Nelle Filippine ogni supporto è buono per un canestro, e non serve certo parquet (foto theworldorbust.com)

Una delle più vecchie e apprezzate rubriche di DailyBasket varca nuovi confini arrivando in Asia e avventurandosi nel vero Paese del basket: non gli Stati Uniti, non la Serbia, bensì le Filippine. Non ci credete? Ricredetevi nelle prossime righe.

MANILA – A Manila sei sempre in coda. Sei in coda all’aeroporto internazionale, sottodimensionato per le dimensioni della città e per il traffico aereo che genera, a maggior ragione essendo la capitale di un Paese composto da oltre 7000 isole; sei in coda nelle trafficatissime arterie a più corsie inastate – tra gli altri – dai folkloristici jeepney (vecchi veicoli militari statunitensi riadattati a trasporto pubblico) e negli stretti vicoli in cui anche normali automobili non esitano a insinuarsi; sei in coda persino nei ristoranti di cucina filippina, internazionale e fusion che spuntano come funghi nei moderni ed eleganti distretti di Makati e BGC, dove i centri commerciali diventano arte di arredamento urbano; e sei in coda anche negli innumerevoli campetti che in tutta la città (e in tutto il Paese) fanno capolino in mezzo a un parco o tra i palazzi, dietro una rete o all’ombra di un campanile. Ad annunciarli è l’irregolare rimbalzare della palla a spicchi, un tonfo costante (in particolare nel tardo pomeriggio, ma c’è anche chi esercita il proprio ball-handling in piena notte, per la gioia dei vicini) che – come uno strano, irregolare metronomo – scandisce il tempo della vita dei filippini appassionati di basket. Ovvero, del 90% (o forse più) della popolazione di questo Paese sparpagliato in mezzo al Pacifico che – per ragioni almeno parzialmente oscure – ha fatto della pallacanestro una materia di culto inferiore per importanza solo al diffusissimo cattolicesimo (eredità degli oltre tre secoli di dominazione spagnola), in barba a caratteristiche fisiche tutt’altro che adatte a uno sport in cui l’obiettivo da centrare campeggia a 3,05 metri dal terreno.

PACIFIC RIMS – C’è qualcuno che a quelle ragioni – e alla “improbabile storia d’amore delle Filippine per il basket” – ha dedicato anni di vita, viaggi e ricerche. Ma non si tratta di un filippino, bensì di uno statunitense nativo di New York, Rafe Bartholomew, che grazie a una borsa di studio Fulbright ha iniziato a esplorare il bizzarro mondo della palla a spicchi filippina oltre 10 anni fa. Oggi, un libro e due documentari più tardi (qui sotto una parte di quello appena realizzato per CNN Philippines), è ormai filippino d’adozione, parla un buon tagalog e può definirsi uno dei massimi esperti stranieri di basket filippino. Siamo partiti da lui, dai suoi racconti e dalle sue approfondite conoscenze, per tracciare i contorni di questa smisurata devozione. “Sono arrivato a Manila nell’estate del 2005, con molte nozioni storiche e politiche sul Paese e un bagaglio di racconti legati al basket che mi apparivano inverosimili. Ad esempio, si dice che una volta il governo spostò un censimento elettorale perché era programmato in concomitanza con una partita di finale NBA”.

Per un europeo, entrare in un taxi e poter chiacchierare dell’ultimo campionato di basket o di Steph Curry così come in Italia si parlerebbe delle polemiche di Juventus-Milan o di Leo Messi, è già un’insolita sensazione piacevole. Ma è sufficiente trascorrere un paio di giorni a Manila per capire che il basket, per i filippini, è un chiodo fisso in qualsiasi contesto: gigantografie delle star PBA (la lega professionistica filippina) sui palazzi, sulle fiancate dei jeepney e nei negozi, ragazzini che palleggiano in strada anche senza canestri nei paraggi, partite in tv ad ogni ora e riferimenti alla pallacanestro in ogni dove. “Ho visto campetti e palasport in tutti gli Stati Uniti e non solo”, continua Rafe. “Ma niente tocca le corde del mio cuore cestofilo come il basket di strada filippino. La pallacanestro è così radicata nella società filippina che per un malato di palla a spicchi come me è il paradiso. Così, 12 mesi sono diventati 36, e dopo 12 anni torno ancora di tanto in tanto per incontrare vecchi amici e continuare a esplorare questa incredibile devozione”.

