La stagione del basket è partita in pieno e le partite si susseguono a tamburo battente (esordio classico da basso servizio di “cucina”, come si dice in gergo, scritto con la mano sinistra, tanto per significare quanto sono ispirato), tanto che in questi ultimi giorni ho visto addirittura scampoli delle prime partite dell’NCAA. Eppure, malgrado la frenetica attività, detto onestamente non ho argomenti che non siano la rifrittura di quanto detto e stradetto. Milano è sempre quella, Siena e Cantù pure, l’NBA continua ad essere inguardabile, in Eurolega chi si sapeva fosse forte gioca bene, chi si sapeva potesse avere problemi, li ha. E allora lasciatemi una specie di intermezzo slegato dall’attualità più stretta con alcune considerazioni generali.
Per essere più preciso parto dall’attualità per la prima considerazione. Mercoledì sera ero a Lubiana per effettuare due interviste per Zona sport con Andrea Trinchieri e Bruno Arrigoni, due personaggi che mi interessavano, il primo perché con la sua aria da “fighetto” meneghino di stampo classico, di quelli che a noi di provincia sa tanto di puzza sotto il naso, in campo mostra doti di sana comprensione del gioco che meravigliano, il secondo per le sue doti di conoscitore del basket che gli permettono ogni anno di prendere per Cantù giocatori sconosciuti, ma bravi, e soprattutto giocatori di basket secondo la mia accezione che già conoscete. Arrivato all’albergo dove alloggiava la squadra ho trovato Trinchieri che mi aspettava e che, salutandomi, ha cominciato a parlare in perfetto croato con tipica cadenza quarnerina (il Quarnaro, Kvarner in croato, è il golfo di Fiume, per chi non lo sapesse).
Passato il primo momento di sgomento, l’arcano mi è stato svelato dallo stesso Andrea che è americano da parte di padre (lo sapevate? era il console americano a Milano) e croato con ascendenze serbo-montenegrine da parte di madre, tanto che tutte le vacanze le passava da piccolo ad Abbazia (Opatija, località di vacanza presso Fiume), dove gli amici croati gli facevano una testa come un barile magnificandogli le doti di Dražen Petrović, ed infatti il suo amore per il basket è nato proprio lì. A questo punto tutto è diventato ovvio. Uno che da piccolo parla di natura tre lingue e che vive a contatto con tre culture diverse deve per forza avere una marcia in più. Il basket è affascinante anche perché, pur non conoscendo le persone, vedendole in azione si capiscono moltissime cose della loro personalità ed è infatti ora chiarissimo come Trinchieri possa far rendere al meglio giocatori jugoslavi tipo Micov o Ščekić, per non parlare di gente che si avvicina alla mentalità balcanica tipo i georgiani Šermadini o Markoišvili. Fra l’altro, scusate, ma fa sempre piacere avere conferme che la nostra “bastardaggine” di gente di frontiera, che ha nel proprio DNA culture diverse (per quanto mi riguarda quella italiana, quella slovena ed in senso lato quella asburgico-mitteleuropea) è un plusvalore incalcolabile, in quanto ci permette già da piccoli di vedere il mondo quasi in stereoscopia, nel senso che ogni cosa che vediamo la filtriamo attraverso le culture che ci permeano, per cui impariamo subito a distinguere e soprattutto a non cadere nel sommo pericolo dell’unilateralità e dell’integralismo. Per Andrea (che so che mi legge – me l’ha detto!) avrei comunque una domanda sulla partita. Durante l’intervista mi aveva parlato benissimo di Tabu, uno che secondo lui conosce il gioco, capisce bene i ritmi ed è un play nato, per cui mi sono chiesto vedendo l’ultima azione se gli avesse detto lui di creare l’ultimo gioco per metterlo alla prova e vedere nel momento di stress più grande possibile se è fatto della pasta giusta. O anche per fare in modo che cominci a giocare da protagonista le fasi decisive imparando dai propri errori. Se è così, tanto di cappello e nulla da aggiungere. Se invece voleva pedestremente vincere la partita, allora uno si chiede dov’era Markoišvili che, secondo ogni logica cestistica, avrebbe dovuto gestire l’ultimo pallone con la doppia opzione di sfoderare il suo mortifero arresto e tiro oppure di scaricare per Aradori che aveva da solo tenuto in partita Cantù nel finale con canestri di grande classe, freddezza e presenza. Gli amici di Cantù mi scuseranno, ma per quanto mi riguarda è meglio così, perché dopo tanto tempo faccio un tifo vero per l’Olimpija che sembra finalmente la squadra che volevamo, formata per la maggior parte da sloveni con stranieri senza grilli, funzionali per la squadra. E, guarda caso, sono bastate poche partite di Eurolega da protagonisti per far fare uno straordinario salto di qualità in fatto di personalità e sicurezza a giocatori tipo Blažič, Prepelič ed anche Omić che ha tenuto benissimo il campo nel secondo quarto facendo riposare Baines che ha giocato da infortunato sotto iniezione antidolorifica. Sembra incredibile, quando uno gioca partite importanti e deve tirare i tiri decisivi, progredisce a velocità della luce. Che sia questo il segreto? Ma chi l’avrebbe mai detto! Vale ovviamente anche per Aradori.
