Dal nostro inviato

WUHAN – È arrivata, prevista ma non sperata, l’ennesima eliminazione dell’Italia a una manifestazione internazionale ben lontano dalla zona che inizia a profumare di medaglia. Sono ormai vent’anni che non si vince nulla, da quindici non ci mettiamo una medaglia al collo, ma fallimento dopo fallimento nulla sembra cambiare.

Foto Savino Paolella 2014

Gianni Petrucci (foto S.Paolella)

COLPA DI NESSUNO – Certo l’approccio alla sconfitta non è uguale per tutti. C’è l’approccio alla Datome e in parte alla Sacchetti, con la rabbia trattenuta a fatica e la faccia di chi vorrebbe togliersi tanti sassolini dalla scarpa, ma non può per quieto vivere con i compagni (il primo) o perché ha ancora un contratto in essere e altri obiettivi da raggiungere (il secondo). C’è l’approccio alla Belinelli, che sul parquet dimostra una mancanza di lucidità non degna di un campione NBA ma poi, almeno, si prende le proprie responsabilità (“Gran parte della pessima prestazione di squadra è colpa mia, mi dispiace”, ha detto dopo Italia-Spagna). E c’è chi colpe non ne ha, o almeno ritiene di non averne, perché “mica vado in campo”, come ha affermato il presidente Petrucci.

Un corso per giornalisti sportivi (nei sogni di alcuni)

Insomma: i vertici federali non hanno colpe, la guida tecnica ha fatto quel che poteva, i giocatori si sono impegnati al massimo. E allora perché siamo delusi? Dovremmo essere contenti di aver partecipato, come la Corea del Sud o la Costa d’Avorio di coach Povia, giusto? Guai a protestare, mettere in discussione. Chi lo fa è un disfattista, un destabilizzatore, un leone da tastiera. Uno da isolare, esiliare o magari “rieducare“, come direbbero qui in Cina.

E invece rivendichiamo il nostro diritto alla critica e alla delusione. Delusione perché siamo l’Italia e tutti – dai tifosi ai giornalisti, finanche sotto sotto ai giocatori – siamo stanchi di sentirci dire che non possiamo competere con le migliori, che il nostro obiettivo è battere le Filippine e poi sederci in poltrona a vedere quelli forti che si contendono l’oro. Certo non si può gettare la croce addosso a un giocatore o un tecnico, ma non è con un’ammissione di colpa a buoi scappati o smarcandosi completamente dalle responsabilità che si inizierà a risalire questa deprimente china di mediocrità.

LIMITI MENTALI PIÙ CHE TECNICI – È innegabile: questa Nazionale non è accompagnata dalla fortuna. Ormai si è perso il conto degli infortuni e acciacchi vari che, negli anni, hanno privato la Nazionale dei suoi uomini migliori, da Gallinari a Melli passando per Datome. E la penuria di centri di caratura internazionale dopo Marconato (con tutto il rispetto per Cusin, che si è difeso come meglio poteva) ha costretto i CT a inventarsi soluzioni sempre nuove per coprire il ruolo. Ma l’Italia non è la Russia o la Serbia, il suo gioco non è (quasi) mai stato incentrato su pivot dominanti, e la monodimensionalità forzata è un altro dito dietro cui nascondere la mancanza di inventiva tattica e l’incapacità di convogliare il talento degli esterni nei canali giusti: quando Belinelli o Gentile si isolano e non trovano miglior opzione che un tiro sbilenco, magari per due o tre azioni consecutive, l’assenza di lunghi c’entra poco. Il fatto che Belinelli si senta in diritto (se non in dovere) di prendere in mano la situazione in modo così scriteriato la dice lunga sull’assenza di gerarchie e fiducia nei compagni che permea questo gruppo.

Simone Pianigiani (foto DailyBasket)

