azione. Vorrei avere la squadra di Attilio Caja tra gli 8 e i 16 secondi, che lavora per costruire un vantaggio insieme, ma per gli ultimi 8 secondi dovrei tornare alla mia Cantù perché c’è bisogno di giocatori che riescano a crearsi soluzioni e vantaggi per conto proprio se, di squadra, non si è riusciti a farlo”.

“Qui vorrei proprio entrare nel merito della formazione dei giocatori italiani” Prego. “Inviterei tutti gli istruttori di settori giovanili a creare giocatori egoisti, perché ad alto livello poi si vanno a cercare quelli in grado di risolvere i problemi da soli. Se noi insegniamo solo a fare squadra e a non costruirsi tiri esasperando anche le situazioni di 1vs1 sarà difficile che questo succeda. Alla fine giocano i Della Valle, giocatori che con la palla in mano qualcosa sanno creare e inventare”.

Altro? “Sì, un giocatore che non è capace di dominare a livello giovanile, quando poi affronterà il livello più alto possibile, difficilmente sarà in grado di innalzare il proprio livello tecnico. È inutile essere capaci di fare la scelta giusta se poi questa si rivela inefficace. Prima bisogna rendere i giocatori efficaci e poi bisogna fargli fare le scelte giuste. Il risultato finale deve essere quello”.

Quindi, è tempo di fare un passo in avanti nella formazione e allenamento dei giocatori più giovani? “In Italia bisogna fare un passo indietro, non avanti. Noi grandi figure formative le avevamo e ci siamo messi nelle condizioni di non poter far scegliere un allenatore di settore giovanile di fare quel lavoro. Non si può sostenere economicamente una vita facendo l’istruttore di settore giovanile. A un certo punto, giocoforza, si deve passare agli adulti per continuare a vivere di pallacanestro. Se non si risolve questo problema, quello che succederà è che gli istruttori, che come idea unica e fissa dovrebbero avere quella di formare giocatori del livello più alto possibile, saranno obbligati a pensare solamente al risultato delle singole partite, mentre i ragazzi verranno usati in modo strumentale. Tutto il contrario di quello che dovrebbe essere, ma che non sarà perché c’è sempre l’esigenza di vincere. Se si nota, tra i giocatori italiani, di livello medio si intende, di Serie A e Serie A2 non c’è tutta questa gran differenza”.

Cosa ne pensi della riforma 5+5 (o 6+6)? “Sono per la liberalizzazione completa e sono convinto che nel 2018 è necessario intendere la pallacanestro di alto livello come uno spettacolo. Quindi, bisogna garantire che ci siano continuità dal punto di vista economico e finanziario ed è un orientamento che, tra le altre cose, mi pare ci sia già oggi a livello di Federazione e Lega. Poi certe forme di sviluppo passano per avere la “libertà di”. Ci sono devono essere chiaramente forme di investimento per rendere i giocatori compatibili con quel livello. Sono per il non protezionismo anche sugli Under. Un allenatore messo nelle condizioni di lavorare sceglie sempre la cosa migliore: se c’è un 40enne che gioca meglio di un 16enne, è giusto che il ragazzo si dia più da fare”.

È un problema, alla fine, solo di soldi, o no? “Nei momenti di crisi le aziende, quelle non cestistiche, investono normalmente in ricerca e sviluppo perché si cercano strade alternative per ottenere i risultati o per far ripartire il processo economico-finanziario. Dal punto di vista della pallacanestro se si è convinti che questo sistema e questo modello non formi giocatori italiani, non porti ad avere una Nazionale competitiva e un campionato di alto livello, allora bisogna investire in ricerca e sviluppo.  Provare ad avere idee alternative, dare stabilità sul medio-lungo periodo alle società in modo da poter anche attirare investitori esterni. E a quel punto dare un processo di formazione sufficientemente strutturato tale da garantire che nel lungo periodo si possano raggiungere dei risultati”.

Il traino per una maggiore visibilità per l’intero movimento cestistico italiano può essere solamente quello della Nazionale? “La Nazionale è una vetrina e per la storia dell’Italia sportiva è chiaramente un traino. Credo che si possa fare un lavoro per migliorare la visibilità complessiva di questo sport, perché è il più praticato al mondo ed estremamente mediatico e televisivo, decisamente spendibile sul mercato su cui personalmente ragionerei in maniera globale, sul modello filo-americano. L’apertura, ad esempio, delle Nba Academy va in proprio in tale direzione”.

Delle figure cestistiche specifiche innovative come scout, coach development player (ad esempio) si potranno affermare in Italia prima o poi? “Credo che dovrebbero affermarsi già ora molto di più. Lo sport dovrebbe andare verso la professionalizzazione capillare. Storicamente noi siamo quelli che abbattiamo i costi, sviluppando questo tipo di figure per spendere meno. Certi modelli virtuosi come Trento o Brescia devono essere modelli da seguire e vanno proprio in tale direzione. A livello generale, però, sotto questi aspetti, siamo ancora decisamente indietro”.

Un grande ringraziamento a Marco Sodini: se volete scoprire qualcosa in più sulla sua carriera e sulla vita extra-sportiva, leggete tutto d’un fiato questa perla di Fabrizio Provera.


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