IL BASKETTISTA ANONIMO

Pedrazzi 1 B&WSono un “baskettista anonimo”, uno dei tanti, in vita mia ho bevuto troppo basket, vorrei smettere, disintossicarmi, ma non ci riesco. Spesso vado alle riunioni plenarie, come recentemente fino ad Ancona o poco tempo prima a Rimini, dove incontro altri come me, parliamo, parliamo, ognuno dice la sua, ma alla fine ci ritroviamo sempre con lo stesso bicchiere mezzo pieno, o mezzo vuoto, in mano. E lo svuotiamo del tutto. Nessuno mai che ce lo riempia fino all’orlo. Andiamo, e vediamo, cose buone e cose brutte mescolate insieme. Il nostro è un liquore sbagliato, due quarti di assenzio e gli altri due di arsenico. Beviamo sempre il secondo. Nel basket le cose buone hanno una prerogativa: non fanno mai storia, non lasciano memoria. Forse perché ancora persiste la mentalità medioevale di divisione in feudi, “vassalloti”, valvassori e valvassini, ed un movimento servo della gleba con la schiena sempre incurvata. E il re? E’ nudo. Insomma, vogliamo dire, abbiamo il sospetto che non conti tanto la qualità delle idee, indipendentemente da chi le propone, ma chi le propone, anche se sono idee senza gambe, che non potranno mai stare in piedi. Ad essere severi potremmo anche dire che da noi il potere è una guerra per bande… In molti casi, e purtroppo, disarmate di competenze.

E noi “baskettisti anonimi” non sappiamo mai quale sia il bicchiere buono in cui bere.

Nell riunione di Ancona, ad esempio.

Abbiamo visto l’anomalia di due presidenti (di Lega) presenti contemporaneamente, uno che non parla più e l’altro che non parla ancora.

Abbiamo visto il nome sbagliato su una maglietta, e dall’altro possiamo dire che non è poi così grave, che può capitare (ma solo se si fanno le cose in fretta e furia) e dall’altro pensare che non sappiamo nemmeno chi siamo.

Abbiamo visto un altro presidente (di Federazione), al contrario, parlare tantissimo, ma con troppo accento futuro (faremo), al punto da ingenerare il solito sospetto: armiamoci e partite?

Abbiamo visto, anche, un documentario, adesso si chiama video, di tetra lungaggine, peraltro di dubbia ispirazione etica (ma qui si può anche discutere e opinare) spacciato per geniale, che nelle intenzioni avrebbe dovuto promuovere l’alto profilo morale della figura arbitrale.

Abbiamo visto, però, un All Star Game pieno di famiglie e bambini, e le stelle americane che fanno a stento 60 punti…

Alla Fiera di Rimini, invece…

Abbiamo visto la fantasia al potere, RHYTHM N’ BASKET, una kermesse fresca e ben organizzata, che ha colto in pieno tutti gli aspetti promozionali del nostro sport, un bersaglio centrato, e tutto questo dissolversi nel tempo, perché non abbiamo sentito nessuno dire: ecco, è così che bisogna fare. Forse perché ad organizzare il tutto era la LNP e non i soloni del piano superiore? O crapuloni, non lo sapete che le idee migliori vengono sempre dal basso?

Per disintossicarci siamo andati anche nella periferia (?) del basket, a Lograto, nella bassa bresciana, il paese natale di Pietro Aradori.

Abbiamo visto in atto il concetto della semina e del raccolto, che ogni anno si rinnova nell’Ara day, sfruttando l’opportunità di aver visto nascere e crescere un campione per allargare il cerchio, una festa che mette al centro il basket e la palestra aperta sul paese. In campo a turno il minibasket e tutte e categorie giovanili (oltre 120 giovani tesserati) del Team 75, la società locale nata in un bar e alimentata al fuoco sacro della passione, mentre ad intervalli regolari, tra una partitella e l’altra, il Belvo ci accompagnava in visita al castello e alla villa Morando, passando poi, dal vanto antico a quello più moderno, anzi, di assoluta avanguardia, con la visita allo stabilimento Leonardo, una eccellenza italiana nel mondo (uniche concorrenti una ditta tedesca e una americana), che progetta e produce macchinari per testare la qualità della più svariata componentistica, motori Ferrari in testa, una realtà locale naturalmente avvicinata a sostegno del progetto di basket locale. Ed è stato qui che abbiam scoperto l’arcano. Nel racconto del Belvo, al secolo Giuliano, il padre di Pietro Aradori, allenatore (istruttore, sarebbe meglio dire?) del basket locale, e degli scontri familiari con la moglie Maria Giulia Monfardini, la mamma dello Squalo, responsabile del minibasket di Lograto, perché, a detta del Belvo, gli passava nelle categorie superiori anche quelli che con il basket c’entravano poco. Vertenza che si chiuse definitivamente con la fulminante definizione di Maria Giulia: “Il mio è il minibasket socio-affettivo!”. Se non diventano campioni saranno quanto meno tifosi sani. Prendete nota. Per iniziare a riempire il bicchiere di roba buona. Per non continuare a girare con quel bicchiere mezzo vuoto in mano.