Parlando sempre di Eurolega l’altro giorno, alla fine della riunione settimanale di Redazione, i Quattro dell’Apocalisse di TV Capodistria (Siljan, Stancich, Manià ed il sottoscritto) si sono imbarcati al bar (le discussioni più importanti e pregnanti avvengono sempre al bar) in un’accesa discussione sul significato del cambiamento di orari quest’anno dell’Eurolega che ha spostato le partite di un giorno. Siamo arrivati alla conclusione che il senso della rivoluzione ci sfugge del tutto. Sembra di capire che i reggenti dell’Eurolega volevano sfuggire alla morsa stritolante del calcio trovando una nicchia nel palinsesto delle varie TV. Operazione questa al confronto della quale l’assalto di Don Chisciotte al mulino a vento fu un’azione improntata al più solido realismo. Non occorre essere aquile, basta leggere i programmi televisivi, per rendersi conto che il calcio è ormai in piena fase metastatica ed occupa ogni spazio possibile: da venerdì a lunedì sera con le partite dei vari campionati ormai spalmati in tutti gli orari possibili, e poi da martedì a giovedì con le Coppe. Per non parlare delle Coppe nazionali. Per non parlare delle partite delle nazionali. Personalmente penso che bisogna mettersi il cuore in pace. Il basket, per quanto sia senz’altro il secondo sport di squadra in Europa, o almeno il primo sport di palestra, deve finalmente rendersi conto che guardare al calcio e tentare di fargli concorrenza è più che delittuoso e controproducente, è semplicemente idiota, il che, come disse quello, è ancora peggio. Per cui dovrebbe, a mio avviso, partire da tutta un’altra prospettiva per stabilire date ed orari più producenti. Si faccia finta che il calcio non esiste, nel senso che l’appassionato di basket normalmente va a vedere il basket a prescindere da eventuali partite di calcio, essendo basket e calcio in generale sport che interessano segmenti diversi della popolazione. Ed allora si facciano calendari e orari andando il più possibile incontro a questo segmento di popolazione provando ad individuare lo spettatore tipo e le sue esigenze. Per esempio: se vogliamo essere uno sport per giovani, allora le 20 e 45 sono orari che vanno bene per Spagna o Grecia, ma non certamente per il Nord Europa, terra ancora tutta da conquistare, per quanto la Germania dia segnali estremamente confortanti di aumento dell’interesse soprattutto nelle fasce giovanili (Nowitzki?). E, conoscendo i tedeschi (discorso di cui sopra!), le otto e tre quarti serali sono un orario suicida in terre dove i ristoranti chiudono la cucina, se tirano tardi, alle nove. A questo punto anche i giorni di gara si possono scegliere a proprio gradimento. Sempre per esempio, perché no a questo punto giocare l’Eurolega da martedì a giovedì, oppure martedì e mercoledì, lasciando l’Eurocup al giovedì? Ripeto, si tratta di esempi e di idee buttate giù a caso, ma servono per spiegare quanto intendo dire, che cioè bisogna andare incontro alle esigenze degli appassionati di basket lasciando stare da parte qualsiasi riferimento al calcio che è tutt’altra cosa. In questo modo, abbandonando l’esiziale idea di far giocare le squadre di venerdì (chissà come, l’ultimo turno di Eurolega vedeva in programma 10 partite su 12 il giovedì!), si può recuperare la centralità dei campionati nazionali che, sempre secondo il mio vedere, dovrebbero riprendere ad essere giocati in orario fisso con l’unica eccezione della partita televisiva. E’ mia precisa opinione che l’abitudine crea l’affezione per non dire la dipendenza. Quando uno, come ai tempi che furono, si abitua che la partita casalinga della squadra del suo cuore si svolge in data ed orario cementati, si organizza in modo tale da rendere quasi inevitabile che la domenica vada a vedere la partita. Adesso, quando questa data e questo orario siano i più adatti, è oggetto di discussione. Probabilmente le sei del pomeriggio della domenica continua ad essere l’orario più logico, ma non sono sicuro. Vorrei vedere l’effetto delle otto di sera al sabato, per poi avere il tempo di andare a farsi una pizza e chiacchierare della partita e di altro, ovviamente. Ripeto, tutto si può discutere, però studiare la cosa sarebbe opportuno.
