Come il genitore di un bambino che va male a scuola, ogni volta torniamo a illuderci e sperare. Ma poi arriva l’esame, e la delusione sopraggiunge puntuale, ogni volta più dolorosa e beffarda perché il tempo passa e le speranze disattese si accumulano.

È così che ci si sente, da tifosi o addetti ai lavori, nella pallacanestro italiana di oggi: ne è la conferma la recente proposta della Legabasket alla FIP per la composizione dei roster nei prossimi campionati: si partirebbe con un 5+5 (stranieri e italiani), dando però ai club la possibilità di ingaggiare ulteriori stranieri pagando una modesta tassa, che poi sarebbe ripartita tra i club virtuosi e non meglio specificate iniziative per i settori giovanili: 20.000 € per il 6° straniero, 40.000 per il 7°, 80.000 per l’8°, 100.000 per il 9°, 120.000 peri il 10°, 140.000 per l’11° e 160.000 per il 12°.

Di per sé, l’idea di una “luxury tax” per scoraggiare l’ingaggio di giocatori stranieri, in luogo delle controverse quote italiani, non è sbagliata: chi ha soldi da spendere e (come Milano) deve essere competitiva in Europa, può prendere tutti gli stranieri che vuole, pur – badate bene – senza la garanzia di un migliore rendimento. Gli altri club, invece, sono indotti a investire sugli italiani, sia perché non si possono permettere ulteriori balzelli, sia per aggiudicarsi il premio per l’impiego di azzurrabili. Ma se si fa eccezione per il principio, nella proposta della Legabasket è tutto sbagliato. Almeno dal punto di vista di chi ritiene la Nazionale la massima espressione di un movimento sportivo (anche dal punto mediatico) e ritiene che sì, gli italiani vadano tutelati, perché una riforma non partirà mai dal basso e il “gioca chi merita” è uno specchietto per allodole ottimiste. Chi invece auspica la liberalizzazione totale, così da rendere i campionati nazionali totalmente intercambiabili e far perdere alle varie scuole cestistiche europee quel briciolo di identità che resta loro, è servito.

Al di là del fatto che, come riporta Tuttosport, la Legabasket ha pure scritto male la regola (si parla di tassa progressiva ma progressivo non è sinonimo di cumulativo, quindi a prenderla alla lettera 160.000 € potrebbero bastare per schierare 12 stranieri), la quota di partenza di 5 stranieri è già una presa in giro. A basket, fino a prova contraria, si gioca in 5, e se si aggiungono gli immancabili passaportati è facile prevedere che si potranno schierare 6 o 7 stranieri senza andare incontro ad alcuna penalizzazione economica. Insomma, nel migliore dei casi, con questo regolamento gli italiani sarebbero relegati al ruolo di 7° o 8° della rotazione.

Aradori, emblema del talento valorizzato relativamente tardi (foto A. Musolino)

In secondo luogo, è l’importo della tassa ad essere irrisorio: potendo ingaggiare un numero sostanzialmente illimitato di stranieri, i club potranno risparmiare abbastanza da potersi permettere senza problemi il primo “gradino” (20.000 €), se non addirittura il secondo (60.000 € in tutto), della tassa progressiva; il che, considerando anche i passaportati, renderebbe organici con 8-9 stranieri alla portata di qualsiasi società. Certo, il prezzo gonfiato degli italiani è certamente l’altro lato della medaglia, per il quale giocatori e procuratori dovrebbero farsi un esame di coscienza. Ma se gli italiani avessero davvero spazio per giocare e per sbagliare, e il campionato producesse più giocatori di “classe media” (usando una definizione di Franco Marcelletti) in grado di tenere il campo, di certo i procuratori non potrebbero far leva sulla rarità dei propri assistiti per aumentarne il valore contrattuale. Insomma, se per lo stesso ruolo un club potesse scegliere tra tanti Aradori, Fontecchio, Tonut, Flaccadori e così via (tutte guardie – a titolo esemplificativo – che si sono valorizzate, senza essere fenomeni da NBA, semplicemente trovando spazio e fiducia), e non tra un paio di giocatori contesi da tutta la Serie A, nessuno potrebbe “ricattare” un GM puntando sul solo pregio del passaporto italiano.

A chi andrebbe poi il premio italiani? Sempre facendo pura teoria, ad aggiudicarsi un bottino non necessariamente enorme (dipenderebbe dalla quota destinata ai progetti per le giovanili) potrebbe essere una squadra che schiera quattro o cinque stranieri, solo perché le altre ne schierano sei, sette, otto o più. Insomma, una squadra con cinque USA in quintetto potrebbe ricevere un riconoscimento economico per il contributo alla formazione di giocatori nostrani. Un paradosso che ci fa ripiombare nella convinzione che nelle stanze dei bottoni del basket italiano manchi la capacità per dare un vero nuovo impulso al movimento e ai suoi campionati professionistici. O che a mancare sia la voglia, perché in fondo l’interesse – di molti – è che le cose non cambino, per convinzioni anacronistiche, per paura dell’ignoto o per tutelare chissà quali posizioni di potere: e allora si danno da fare, come tanti Tancredi Falconeri del sottobosco cestistico, affinché tutto – gattopardianamente – cambi quel tanto che basta per lasciare tutto, di fatto, invariato.

Per fortuna, pare improbabile che FIP e CONI accettino anche solo in parte la proposta della Legabaket. Ma la stasi o lo stucchevole ping-pong di controproposte che seguirà non porterà certo benefici a un movimento ridotto ormai ad esaltarsi per le vittorie della Nazionale contro la Romania e contro la peggior Croazia della storia.