Drake è un rapper. Drake è canadese. Drake ama il basket e i Toronto Raptors. Una miscela che deflagra tra le note di “Jumpman”.

Io uno come Drake lo capisco. Capisco la sua vita difficile, le sue insicurezze, quei suoi occhi tristi da canadese in gita. Capisco l’imbarazzo che prova quando, con gli amici al bar e uno spritz corretto al succo di acero in mano, si comincia a parlare di sport. Anzi, di basket. Perché Drake, al secolo Aubrey Drake Graham, è un sostenitore dei Toronto Raptors. Al netto di un parallelo calcistico del tutto arbitrario, sarebbe come tifare il Pergocrema, il Poggibonsi, il Clodia Sottomarina. Oppure l’Inter. Già, una vita di frustrazioni, di umiliazioni. Una vita da perdente. E fosse solo quello. In un episodio dei Simpsons, Bart si ritrova, non ricordo come, tra i giocatori della nazionale canadese di basket: butta giù un tiraccio che non tocca nemmeno il ferro, roba che al campetto della parrocchia ti coprirebbero di pernacchie, eppure il coach lo fissa negli occhi e gli dice: “Bravo, ci sei andato vicino: sarai il nostro capitano!”. Ecco, tanto per dire di come la palla a spicchi e il Canada siano due cose avulse. Però, bisogna ammetterlo: negli ultimi tempi, tra la Toronto dei canestri qualche segno di risveglio si è intravisto, riferimento non causale a una finale di Conference raggiunta un paio di anni or sono. Peccato che i Rapaci l’abbiano persa. Come diceva quell’allenatore portoghese (di nuovo di pedata parliamo) noto per la sua innata simpatia? Ah sì: zeru tituli.
Però Drake se ne infischia. E fa bene. Perché lui vive di NBA a prescindere, oltre che di musica, sia chiaro. Sembra che il 28% dei giocatori della più nota Lega professionistica di basket nordamericano lo abbia messo in cima alle proprie preferenze musicali. In pratica, uno su quattro rimpinza la playlist dell’i-phone di un bel tot di pezzi scritti dal rapper canadese. Mica male. Se poi ci mettiamo che il Nostro è arrivato a presentare l’NBA Awards, che ha delle amicizie a dir poco altolocate (Stephen Curry, Kevin Durant, Lebron James, Kendrick Perkins… Ah no, Kendrick Perkins no), il cerchio si chiude. Anche se ancora manca qualcosa, mancano le canzoni che Drake ha dedicato alla spicchia. Più di una a dire il vero. Ma a noi, almeno per il momento, può bastare “Jumpman”.

“Jumpman” è un singolo uscito fuori da “What a time to be alive”, un mixtape del 2015 che Drake ha diviso a metà con il collega Nayvadius D. Wilburn, meglio conosciuto come Future. Un rap un po’ ossessivo, quasi paranoico, condito con i soliti stereotipi dall’hip hop stelle e strisce. Qualche esempio? Spara al talebano, le donne sono tutte zoccole, i soldi da contare (“Ho appena comprato una nuova cassaforte”), le droghe legali e non (con tanto di dedica al famigerato Robitussin), la nouvelle cuisine (aragoste, ossa di pollo e patatine fritte), le cene private, i jet da prendere al volo. Perché il rapper, oltre a essere un tamarro e un sessista è un macho, un uomo che non deve chiedere mai. E se non sei macho, sessista e non vesti da tamarro che rapper sei?
Già, ma la pallacanestro? In “Jumpman”, Drake la infila quasi se ne vergognasse, come se fosse un argomento di secondo piano. Eppure c’è. C’è quando il protagonista del pezzo, ovvero l’uomo che salta, colpisce Manu Ginobili con la mano sinistra, quando messaggia con tale Michael Jordan (del tutto casuale la pubblicità per nulla occulta alle Jordan Fadeaway), quando prende per i fondelli il povero Dikembe Mutombo (“Mutombo, per colpa di quelle troie continui a essere scartato). È roba forte, che ai nordamericani piace da impazzire, specie a quelli  poveri, dalla pelle nera, relegati in qualche ghetto dell’anima. Non so che reazione potremmo tirare fuori noi italiani, figli del Belcanto e pronipoti di sua maestà la poesia, di fronte a una canzone così raffinata, che butta dentro frasi a casaccio, quasi fosse un esperimento di scrittura automatica, in puro stile surrealismo de noiartri. Come dite? In Italia succede già? Ah be’ allora…