Giulia Rulli (foto di Marco Loi)

Giulia Rulli nasce a Roma il 3 giugno 1991. Si innamora della pallacanestro grazie ai genitori e alla sorella. È un’ala ed è alta 185 cm. L’esordio in Serie A2 con la Virtus Viterbo nel 2009/2010. La prima partita in Serie A1 con Faenza nella stagione 2010/11 e il ritorno nella massima serie con il CUS Cagliari nel 2013/14. Poi due stagioni a Ferrara e, a giugno 2016, la firma con Basket Costa, dove raggiunge i playoff per due anni di fila e vince la Coppa Italia di A2 nel 2017. Il 12 giugno 2018 vince la medaglia d’oro ai Mondiali di basket 3×3 a Manila.

Quando un guerriero insegue il proprio sogno, deve ispirarsi a ciò che realmente fa, non a quello che immagina di fare“. Citando Paulo Coelho, Giulia Rulli quel giorno di giugno a Manila ha ricevuto la giusta ispirazione dall’impresa che stava per compiere insieme a Rae Lin D’Alie, Marcella Filippi, Giulia Ciavarella e all’allenatrice Angela Adamoli. E quel sogno non deve più inseguirlo, perché l’ha realizzato. Di sognare, però, non si dovrebbe mai smettere e adesso Giulia, da vera guerriera, continua a inseguire gli altri sogni che tiene nel cassetto.

Una sorridente Giulia Rulli con la medaglia d’oro al collo (foto di Ferruccio Colombo)

Non si può certo dire che la preparazione e la fine dell’estate siano state baciate dalla fortuna, vero Giulia? “Dalla Coppa Lombardia, torneo amichevole a cui siamo particolarmente legate visto che ci dà una sorta di istantanea sulle nostre potenzialità e sugli obiettivi che vogliamo raggiungere, abbiamo avuto tanti problemi con gli infortuni e le varie assenze per le Nazionali, che hanno un po’ condizionato la nostra preparazione. Tra cui anche il mio, che mi ha costretta a saltare gli Europei 3×3 di Bucarest e gran parte delle amichevoli estive”

Per una combattente come te, è dura restare fuori. “Non vedevo l’ora di rientrare. Avevo addosso una rabbia agonistica da sfogare il prima possibile: venti giorni senza giocare sono stati tanti, troppi. Poi mi sono persa pure l’Europeo…”

Nonostante le varie peripezie, l’inizio della B&P Autoricambi Costa Masnaga è stato eccellente. “La nostra forza è proprio questa: nelle difficoltà siamo sempre riuscite a compattarci. Sembrava un po’ la Coppa Lombardia di due stagioni fa: anche lì avevamo diversi infortuni e assenze, ma chi è sceso in campo ha portato quel mattoncino in più che ci è servito per vincere. Anche quest’anno è stato così, soprattutto nel primo turno a Crema”.

Giulia con la maglia del Basket Costa (foto di Marco Loi)

Questa squadra ha già la consapevolezza di essere una delle più forti, nonostante abbia un organico molto giovane? “Abbiamo una dose corretta di consapevolezza che non sfocia nella presunzione, ma soprattutto le nostre giovani, grazie anche ad un eccellente lavoro del settore giovanile di Basket Costa, sono sfrontate al punto giusto. Sarà interessante vedere come sapremo reagire alle sconfitte, che prima o poi arriveranno, così come non ci si dovrà adagiare troppo dopo le vittorie”.

Sul campo si nota una tua evoluzione. “Mi aspetto di fare ancora uno step di crescita nel gioco da esterna: due anni fa giocavo fissa da “4”, quest’anno sto partendo sempre da “3”. L’obiettivo è quello di sfruttare di più il gioco perimetrale, ma anche eventuali mis-match che si possono creare”.

Migliorarsi sempre e comunque: una caratteristica comune a tutti gli sportivi e sportive più brave. Anche Giulia non fa differenza, nonostante nella sua personale bacheca conservi qualcosa di molto speciale. Un oro mondiale nel 3×3 non possono di certo vantarlo tutti. Perché hai scelto proprio questa disciplina? “In realtà ho iniziato a giocare solo due estati fa con Rae Lin D’Alie, con cui ho preso parte ad un Torneo a Salerno nella categoria FISB. Poi abbiamo vinto le finali a Riccione contro la Nazionale di allora. Adamoli mi ha tenuto sempre in considerazione: a febbraio sono stata convocata per il mio primo raduno”.