Isola di Coron: riso ad asciugare sul campo da basket (foto A.Rizzi)

BARANGAY E VILLAGGI RURALI – Dicendo che il basket è al centro della vita dei filippini, non si sta necessariamente utilizzando una metafora: nel cuore di ogni città, quartiere e villaggio, con poche eccezioni, ci sono – più o meno sgangherati – almeno una chiesa ed un campetto da basket e, mentre la prima viene usata prevalentemente per il suo scopo precipuo, il secondo diventa spazio multifunzionale (diremmo noi) per ogni tipo di evenienza. Non c’è altro spazio per una fiera paesana? Il membro del congresso di turno ha bisogno di un pulpito per raggranellare voti tra i contadini (spesso, peraltro, sono proprio i politici locali a finanziare la costruzione di campetti facendo stampare il proprio nome a “imperitura” memoria sul tabellone)? È arrivato il periodo dell’anno in cui si mette ad asciugare il riso al sole? Per tutto questo e molto altro c’è il campo da basket, per lo scorno dei bambini locali che per qualche giorno dovranno ricorrere ad altri divertimenti, magari davanti a un computer per quelli delle città, con una vecchia ruota o qualche gessetto per quelli che, nelle campagne e nei quartieri poveri, non godono ancora degli infidi benefici della tecnologia.

Ma la diffusione capillare dei campetti non si limita certo a quelli pubblici: una decina di metri quadrati davanti casa sono più che sufficienti per fissare un canestro a qualche parete o cancello; e se si abita in un appartamento dei tanti grigi “alveari” di città, c’è sempre un’alternativa: ad esempio il cancello di una via che di sera e nel fine settimana viene chiusa al traffico: se agli abitanti del barangay (la più piccola unità amministrativa filippina, corrispondente più o meno a una via o un isolato) si ingegnano a fissare un canestro alla cancellata, nessun poliziotto o addetto comunale si sognerà di rimproverarli, anzi, è più probabile che si unisca alla contesa. E dove invece le risorse di modeste famiglie contadine non sono sufficienti per un fiammante anello in metallo, ma magari dietro casa si apre una piccola radura terrosa popolata soltanto dagli onnipresenti gechi e bufali d’acqua (animale nazionale filippino), allora ogni materiale è buono per allestire un campo che, agli occhi dei bambini che ci giocano, non ha nulla da invidiare alle migliori arene della NBA o della PBA. Molti di quei bambini, infatti, non vedranno mai una partita di professionisti dal vivo: il primo ostacolo distanza geografica di gran parte della popolazione filippina dalla PBA: tutte le squadre sono di Manila, anche quelle “di espansione” sorte di recente, e i pochi incontri organizzati fuori città a scopo promozionale si tengono nelle poche capitali provinciali con impianti all’altezza. Negli anni’90 ci aveva provato la MBA (Metropolitan Basketball Association), la lega concorrente, a percorrere questa strada, aprendosi a club di città quali Cebu, Negros e Davao così da incentivare il senso di immedesimazione degli appassionati locali, ma questa pur vivace e innovativa lega non ebbe vita lunga, soccombendo nel 2002 ai problemi economici di alcune franchigie e agli scandali relativi ai passaporti “regalati” ad alcuni sedicenti Fil-Am (statunitensi di origine filippina, che oggi popolano in gran numero la PBA). Il secondo – e non meno importante – è quello economico: per molte famiglie dei bassifondi urbani, e per la quasi totalità di quelle rurali, è impensabile potersi permettere il lusso dei biglietti per la partita, senza contare il prezzo e le ore trascorse su di un gremito jeepney (o sulle poche linee di metropolitana) per arrivare a destinazione e tornare a casa. Molte di esse sono costrette ad arrabattarsi tra mille difficoltà – e magari inventarsi qualche lavoro extra – anche solo per arrivare a fine mese, pur se a vederne i frequenti sorrisi e l’atteggiamento spensierato non si direbbe.

