Kareem Abdul-Jabbar ama il jazz. Sonny Rollins, John Coltrane, Louis Armstrong fanno parte della colonna sonora della sua vita. Nel Belpaese i Grog hanno omaggiato l’ex centro dei Los Angeles Lakers con un pezzo che col jazz non ha nulla a che vedere. Poco male, in fondo, è solo una questione di tempi.

È uscita anche in Italia “Sulle spalle dei giganti”, l’autobiografia di Kareem Abdul-Jabbar, scritta in collaborazione con Raymond Obstfeld. Pagine pregne di basket e ganci cielo come se piovesse, e sin qui nulla di strano, ma sullo sfondo di un’Harlem che sembra la Parigi degli anni ’30. Dove la comunità afroamericana si ricompatta attorno alla sua musica, alle sue sfide letterarie e culturali, tenendosi a debita distanza da uno stato razzista indaffarato ad alzare muri.
Jabbar nasce nel 1947 a New York come Ferdinand Lewis Alcindor Jr. (la conversione all’Islam e il conseguente cambio di identità avverrà nel 1971), figlio di Ferdinand Lewis Sr. e Cora Lilian. Suo padre è un ufficiale di polizia e nel tempo libero suona il trombone in un’orchestra jazz, la mamma, oltre a lavorare in un grande magazzino, canta in un coro. La vita del futuro centro dei Los Angeles Lakers scorre tra le prime esperienze cestistiche con la Power Memorial Academy e una colonna sonora che lo segnerà per tutta la vita. Grazie alle conoscenze di papà Ferdinand, il giovane Lew entra in contatto con Dizzy Gillespie, Max Roach, si appassiona alle sonorità di pionieri come Louis Armstrong, John Coltrane, Miles Davis, Duke Ellington. Prima di ogni allenamento del sabato, comincerà a cercare la concentrazione affidandosi alla musica jazz, in particolare a quella di Sonny Rollins. “Quando giochi a basket, è tutta una questione di tempi, proprio come per una canzone”, scrive Kareem tra le pagine di “Sulle spalle dei giganti”. Una sentenza definitiva.
Qualcuno, anche all’interno del grande circo del rock and roll, doveva pur accorgersi di uno come Jabbar. C’è sin troppa musica tra i capitoli della sua storia infinita, nel modo in cui si è espresso nei campi di gioco, in ogni mossa espressa al di fuori dal circuito della palla a spicchi. Persino in Italia qualcuno ha trovato l’occasione giusta per omaggiarlo. Con il massimo della libertà espressiva. Come in un pezzo di ispirazione bebop. Ma partendo da tutt’altre coordinate.

I Grog nascono a Reggio Calabria attorno alla metà del decennio. Due album all’attivo, un suono che va a parare dalle parti della sperimentazione più pura, con tanto di cartoline spedite dalle parti del noise e del post rock. “Your satisfaction is our best reward” è il loro esordio discografico, datato 2016. Un esordio breve e sporco quanto basta, cinque episodi in tutto, che trova in “Kareem Abdul Jabbar” la più degna delle conclusioni. Una cavalcata post-rock, torrida, brutale e tirata, grazie alla quale la band reggina dice la sua su di un campione al di fuori dagli schemi. Evitando di proferire parola, peraltro, affidandosi al solo potere della musica. Come un certo jazz di rottura emerso nel bel mezzo dello scorso secolo. Come quel Kareem Abdul Jabbar che ascoltava i dischi di blues e jazz perché era la cosa più giusta da fare in quel momento: era la musica dei negri, disprezzata dagli (ex?) schiavisti e da chi lo andava a fischiare quando, da ragazzo, metteva su la canotta a andava ad avventurarsi tra i campetti del sud, perché quel colore di pelle lì per qualcuno non poteva andar bene, nemmeno per giocare a basket. I Grog han fatto proprio quel desiderio di guardare oltre, di fare la cosa giusta, di stoppare senza pietà chi non guarda al di là del proprio naso. E per questo non potevano dimenticare un campione assoluto come Kareem Abdul Jabbar.