A proposito, in tanti sanno che il 3×3 si gioca in una sola metà campo, ma cosa cambia veramente rispetto al basket tradizionale? “Al di là delle regole, la preparazione fisica è molto diversa: sono una sequenza di sprint lunghi 10 minuti effettivi (come un quarto normale). Il ritmo è altissimo, si cerca di creare più tiri possibili (solo 14” per tirare, ndr)”.

Le ragazze campionesse del mondo 3×3 sul podio di Manila (fonte Federazione Italiana Pallacanestro)

E guarda caso proprio il ritmo ha fatto la differenza: “Nel nostro caso è stata proprio questa la strategia che ha pagato: alzare il ritmo e sfiancare le avversarie. L’Italia era una delle squadre più piccole di statura, però avevamo questa tattica, puntando tanto anche sulla velocità di Rae”

Avete battuto pure la super potenza Usa, ma ve l’aspettavate? “Pochi giorni prima della partenza era il mio compleanno e ho espresso, quasi sognando, il desiderio di vincere una medaglia. Oggettivamente era tutto molto complicato: dopo aver giocato bene il girone, però, ai quarti ci siamo subito trovate di fronte uno scoglio durissimo come gli Stati Uniti. La nostra coach Adamoli e lo staff hanno preparato benissimo ogni dettaglio del match e questo ha fatto la differenza”.

Quindi nel 3×3 incide veramente così tanto l’allenatore/allenatrice? “Nessuno l’avrebbe mai pensato, vero? Eppure, nel 3×3 sia scouting che video fanno veramente la differenza, insieme alla preparazione fisica”.

Poi, un concentrato di emozioni: contro la Cina in semifinale e con la Russia per l’oro: “Dopo la vittoria con gli Usa ci siamo fatte trascinare dall’entusiasmo: con la Cina abbiamo vinto nonostante il gap fisico e poi in finale abbiamo giocato sentendoci già addosso la medaglia più bella”.

A dicembre, sarete le prime donne a ricevere il Collare d’Oro del Coni: “Sarà un’emozione forte. Quando mi è arrivata la mail, ha fatto davvero effetto: quando vinci tutte le emozioni sono concentrate, solo a distanza di mesi ti rendi conto davvero di quello che hai fatto”.

L’oro che avete vinto è servito un po’ a sdoganare il movimento cestistico femminile o no? “In qualche modo può aver aiutato: è vero, gli scettici ci sono ancora, anche se effettivamente abbiamo avuto una grande visibilità nei giorni successivi alla vittoria del Mondiale. Siamo comparse su tanti giornali, rilasciando interviste in un circolo mediatico pazzesco: nel frattempo, dovevamo pure preparare le qualificazioni per gli Europei che si sono svolti a fine agosto ad Andorra”.

Giulia Rulli al tiro (foto di Marco Loi)

Alla fine, guardando ai risultati, tutta questa differenza con gli uomini non c’è. “Eh sì, i risultati vengono più dal femminile (Italia U18 campione d’Europa a Kaunas a fine agosto, ndr) che dal maschile: andrebbero valorizzati meglio”.

Eppure, la visibilità per il basket femminile rimane un problema difficile da risolvere. “Di base c’è sempre uno stereotipo, ovvero che la donna non sia brava a giocare a pallacanestro o comunque non possa mai esserlo quanto un uomo. Poi, chiaro, c’è anche un fattore biologico e di differente struttura fisica che influisce sulla spettacolarità. Ad esempio, sono poche le donne (quasi tutte in WNBA) che riescono a schiacciare”.

Tu hai la ricetta giusta per donare un po’ più di spettacolarità, vero? “Il canestro è alla stessa altezza del basket maschile, mentre nella pallavolo, ad esempio, la rete è più bassa. Se il problema fosse davvero solo una questione di spettacolo, allora basterebbe abbassare il canestro: abbiamo già la palla più leggera, perché non cambiare anche questa regola?”

Si potrebbe fare un tentativo. Comunque, c’è anche un problema economico: perché uno sponsor dovrebbe investire in una squadra di basket femminile piuttosto che nell’ennesima squadra di calcio? “La risposta a questa domanda è una sola: deve prima di tutto andare al palazzetto a vedere una partita. È l’unico modo per rendersi conto del cuore che ci mettono le ragazze in campo, assaporando al contempo l’atmosfera di festa con bambini e genitori. Per non parlare del legame che si forma con la città in cui si gioca. Qui a Costa Masnaga siamo riusciti a far appassionare tutto un paese, che ci sostiene sempre: allo stesso modo una persona che voglia supportare e investire in questa realtà, deve per forza venire al campo”.

