Il cervello dei primati

Tranquilli, non è una lezione di zoologia.

25 ottobre 1998: Varese batte la Virtus, in casa, di 4 punti, ed è prima in classifica, a punteggio pieno, assieme alla Fortitudo. Sei mesi e mezzo dopo, Varese vince gara 3 con la Benetton e conquista lo scudetto.

28 ottobre 2012: Varese batte Cantù, in casa, di 4 punti, ed è prima in classifica, a punteggio pieno, assieme a Sassari. Cosa accadrà fra sei mesi e mezzo, o giù di lì? Non è una domanda scontata, se non fosse che 3 serie di playoff al meglio di 7, invece che al meglio di 3, esigono un roster che Varese, relativamente alla quantità, ancora non pare possedere. Ma questa è la teoria, poi i due Franchi, Vescovi e Vitucci, sapranno inventarsi qualcosa, se sarà opportuno e possibile.

Per il resto, a parte, doppio ahimè, un paio di club scomparsi, o meglio ripartenti dal basso, altre differenze fra ora ed allora non vedo. E lo dico a ragion veduta: invece della Fortitudo, pretendente al titolo, la comprimaria in testa alla classifica, oggi, è Sassari, ma non si parli di sorpresa: la semifinale dell’anno scorso lo attesta. L’intera isola, la città, il club, il coach e la squadra hanno fatto un lavoro eccezionale in un tempo ridottissimo. Per cui, pretendere al titolo, fatte salve le stesse premesse fatte per Varese, non è certo un’utopia.

Intendiamoci, parlare di scudetto a cavallo fra ottobre e novembre non è altro che un gioco puramente accademico: diciamo che nel microciclo di inizio stagione, l’inedita coppia lombardo-sarda ha già acquisito meriti definitivi. Anche perchè le tre cosiddette grandi, chi più chi meno, non hanno ancora acceso tutti i loro motori, vuoi per rinnovamenti rivoluzionari in atto (Siena), vuoi per lo sforzo immane, ancorchè trionfale, di settembre (Cantù, Supercoppa e qualificazione all’Euroleague), vuoi per una ancora non trovata chimica e molte incertezze di inizio stagione (Milano). Gli inizi ancora poco rassicuranti delle rispettive Euroleagues ne sono un’altra testimonianza. Avremo modo e motivi per riparlarne.

Ma voglio tornare alle due bellissime di ottobre, nella persona di due cervelli straordinari: Francesco Vescovi e Meo Sacchetti. Non che non siano in buona compagnia, in società, altrimenti non sarebbero dove sono, ma loro due, e le loro storie, sono particolarmente ammirevoli, prima per quel tantissimo che hanno fatto da giocatori, e dopo per quello che stanno facendo fuori dal campo. Entrambi, peraltro, con una sequenza logica e coerente fra campo e scrivania/fischietto (anche se sono sicuro che Meo, il fischietto, non lo usa di certo…).

Cecco, allora, classe 1964. Lo ricordo avversario quando era nelle giovanili, quando, sempre senza particolari spettacolarità di gioco, macinava ogni partita, senza errori, senza forzature, con una gamma di fondamentali insegnatigli da due carissimi amici, Bruno Brumana e Franco Passera. Lo ricordo quando Toto Bulgheroni, spesso, se lo portava dietro alle partite, perché aveva capito che il giovane era qualcosa di speciale, non pensava solo a mettersi scarpe e calzoncini, ma gli piaceva il basket, lo interessava già da adolescente. E poi, naturalmente, la carriera da professionista, di cui è perfino superfluo ricordare i fasti. Uno di quei giocatori che hanno sempre privilegiato l’uso della mente a quello del corpo, che pure non mancava di esplosività ed atletismo. Avere in campo lui significava, per l’allenatore di turno, non doversi preoccupare proprio di tutto tutto. A molto, pensava lui: il tale gioco da chiamare in attacco; la tale idea per far commettere il quinto fallo ad un avversario pericoloso; la tale difesa per spezzare il ritmo altrui; il tale incoraggiamento ad un compagno che potesse averne bisogno. Insomma, una macchina perfetta per vincere.

