Niente da dire: è stata una settimana di emozioni forti, cominciata nello sconforto più lacerante per il trionfo delle forze del male nell’Eurolega e finita con l’estasi del trionfo dell’Aquila dello Zasavje (come viene chiamato in Slovenia Primož Roglič dalla regione dalla quale proviene che, come dice il nome stesso, è il territorio dietro alla Sava, regione mineraria da secoli, e dunque è un po’ il Galles della Slovenia, terra di gente molto tosta tipo nel basket Tušek o Smodiš) a Lussari, o Svete Višarje in sloveno, nella tappa decisiva del Giro. Questi eventi hanno scatenato in me tutta una serie di considerazioni sulla potenza dello sport e delle emozioni che offre che vorrei dividere con voi.

Prima di tutto però la conferma della sconvenscion per sabato 17 giugno in luogo da destinarsi di cui ovviamente sarete informati in tempo. Quello che vorrei aggiungere è che a questo punto, viste le tante assenze, avrei una mezza (tre quarti?) idea di fare una specie di bis a metà luglio per quelli che non potrete venire in giugno. Tanto per me due sabati in osmica sono sempre meglio di uno solo, per cui dite solo se gli assenti della prima tornata sareste interessati a una cosa del genere e, eventualmente, quando sarebbe la data migliore. Va da sé che non è assolutamente proibito venire due volte, ovviamente.

Cominciamo dall’inizio, dall’Eurolega e con la conclusione che è l’unica che non volevo che si verificasse, non solo, ma il modo nel quale si è verificata è stato il peggior possibile. Che cioè a vincere la finale fosse proprio colui che in modo proditorio e del tutto estraneo allo spirito sportivo era riuscito a portare la sua squadra alle Final Four. La cosa che più mi amareggia è che, più passerà il tempo, più nella storia della competizione rimarrà solo l’immagine del tiro vincente a due secondi dalla fine, mentre tutta la squallida manovra grazie alla quale si era arrivati a quel tiro andrà inevitabilmente nel dimenticatoio. Non solo, ma purtroppo bisogna ammettere con la morte nel cuore che a vincere la finale è stata la squadra che più ha voluto la vittoria, che ci è arrivata in extremis grazie a due prodezze di classe e esperienza dei suoi senatori (il canestro forse decisivo è stata la tripla del Chacho che ha portato il Real a meno uno), e che in tutto questo la squadra che tutti volevamo vincesse si è letteralmente liquefatta nel finale, giocando alla c.d.c. praticamente tutti gli ultimi attacchi, per cui, sempre con la morte nel cuore, bisogna ammettere che le forze del male hanno, nel singolo episodio agonistico della finale, meritato di vincere. Il che brucia ancora di più considerando le premesse.

Oddio, dall’altra parte non si può certamente dire che le altre squadre presenti alle Final Four abbiano fatto di tutto per impedire alle forze del male di vincere. Il Barcellona della semifinale è stato ingiudicabile e ingiustificabile per il non gioco esibito. Per la cronaca, quanto prende Mirotić di stipendio per mostrare quanto ha mostrato nella semifinale? A questo punto si potrebbe pensare che le forze del male abbiano avuto mano anche nella sua controprestazione visto che è un prodotto del loro vivaio. Con la loro potenza tutto sarebbe possibile. Nell’altra semifinale l’unica domanda che mi ponevo di continuo era come mai l’Olympiacos potesse essere sotto di 12 contro la massa di scervellati che si è rivelato (dopo, quando nel secondo tempo i greci hanno cominciato a giocare in modo umano) il Monaco che per tutto il primo tempo era sembrato una squadra di basket. Della serie, forse un play vero ogni tanto in una squadra servirebbe. Ogni riferimento a Milano è ovviamente fortemente voluto.

