Ospitiamo con piacere un ricordo del compianto Goran Sobin, una delle colonne portanti della gloriosa Jugoplastika, scomparso due giorni fa ad appena 58 anni. Il testo, pubblicato su Facebook da Boris Dežulović, è stato tradotto per noi da Ivan-Boško Habuš.
C’erano Dino e Toni, c’erano Peras e Srete, c’erano Zoran Savić e Dule Ivanović, ma io – da sempre con un debole per la classe operaia – di quegli anni gloriosi ricordo con maggiore piacere quel suo ultimo minuto al vecchio palazzetto di Gripe.
È una selvaggia notte di maggio del 1988, mancano cinquanta secondi al termine dell’ultima partita di finale (del campionato di basket YUBA, ndr), il palazzetto si sta squagliando fino alle fondamenta e noi fra le rovine stiamo cercando Vlade Divac, mentre lui in realtà si trova nella tasca di Goran Sobin, il gigante buono: il Manovale di Kaštela, sistemato Divac nel tascone della sua tuta da lavoro, col suo piccone scava nel pitturato del Partizan, vi ricava un altro pallone, lo recapita a Toni e, tenendosi per le costole fracassate, corre in attacco. Intanto Kuki, fluttuando nell’aria bollente, entra in area e lo ripassa a Sobin nel corner di destra, dove il gigante buono con una finta da campetto fa fuori Paspalj e dall’angolo morto, da faticatore che ha appena ripulito un muro a secco, lancia il balun come fosse un masso di quindici chili. Eee, fup, la pietra si trasforma dolcemente in una tripla purissima, senza toccare la retìna – forse l’unica bomba del genere della sua vita – per l’86 a 67, scatenando l’eruzione vulcanica nel pubblico e sentenziando il primo trofeo della migliore generazione che lo sport abbia mai prodotto nei Nostri Spazi (la Jugoslavia, ndr).
Questo era Goran Sobin, proletario del terzo turno di lavoro, triplice stacanovista, eroe di tutte le finali della Jugoplastika. Terminata la carriera, tornò nel suo campo di Kaštel Kambelovac come un partigiano torna dalla guerra, dimenticandosi della pallacanestro e senza fregiarsi di onorificenze. Si dilettava a potare gli olivi e a piantare la bieta uscendo di tanto in tanto con la propria barchetta a pescare per famiglia e amici, arrivando ad un passo da quello che un essere umano possa chiamare felicità. Una volta arrivò ad allevare quattro grossi, grassi tacchini, ma gli affari fallirono perché non riuscì ad ucciderli. Si mise pure a noleggiare un’imbarcazione a Drvenik Veli e, ingenuo ed onesto com’era, denunciò dei noleggiatori irregolari, finendo premiato con diverse costole rotte. E lui, come quella notte di maggio, strinse le costole e proseguì per la propria strada.
Goran, il gigante buono.
Quando il mese scorso, a proposito di Vukovar, si è scatenata quella baruffa capeggiata dalla marmaglia armata di torce e forconi, uno dei primi a farsi vivo è stato Goran Sobin. Per un uomo significa molto – chiedere a Toni e Dino – avere al proprio fianco uno che si è messo in tasca un certo Vlade Divac. In quell’occasione concordammo di rivederci in compagnia di un bicchiere di vino una volta che si fossero calmate le acque.
Purtroppo le vite qui sono sempre state più corte. Addio, compagno, stapperò quel vino per entrambi.