Un sogno. Un bimbo che canta (più o meno). Mentre Magic Johnson è ormai un ex giocatore. The Presidente of the United States of America alle prese con un mito della NBA. E con pezzo un po’ folle.

 “È venuto fuori così. C’è sembrato adatto a una vera band di rock’n’roll e allora l’abbiamo mantenuto. Tutto qui”. Tra gli scaffali delle migliori librerie (ma anche in quelle peggiori e in quelle così così) dovrebbe essere ancora in circolazione un volume dal titolo “Dizionario dei nomi rock”, edito da Arcana nel 1998 e curato dal giornalista/scrittore Alessandro Bolli. Un libro che spiega tutto, ma proprio tutto, sulle ragioni sociali adottate dalle rock band: la loro genesi, il modo in cui hanno preso forma, a cosa si sono ispirate. Figurarsi se tra quelle pagine potevano mancare The President of the United States of America. Il loro è un nome particolare, inutile negarlo, tanto che qualcuno potrebbe averli scambiati per megalomani o giù di lì No, non è così: come abbiamo chiarito sin dall’inizio, o meglio, come ha chiarito il Bolli, è stata tutta colpa del caso. E con quel nome, il trio di Seattle ha attraversato gli anni ’90 (già, gli anni ’90 di Seattle…) arrivando sino ai nostri giorni, al netto di un paio di scioglimenti e di conseguenti reunion. Quattordici album in archivio, una serie di canzoni muscolari, condite da testi il più delle volte ai confini del no-sense e del demenziale.
Un esempio? “Basketball dream”. Che muscolare proprio non è: una chitarra acustica, qualche arpeggio annoiato. Energia assente, come la sensibilità di coach Marco Crespi, tanto per intenderci, spina staccata, calma apparente. Ribadita dalla voce di un bambino, delicata, dolce, leggera, fragile. La voce di Tony Ballew, il figlio di Chris, frontman della band. Che descrive un sogno, un sogno particolare.

“I had a dream”: la mini canzone (dura meno di un minuto), parte proprio così, ma Martin Luther King non c’entra nulla. Qui si parla di un altro eroe afroamericano: Earvin Johnson, detto Magic. “Magic Johnson era lì, ha autografato una palla, una piccola palla di gomma alta dieci piedi e con grandi scarpe gonfie. Le telecamere sono accese, metto giù la palla, vado in Tribunale, sparo un colpo, sembrava una palla. Son tornato dove ero prima: la magia era sparita, anche la vecchia palla era sparita. È ora di tornare a casa”. Per interpretare un sogno di tal fatta non è necessario scomodare il pensiero di Sigmund Freud, è tutto abbastanza semplice da capire. Partiamo da un dato di fatto: la canzone è stata scritta nel 1996, Magic si è appena ritirato dalla scena (o quasi): c’è chi piange, qualcuno finirà per vestirsi a lutto, altri negheranno di aver mai visto una partita di basket. Insomma, il Paese è nel caos. E quel sogno non rappresenta altro che l’imbarazzo delle generazioni più giovani di fronte a un futuro pieno di incognite, orfano delle giocate di una guida spirituale come il playmaker dei Los Angeles Lakers. “La magia era sparita”, declama il ragazzino, e lo sparo d’arma da fuoco contro il Tribunale è un chiaro richiamo allo smarrimento della società civile di fronte alle mancate risposte delle istituzioni, che nulla hanno fatto, ed è sotto gli occhi di tutti, per far desistere Magic dal ritiro e dalla (temporanea) fuga in Scandinavia.
Una canzoncina che, negli Usa, i fan dei President of the Unites States of America, e non solo loro, chiamano, facendo ricorso a una piccola variazione sul tema, “Magic Johnson dream”. Tanto per ribadire l’omaggio a uno dei più grandi, eternizzato per l’ennesima volta dal rock’n’roll circus, questa volta con la scusa di un sogno folle e sgangherato.

(Immagine tratta dal sito web di Kiro Tv)