Avete parlato della difesa a zona del Real che ha evirato l’attacco dell’Olympiacos. Il quale, scusate, secondo me si è evirato da solo. Partendo dall’inizio non credo bisogni essere John Wooden per arrivare all’illuminazione che la difesa più produttiva che si possa fare quando in quintetto si ha uno come Tavares è la zona presidiata al centro dal suo totem in versione scudo spaziale. E infatti quando vedo il Real in zona mi chiedo subito da buon allenatore che nella vita per vivere ha dovuto fare il telecronista quale sarebbe stata la strategia dell’attacco alla zona dell’Olympiacos che, presumevo, sarebbe stato “il” cardine della preparazione tattico-strategico del prepartita da parte di Bartzokas e del suo staff tecnico. E in uno dei primi attacchi vedo Papanikolaou che fa un taglio flash in lunetta, riceve da Sloukas, palla di nuovo fuori, Papanikolaou taglia, riceve a metà del pitturato e segna in semigancio da due metri. E io salto sulla poltrona facendo una specie di balletto celebrativo e urlando a squarciagola: “Ho visto un attacco alla zona! Grazie, Dio onnipotente, di avermi fatto vedere un attacco alla zona! Ho visto un attacco alla zona!” E’ stato anche l’ultimo attacco alla zona che ho visto. Poi con raccapriccio ho visto solo pick-and-roll alti per il play che, come sapete, è secondo me l’antiattacco alla zona per eccellenza che dovrebbe essere proibito per regolamento, e ovviamente tutto è andato a escort per cui per il resto della partita sono stato combattuto da uno straziante tarlo esistenziale, nel senso che il mio sentimento cestistico mi portava inevitabilmente a fare il tifo per le forze del male, cosa che non pensavo mai potesse essere neanche concepibile. Per cui alla fine ero in preda a tutta una serie di sensazioni laceranti, tipo una vergogna profonda per non essere del tutto prostrato dalla vittoria delle forze del male che in un cantuccio del mio animo sapevo avevano in realtà meritato di vincere, in senso strettamente cestistico, quella partita, che mi hanno fatto stare veramente male.

Per fortuna poi è venuto il glorioso fine settimana di ciclismo. Per come si è svolta l’ultima cronometro di Lussari la prima idea che viene in mente è che gli americani, se Roglič fosse uno di loro, starebbero già preparando febbrilmente un instant biopic per celebrare la sua impresa nella quale si sono verificate cose incredibili che ci fanno credere che il destino, o qualcosa di ancora più importante, esista veramente. Stavo pensando alla sequenza di apertura: Roglič è pronto per partire sulla rampa di partenza. Flash-back mentre la camera si sposta di qualche chilometro verso il trampolino di salti con gli sci alle porte della cittadina. Siamo verso la fine dei primi anni 10 del secolo: un quartetto di giovani saltatori sloveni, Mitja Mežnar, Primož Roglič, Jurij Tepeš (figlio d’ arte con il padre medagliato olimpico e poi grandissimo volatore sugli sci, plurivincitore in Coppa del Mondo) e Robert Hrgota (attualmente CT della nazionale slovena di salti) vince i mondiali juniores della gara a squadre e festeggia. La camera si alza, vola sopra Lussari, supera il crinale del monte e scende a valle dall’altra parte arrivando direttamente sui trampolini di Planica, distante da Lussari in linea d’aria un paio di chilometri. Nuovo flash back. Il giovane Primož, grande speranza dei salti, durante un allenamento cade rovinosamente (come vedete non gli succede solo in bici), si spacca tutto e, una volta rimesso insieme, comincia la riabilitazione andando in bicicletta. La cosa gli piace, comincia a fare gare amatoriali e a stravincerle, tanto che fra gli appassionati in Slovenia il suo nome comincia a circolare. La notizia di questo saltatore che distrugge la concorrenza nelle gare amatoriali arriva a Novo Mesto e i responsabili della locale squadra di ciclismo della categoria Continental, incuriositi, chiamano il giovanotto per una serie di test. Scena successiva: il CT della nazionale slovena di sci Martin Hvastija riceve una telefonata da Novo Mesto. “Hai già diramato le convocazioni per il ritiro della nazionale?” “Non ancora”. “Bene, perché ti raccomandiamo vivamente di prendere in seria considerazione il ragazzo che vince tutte le gare amatoriali”. “Come? Un amatore? State scherzando?” “Aspetta a parlare dopo che vedrai i risultati dei test che gli abbiamo fatto!” Il ragazzo si dedica seriamente al ciclismo e dopo un anno all’Adriamobil, la squadra di Novo Mesto, viene adocchiato dagli olandesi della Jumbo che gli propongono un contratto. Scena successiva: nel prologo del Giro d’Italia che si svolge in Olanda un giovane sconosciuto sloveno arriva secondo a qualche centesimo da Tom Dumoulin e tutti si chiedono increduli chi sia. Lo conosceranno meglio quando poi in Italia vincerà la cronometro proprio davanti a Dumoulin.