La disparità mediatica ed economica con il basket maschile si riflette anche a livello di stipendi. Alla maggior parte delle ragazze non basta lo stipendio da giocatrice e, per potersi mantenere, deve rimboccarsi le maniche per trovare contemporaneamente un altro lavoro. “È tutto vero, anche se a prescindere il problema degli studi da portare avanti parallelamente alla carriera sportiva è molto sentito anche nel professionismo maschile. La borsa di studio del CONI per atleti-studenti è un segnale di come si siano resi conto dell’importanza della dual-career: è inutile sfornare atleti e atlete in grado di giocare vent’anni a basket e poi, dopo il ritiro, al di là dei rischi di depressione, non sono preparati per fare nient’altro. Costruire un futuro alternativo: anche le federazioni si stanno muovendo in questa direzione con appositi programmi di inserimento e formazione per ex-atleti che si sono ritirati. Un passo dovrebbero farlo anche le società, venendo maggiormente incontro alle esigenze delle giocatrici”.

Parlando di ritiro, la domanda scomoda bisogna farla: hai già pensato ad un’ipotetica data? “Intorno ai 30 anni. Il pensiero di base è che fino a quando ti diverti e riesci a reggere il campo puoi continuare. Ad un certo punto, però, si arriva ad un bivio: iniziare una carriera lavorativa o continuare con la pallacanestro?

Ha già un’idea su cosa fare dopo? “Io sto facendo psicologia, magistrale in interventi clinici e contesti sociali. Mi ero interessata moltissimo alla psicologica dello sport, ma è vero che in Italia uno sbocco lavorativo concreto in questo settore è piuttosto complicato”.

(credits FIBA 3×3 Youtube)

Dal futuro al passato, facciamo un gioco. Ritorna con la mente a quando avevi 10 anni: i tuoi sogni si sono realizzati? “A quell’età non pensavo di diventare una giocatrice professionista. Avevo iniziato a 6-7 anni: dopo il primo allenamento con tutti i maschi, non ne volevo più sapere. L’insistenza dei miei genitori e il fatto che giocasse anche mia sorella mi ha portato a riprendere questo sport e da lì non ho più smesso. Non pensavo sicuramente di poter girare l’Italia grazie alla pallacanestro”.

Giulia ed il suo numero 8 del Basket Costa (foto di Marco Loi)

Il tuo lavoro, però, ti ha permesso davvero di girare da Nord a Sud, isole comprese, ma della città che hai nel cuore e in cui sei nata, Roma, cosa ti porti sempre dietro?  “Il bello e il brutto: nessuna città è come Roma. Il bello è che quando giri realtà diverse (Faenza, Cagliari, Ferrara e Costa Masnaga ora, ndr), per quanto puoi trovarti bene, quando torni a casa e fai una passeggiata in centro e ti trovi tra Piazza Navona, il Pantheon, i Fori Imperiali…” – Gli occhi di Giulia si illuminano – “nulla regge al confronto. Poi c’è il brutto di Roma, ovvero tutti i problemi che tutti ben conosciamo tutti”.

Conosciamo anche una Giulia in versione più poetica che cestistica: “Quelle sere d’estate ad agosto, quando è quasi notte e i turisti non sono in giro e tanti romani sono in vacanza, Roma è veramente stupenda”.

A proposito di ispirazione, fuori dal campo e in campo chi hai preso come esempio? “In campo non mi sono mai ispirata a particolari giocatrici, anche se mi piace vedere tantissime partite di NBA, WNBA, Eurolega etc. In psicologia si chiama modellamento: è un modo di apprendere, visto che poi tanti movimenti cerco di ripeterli in allenamento”.

Ci sarà però un giocatore che ti è rimasto più impresso. “Ginobili. Quando ero piccola guardavo sempre le partite della Kinder: ha fatto una grandissima carriera. L’esempio migliore di giocatore a 360°: un professionista in campo e fuori”.

Adesso l’esempio per chi sogna di vincere un oro mondiale, però, sei tu: cosa diresti ad una bambina per convincerla a fare questo meraviglioso sport? “Da allenatrice di minibasket il mio motto è “Vieni a provare perché ti diverti”. Se un istruttore è in grado di farti divertire e ricordare un’esperienza che non è un esercizio, ma un gioco, facendolo ricordare con il sorriso, portando i bambini a raccontarlo ai genitori quando tornano a casa con emozione ed entusiasmo, allora vuol dire che hai fatto centro!”.