Ed eccoci a Meo, classe 1953. Data l’età, un anno meno di me, non ho avuto l’avventura, o meglio la sventura, visto che l’avrei solo affrontato da avversario, di incontrarlo nei giovanili, sia perché agiva in Piemonte, fuori dalle mie competenze territoriali di allora, ma anche perché non mi pare abbia avuto una carriera particolarmente brillante prima del professionismo: confesso la mia ignoranza in proposito (Meo, correggimi, e scusami, se sbaglio!). In compenso, ricordo molto bene la sua carriera, da Asti a Varese via Bologna e Torino, e soprattutto la sua evoluzione tecnica in campo. Due distinti modi di giocare: ad Asti e Bologna, l’allora Gira sponsorizzato Fernet Tonic, giocava da ala piccola, usando soprattutto la sua strapotenza fisica rispetto ai pari ruolo. E dunque penetrazioni, rimbalzi, 1 contro 1 di forza e velocità. Nelle ultime sue due squadre, la magnifica e magica trasformazione. Forse anche grazie alla trovata rivoluzionaria di Dan Peterson, che impostò proprio l’anno precedente un’ala piccola, Mike Sylvester, da guardia nel primo Billy della sua (e nostra) era, alzando così la stazza del quintetto, Meo mosse ruolo e incombenze, trovando la perfetta sintonia fra la sua personalità e le esigenze agonistiche. Ecco quindi, da allora, una guardia di “testa” più che di “mano”: stesso ruolo di Mike, ma ben diversa interpretazione, fino a vincere allori olimpici ed europei. E dunque, letture, ritmo della partita, collaborazione stretta coi playmaker, da Maurizio Benatti a Torino a Dino Boselli e Francesco Anchisi a Varese, fra l’altro assieme a Vescovi, fino a Frank Johnson, l’ultimo playmaker della sua carriera, quando dovette lasciare, nel maggio del ’90, per un grave infortunio che gli precluse le ultime due partite della serie finale per lo  scudetto contro Pesaro.

Entrambi pensanti in campo, dunque, ed entrambi conoscitori della materia come pochi, una qualità che assicura il loro valore aggiunto adesso che fanno trottare gli altri per raggiungere le mete prefisse. E se la carriera da dirigente di Cecco è ancora agli inizi, foriera dunque di impensabili successi, quella di allenatore di Meo ha già una sua ben precisa fisionomia, peraltro curiosamente simile a quella già vissuta in campo. Nella prima parte, difatti, fino all’esperienza di Castelletto Ticino, Meo aveva, con molta dignità, peraltro, interpretato la professione senza particolari lampi (sia chiaro, sto esemplificando: ricordate che, sempre, la carriera di allenatore la fanno in gran parte i giocatori di cui disponi). Poi, d’incanto, la trasformazione, col passaggio a Capo d’Orlando. Da allora Meo ha sempre saputo ottenere il massimo dalle sue squadre: se Sicilia prima e Sardegna poi hanno giocato i playoff, lo devono soprattutto a lui. E anche questa è già storia patria, almeno cestistica.

Di Meo, in particolare, ammiro la calma tranquillità con cui affronta le partite, prima, durante e dopo. Una tranquillità non priva di tensione, certo, ma che viene trasmessa ai suoi giocatori nel modo più diretto ed efficace. Sono sicuro che a tutti (o quasi: la perfezione non è di questo mondo) quelli che hanno giocato per lui, il suo modo di interpretare il mestiere piace parecchio. Tutti sono contenti di giocare e dare il massimo per lui: sono convinto che Travis Diener ha usato anche questo argomento, e forse è stato anche decisivo, per convincere il cugino Drake a raggiungerlo a Sassari. Perché Meo vive il basket al suo meglio, senza drammatizzare ma anche senza scherzarci su. Ricordo quando vinse a Bologna, due stagioni orsono: a fine partita, non ricordo per quale motivo, gli venne chiesto un commento relativamente a un parziale subìto, o fatto, poco importa. Fatto sta che Meo, ancora accalorato per una vittoria che, all’epoca, poteva significare una tranquilla salvezza, per la sua neo-promossa Dinamo, rispose qualcosa del genere: “Sì, non so cosa è venuto in mente al “greco” di fare la tale cosa…” con ciò riferendosi a Dimitrios Tsaldaris, arrivato l’estate precedente, ovvero circa otto mesi prima. Chiamare “il greco” un proprio giocatore trovo sia uno dei massimi capolavori che mi sia stato dato di ascoltare. Ma con ciò, sia chiaro, nessuna mancanza di rispetto per il ragazzo: è solo, mi pare, l’emblema del suo magnifico approccio alla gara, ad ogni gara, ad un tempo disincantato e comunque votato al massimo obiettivo.

Cecco e Meo: giocavano insieme negli anni ‘80, mi piacerebbe, un giorno, rivederli lavorare insieme, magari un club di rilevanza europea, come fu Varese e, spero, possa diventare Sassari, e insieme puntare ai massimi traguardi. Per il momento, si sono messi dietro tutte le altre. Grazie ai loro cervelli. Da primato.