Comincia così una lunga e gloriosa carriera con vittorie nelle corse più importanti, compresa una vittoria in solitario dopo una lunghissima fuga in un tappone del Tour de France, prima vittoria di tappa di uno sloveno nella Grand Boucle. La sfortuna però lo perseguita: cade al Giro mentre i suoi dell’ammiraglia sono a fare pipì, si innervosisce e il Giro lo perde. E poi arriva il momento cruciale: la bambola a cronometro, il suo terreno preferito, proprio nella penultima tappa del Tour con arrivo alla Planche Del Belles Filles, affrontata in maglia gialla, maglia che poi perde a scapito di un suo più giovane connazionale, anche lui spuntato dal nulla, che a 21 anni vince il suo primo Tour. Lui però non si arrende: è un combattente e si riscatta dopo ogni disavventura, per esempio vincendo la Liegi in volata su Alaphilippe che aveva già alzato le mani in segno di giubilo. Ma purtroppo le disavventure si contano a bizzeffe: la caduta all’ultima tappa della Parigi-Nizza in maglia gialla, quella alla Parigi-Roubaix dopo la quale si rimette da solo la spalla a posto al ciglio della strada, ma soprattutto, dopo lo straordinario oro a cronometro alle Olimpiadi, quella al Tour del ’22 che lo porta al ritiro qualche giorno dopo, avendo avuto cura prima di far perdere il Tour a Pogačar stroncandolo con una serie di scatti sul Galibier, il tutto a vantaggio del suo coequipier Vingegaard. Arriva rattoppato alla Vuelta: nella prima settimana non va avanti e perde 3 minuti da Evenepoel, poi si rimette in sesto e all’inizio dell’ultima settimana pianta Evenepoel e gli recupera un minuto. Poi addirittura scatta sul diritto poco prima dell’arrivo portando un piccolo gruppetto al traguardo. Fa la volata e si schianta contro le transenne. Insomma una tragedia. Operazione, riabilitazione, accurata preparazione in altura e inizio stagione ’23 con occhio al Giro. Due gare a tappe solamente prima del Giro, ambedue vinte: la Tirreno-Adriatico grazie all’aiuto dell’amico Van Aert, e poi il Giro di Catalogna nel quale abbatte senza problemi lo strombazzatissimo Evenepoel (attenzione, è uno fortissimo, è campione del mondo, ma ha molti limiti che nessuno mai sottolinea, e io mi chiedo sempre perché – forse perché il mondo ha bisogno di un fenomeno che arrivi dai Paesi storici del ciclismo e non da qualche parte esotica, tipo Slovenia o Danimarca?).

Arriva al Giro ancora sotto pieno carico di allenamento e, imballato, prende una notevole paga da Evenepoel nella prima cronometro. Però sono secondi e, per quanto tutti esaltino il belga, è solo ovvio che con le tappe che ci sono il Giro si deciderà sulle Dolomiti e poi a Lussari dove non voleranno secondi, ma minuti. Dopo la prima settimana c’è il ritiro di Evenepoel (che, ripeto, secondo me nella terza settimana di una grande corsa a tappe proprio non regge), poi c’è il ritiro per caduta di Geoghan Hart e tutti a piangere per la sua assenza. Un altro che nella terza settimana non avrebbe retto per la semplice ragione che era arrivato al Giro al top della forma avendo vinto il Tour des Alpes, per cui non poteva assolutamente reggere tre settimane, a meno che la scienza dell’allenamento non sia una balla, Il problema è che nella caduta di Hart cade anche Roglič che si scassa un’anca con molti punti di sutura. Qualsiasi altro avrebbe pianto il morto, come diciamo a Trieste, non lui. Geraint Thomas e Joao Almeida sono in grande forma, la classifica è bloccata, insomma arrivando a Lussari Roglič, una volta recuperata una parvenza di condizione dopo la gran botta, deve recuperare anche 26 secondi a Thomas.