Via chiusa? Il cancello diventa supporto per il canestro (foto A.Rizzi)

Come in molti altri paesi che non condividono i privilegi di noi occidentali, infatti, le complesse condizioni di vita non sembrano abbattere l’animo della popolazione che, con un misto di speranza e fatalismo, preferisce riderci su: “Lo sai, noi qui viviamo tutti negli USA”, ci dice uno spavaldo ragazzino incontrato in un campetto di Intramuros (centro storico di Manila dalla chiara toponomastica spagnola), lasciandoci inevitabilmente perplessi. “Sì, non lo sai? USA, United Slums of Asia”. Il ghiaccio, però, è stato rotto ben prima. Da occidentale, tradito dall’aspetto tutt’altro che filippino, non fanno in tempo a passare 10 secondi che già qualcuno dei ragazzi in attesa ti si rivolge con un sorriso e l’immancabile “Hello Sir”, ingaggiandoti per la partitella successiva (ingaggiare non è il verbo più opportuno, dato che spesso sono i partecipanti a pagare una piccola quota a mo’ di premio per i vincitori). Da europei, tra tutti i potenziali shock culturali che si possono patire nelle Filippine, quello più grande – almeno per i cestofili – è probabilmente quello che ci si trova ad affrontare all’apertura delle ostilità di una partitella di basket: che si decida di giocare in infradito (le scarpe, nella madida calura di Manila, sono una prigione che ci si autoinfligge solo in occasioni formali) o a piedi scalzi (opzione prediletta dagli autoctoni), la competizione diventa presto insostenibile per le nostre abitudini. Non tanto in difesa, dove vige spesso un tacito patto di non belligeranza e qualsiasi occidentale sopra il metro e settanta viene piazzato a fare da intimidatore sotto canestro, quanto in attacco: un po’ come nella PBA, dall’atteggiamento dei giocatori attaccanti si ha sempre l’impressione che manchino 5 secondi allo scadere dei 24”, e appena si recupera la palla i ragazzi in campo (molto variegati per età e talento) scattano verso l’altra metà del campo puntando dritti al canestro. La prima, seconda e terza opzione del giocatore in possesso di palla è sempre quella di andare a canestro ma, se si trova proprio costretto a cedere la “biglia”, è possibile che venga finalmente coinvolto il malcapitato europeo. Il quale, arrivato a rimorchio degli assatanati compagni filippini e piazzato in un’imprecisata posizione di post alto, tenta per un paio di azioni di fare diligentemente girare palla e sfruttare la propria superiorità fisica portandosi spalle a canestro, salvo accorgersi che, puntando dritto al ferro una volta ricevuta palla, consumerà meno energie e – soprattutto – non troverà alcuna seria opposizione fino all’eventuale rimbalzo.

Bambini di un villaggio dell’isola di Coron si sfidano su un campetto di tutto rispetto (foto A.Rizzi)