Sempre durante la riunione al bar di cui sopra abbiamo discusso anche del nuovo assetto delle competizioni internazionali. Accolto senza riserve l’avvicendamento negli anni dispari di Mondiali ed Europei, la discussione si è accesa sull’allargamento a 32 squadre dei Mondiali. Tre quarti dei partecipanti erano perfettamente d’accordo sul fatto che era una stupidaggine mai vista. Dicevano: come pensi di fare propaganda al basket se la maggior parte delle partite della prima fase finisce tanto a poco? Il quarto (io) era invece leggermente controcorrente: fermo restando che il tanto a poco non è certamente stimolante, provava a fare un discorso più generale. Nel senso che secondo il suo parere l’unico ed imprescindibile veicolo di propaganda di uno sport è la nazionale. Provate a pensarci: c’è uno sport di cui non avete la più pallida idea. Però scoprite che la vostra nazionale, in una grande manifestazione, fa bene e batte magari una squadra di un Paese dove quello sport è molto più popolare. Non vi stimola vedere di cosa si tratti e di capire almeno un poco come si svolga? Ecco, questa è secondo me l’unica molla che può far spostare l’interesse verso un determinato sport di fasce di popolazione che fino a quel momento non ne sapevano nulla. Il basket in Italia è esploso con i grandi risultati di Lombardi e compagni alle Olimpiadi di Roma. Quando la Germania vinse l’Europeo ’93 in casa la stessa estate andammo con amici a Berlino ed un giorno, passeggiando, rimasi piacevolmente sorpreso nel vedere un playground gremito di ragazzini che giocavano a basket. Nella stessa Jugoslavia il basket esplose dopo l’argento agli Europei giocati in casa nel ’61. L’idea dunque di allargare il Mondiale per farvi giocare il maggior numero di squadre possibili è un’idea giusta. Del resto Sua Maestà stessa il calcio ci insegna che, da quando le squadre che partecipano al Mondiale sono molte di più, il calcio ha raggiunto vertici impensabili in Africa ed Asia, tanto che oggigiorno giocare contro squadre di vertice di quei continenti, le varie Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Nigeria, Egitto, Giappone, Corea, sono cavoli amari. Il problema purtroppo strutturale del basket è che si tratta di uno sport nel quale il fisico è fondamentale e dunque per la stessa struttura fisica di quelle popolazioni (detto senza peli sulla lingua, mediamente terribili tappetti) non potrà mai essere competitivo in Estremo Oriente. Per non parlare della mentalità di quelle genti che fa sì che una gigantesca Cina, nella quale possono pescare gente dal fisico più che adatto, continui a stentare non essendo ancora riuscita a far capire ai suoi giocatori cosa si vuole da uno che gioca a basket (sempre detto senza peli sulla lingua, combattività, voglia di vincere, in breve attributi). Però secondo me non bisogna disperare. Nessuno pensava che, proprio a causa di questa mentalità, Giappone e Corea potessero essere competitivi nel calcio. Ed invece, con l’avvento di nuove generazioni, più globalizzate, diciamo così, queste nazioni hanno fatto un salto di qualità mentale straordinario, tanto che un Park o un Kagawa (peccato si chiami così – come potrebbe uno con questo nome giocare in Italia?) sono grandi giocatori in tutti i sensi. Lasciamoci dunque sorprendere, anche se penso che il percorso sarà lungo e difficile. La frontiera vera però è sicuramente l’Africa, dove sono tutti “africani” senza l’ “americano” dietro. Io penso sempre a che potenziale allucinante possa allignare per esempio in Nigeria, dove la popolazione (mischiata fra l’altro fra ceppi diversi per origine, cultura ed anche religione) è il doppio di quella di tutti gli afroamericani, cioè dei neri d’ America. O, rimanendo da quelle parti, che potenziale possa esserci in Costa d’Avorio, Ghana, Camerun, Angola, Congo e via dicendo. Fare un tentativo di popolarizzare il basket in quella parte del mondo attendendo che la situazione economica e sociale migliori di quel tanto che possa permettere di mettere in piedi strutture efficaci di reclutamento ed istruzione è secondo me un tentativo da fare subito. Magari riservando molti posti di più alle squadre africane ai Mondiali. Direte: allora gli asiatici si arrabbieranno! Rispondo: per questo ci sono i politici, ed è loro preciso compito mediare e trovare soluzioni che accontentino (o scontentino in modo uguale) tutti.
Sergio Tavcar