Finale del film: dopo il flash back sulla carriera di Roglič e il riassunto del Giro, parte lo sloveno per la tappa decisiva. Intorno a lui una marea di tifosi sloveni con uno sfondo tappezzato da sventolanti vessilli bianco-blu-rossi con il Tricorno. Testa a testa titanico con Thomas che, partito tre minuti dopo, prova in tutti i modi a tenere il ritmo di Roglič quando la strada comincia a salire vertiginosamente con pendenze disumane verso il santuario, ma verso il quarto chilometro della salita comincia a battere in testa e a perdere vistosamente metro dopo metro. Stiamo andando verso l’apoteosi, ma c’è l’ultimo colpo di scena che crea la suspence più tetra: su una canalina a Roglič salta la catena e deve scendere dalla bici. Arriva il meccanico con un’altra bici, ma intanto Roglič ha rimesso la catena a posto da solo e chiede solo di essere spinto per ripartire. Il meccanico si libera della bici, comincia a spingere e in suo aiuto arriva uno spettatore solitario che si era posto proprio lì per seguire la corsa e che con un paio di spinte poderose fa ripartire il corridore nel migliore dei modi. A fine gara un ristorante di Lubiana posta un twit nel quale promette un anno di burek (pietanza bosniaca per eccellenza) gratis al tifoso che ha fatto vincere il Giro a Roglič. Parte una febbrile indagine su chi sia e la risposta è assolutamente, incredibilmente, da film. Si tratta nientemeno che del suo vecchio compagno di squadra campione del mondo junior di salti Mitja Mežnar. Il quale assieme a un altro ex saltatore suo amico aveva deciso di seguire la corsa in un luogo appartato. Per farlo i due erano saliti a piedi il giorno prima, si erano accampati lì e poi avevano seguito la corsa a 100 metri di distanza uno dall’altro. Il destino ha dunque voluto che il cerchio si chiudesse in modo perfetto con il decisivo lavoro di squadra, stavolta non più sugli sci, ma in bicicletta, operato dagli stessi due atleti a tanti anni di distanza.

Come detto il resto è apoteosi: Roglič vola, distrugge Thomas e tutta la concorrenza e alla fine vince la tappa e il Giro nel delirio assoluto degli oltre 30 mila sloveni saliti a Višarje (per quanto in territorio italiano per gli sloveni è un luogo assoluto di culto – fra l’altro il paese stesso di Lussari era secoli fa praticamente tutto sloveno) e di tutto un popolo che era seduto a casa davanti alla TV mordendosi le nocche delle mani.

Tutto questo succedeva quasi nello stesso momento nel quale un’altra sterminata marea di tifosi, abbarbicata sulle tribune del Westfalenstadion di Dortmund, assisteva in un silenzio straziante e raggelante alla beffa della loro squadra, il Borussia, che sembrava finalmente aver vinto la Bundesliga di calcio davanti agli odiati bavaresi del Bayern. Bastava vincere in casa con il tranquillo Mainz, o sperare che il Bayern non vincesse a Colonia. Fino all’89.esimo sembrava fatta: il Borussia, avanti di due punti in classifica, stava clamorosamente perdendo 2 a 1, ma il Colonia era sull’ 1 a 1 grazie a un rigore all’ 80.esimo. E proprio mentre il Borussia beffardamente pareggiava il Bayern segnava a un minuto dalla fine un gran gol con il neo entrato Musiala, vinceva la partita, festeggiava il titolo e a Dortmund si consumava un dramma sportivo.

Ecco, vedere al contempo il delirio di gioia degli sloveni a Svete Višarje e la disperazione dei tifosi del Borussia è stato per me un ulteriore monito che lo sport, detto in breve, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo. Non ci sono altre cose che possano dare tante e tale emozioni. E cosa è la vita se non emozione? Scusate, smetto subito di fare il “filosofo”. Penso che basti così.