È forse questo abissale gap con la base del movimento cestistico il limite più grande della PBA: al di là del modesto livello tecnico-fisico dei giocatori e dello stile di gioco improntato al corri e tira e alla spettacolarità all’americana (compresa tolleranza di passi e altre infrazioni, salvo fischiare falli antisportivi ad ogni piè sospinto), si ha spesso l’impressione che il campionato sia uno sfavillante spettacolo finanziato da pochi facoltosi sponsor per il divertimento di relativamente pochi tifosi, più che una competizione nazionalpopolare mirata a coinvolgere le varie fasce di popolazione. Dal momento che le squadre hanno tutte sede nella capitale e non rappresentano una località in particolare, le partite si tengono molto spesso in enormi palasport quale il mitico Araneta Coliseum di Quezon City (teatro del leggendario duello tra Mohammed Ali e Joe Frazier nel 1975) e la nuova MOA Arena, vicina al lungomare di Pasay. Così, a meno che non si giochi una gara di finale o che in campo non ci sia il Barangay Ginebra San Miguel (una delle squadre più vincenti del passato e di gran lunga quella con più tifosi), i vuoti sugli spalti sono preponderanti e il silenzio del pubblico, interrotto solo dalle grida delle colorite “curve” (i cui strampalati personaggi meriterebbero un approfondimento dedicato), permette di ascoltare persino il cigolio delle scarpe sul parquet e le proteste dei giocatori all’indirizzo di arbitri e arbitresse. Proteste il cui re incontrastato è senza dubbio Beau Esparrago Belga, paffuto lungo dei Rain or Shine Elasto Painters ormai divenuto una macchietta, tra tifosi e addetti ai lavori, per i pachidermici movimenti con la palla e gli immancabili borbottii a gioco fermo.

Lewis Alfred Vasquez “LA” Tenorio, play del Ginebra

Proprio la sua canotta, assieme a quelle di “LA” Tenorio, Terrence Romeo e altri, è tra le più ricercate del merchandising della PBA. La loro diffusione tra adulti e bambini, quasi pari a quella delle canotte NBA, fa pensare che in fondo la lega governata dall’ex giocatore e allenatore Chito Narvasa abbia una funzione sociale: i giocatori PBA sono degli idoli tendenzialmente positivi, in molti casi provengono dai ceti più umili e, quando vanno all’università, lo fanno di norma in una delle “big four” di Manila (Ateneo, La Salle, Santo Tomas e Far Eastern), stringendo rapporti di amicizia con molti concittadini coetanei che poi finiscono inevitabilmente per seguirne le gesta da professionisti. In campo e fuori, almeno ufficialmente, non si lasciano andare a particolari colpi di testa, e se si gioca all’Araneta Coliseum, dove un grande crocifisso in legno domina il corridoio degli spogliatoi, vi è una costante processione pre- e post-partita ad accarezzare i piedi di Gesù (alle nostre latitudini, spesso, le divinità vengono evocate in modo meno pio durante e dopo le partite…). Insomma, i giocatori PBA (quasi tutti) rappresentano un esempio positivo e l’incarnazione di una speranza di riscatto sociale, di un sogno cullato da ogni filippino nella sua infanzia. E sempre parlando identificazione del pubblico con i giocatori professionisti, la PBA ha qualcosa da insegnare a tutte le leghe europee: a seconda del tipo di campionato, a ogni club è concesso uno o nessun straniero (ogni anno la lega organizza tre competizioni, di cui una – seguitissima – è la “All-Filipino Cup” per soli autoctoni), e per questi import (di solito statunitensi), vista la stazza modesta dei giocatori locali, è imposto un limite di altezza variabile, che si aggira attorno ai 2,05. Come a sottolineare che i protagonisti sono i filippini, e gli americani devono essere soltanto un lusso, un’addizione mirata che faccia la differenza come in Europa decenni or sono.

Qualunque sia la verità, l’ossessione per le luci della ribalta internazionale e l’uso dell’espressione professionistica di una disciplina come metro di giudizio sono probabilmente una distorsione occidentale: a più riprese si sono sentiti addetti ai lavori nostrani affermare – e cercare di giustificare con abile sfoggio di equilibrismo dialettico e memoria selettiva – che la pallacanestro italiana è in salute. Ma l’impressione è che in Italia, in strada come nelle palestre, la palla a spicchi appaia sempre meno attraente, in particolare agli occhi dei bambini che del basket fashion Milano-centrico non sanno che farsene, e avrebbero piuttosto bisogno di istruttori capaci e motivati. Ci soffermiamo su queste riflessioni mentre all’aeroporto, tra i passeggeri in partenza, un bimbo filippino si assicura che il proprio oggetto più prezioso, che sta portando con sé chissà dove, sia ben protetto all’interno del bagaglio: è una palla da basket.