“SIAMO QUESTI” – E allora riavvolgiamo il nastro: la mentalità del “siamo questi”, varata da Simone Pianigiani all’Eurobasket 2013, ha fatto più danni a questa Nazionale di qualsiasi serie di infortuni. “Eravamo questi” anche all’Eurobasket 2003 e ai Giochi 2004, eppure Basile e compagni andarono oltre i propri limiti fisici e tecnici mettendo in riga Francia, Lituania e altre corazzate. Da ormai oltre un lustro, però, siamo diventati la Nazionale del “bravi lo stesso” (filosofia molto gettonata in Italia anche in altre discipline, a dire il vero, basti pensare al rugby o all’atletica), quelli che devono accontentarsi di fare bella figura, nemmeno sognarsi di menzionare la parola medaglia. Basta l’impegno. Conta il pensiero. E che importa se abbiamo in squadra tre-quattro giocatori da NBA, giocatori che hanno vinto campionati, coppe, EuroLeague da protagonisti, che hanno alle spalle decine di partite con la maglia azzurra. Dobbiamo comunque volare basso, far quel che si può, e se perdiamo di 20 contro una “big” siamo comunque da applausi. Tutti ragionamenti che possono balenare nella mente, ma che non si dovrebbero mai fare ad alta voce. Ripetendo questo mantra ad ogni piè sospinto non si fa altro che dare ai giocatori alibi pronti all’uso per quando sbagliano un canestro e una risposta pronta per quando – al 40’ – il tabellone sorriderà ancora una volta all’avversaria e i giornalisti ne chiederanno conto.

Beli, Gallo e Datome hanno dato tanto, ma è ora che cedano il passo (foto © Fiba)

TEMPO DI CAMBIARE – E allora come si può cambiare questa rotta? Non dal CT, che ha responsabilità relative. Certo, non è escluso che un altro coach avrebbe potuto fare meglio di Sacchetti, o di Messina prima di lui, ma non si può pretendere che un allenatore cambi radicalmente la mentalità dei giocatori (o faccia rivoluzioni tattiche) nel poco tempo a disposizione, peraltro con la difficoltà aggiuntiva delle finestre FIBA che lo costringono a giocare le qualificazioni con la nazionale “B”.

Un serio progetto di rilancio deve avere più ampio respiro e inevitabilmente un orizzonte di medio-lungo termine (l’arcinoto binomio strutture&reclutamento, tanto menzionato nelle dichiarazioni quanto ignorato nella pratica), ma non è detto che non si possa fare qualcosa nel breve termine: una prima, coraggiosa scelta sarebbe quella di congedare completamente (o quasi) questa generazione, i cui protagonisti sono ormai tutti oltre i 30 anni, gettando le fondamenta di un gruppo che possa iniziare a vincere nel medio termine. Belinelli, Gallinari, Hackett, Datome: il loro impegno non è in discussione, così come il loro valore individuale, ma in azzurro hanno ormai dimostrato più volte di non essere in grado di gettare il cuore oltre l’ostacolo e di non avere – a dispetto delle dichiarazioni di facciata – l’affiatamento di gruppo necessario. Loro hanno dato la loro disponibilità di massima per il Preolimpico e non convocarli esporrebbe a critiche di ingratitudine e incoscienza (con i Giochi di Tokyo in palio), ma potrebbe pagare all’Eurobasket 2021 e nelle manifestazioni seguenti. E a proposito di gruppo, anche Alessandro Gentile, pur se più giovane, ha dimostrato più volte di essere deleterio per gli equilibri di squadra in campo e fuori. Intanto ha cambiato procuratore; se cambia anche registro, potrebbe tornare utile anche per la Nazionale degli anni ’20.

Alessandro Pajola (foto N. Maccagno)

Diverso il discorso per Nicolò Melli: è da lui, 28enne fresco di firma in NBA, che dovrebbe ripartire un nuovo ciclo, che coinvolga alcuni dei giocatori già presenti al Mondiale (Della Valle, Abass, Tessitori) dando ampio spazio ad alcuni under 30 già competitivi (Polonara, Tonut, De Nicolao, Michele Vitali, Moraschini) e soprattutto agli under 25 più promettenti come Flaccadori, Fontecchio, Spissu, Moretti, Pajola, Mannion, Spagnolo, Bucarelli, senza trascurare la possibilità di un “passaportato” decente (insomma non nel solco della tradizione die Calabria, Maestranzi, Diener, Burns e – alla luce del suo Mondiale – Brooks) come Donte Di Vincenzo, se sufficientemente motivato. Indispensabile, poi, sarebbe concentrarsi sulla “cura” e sviluppo dei pochi lunghi di belle speranze che si stanno affacciando al professionismo: Mezzanotte, Cattapan e Totè cercheranno di non farsi venire il sedere “quadrato” in serie A, altri (tra cui Simone Barbante e Matteo Berti) proveranno a fare la voce grossa in A2. Il “Progetto lunghi” avviato da Boscia Tanjevic e Gregor Fucka è stato un timido – forse già naufragato – tentativo nella giusta direzione, ma 20 minuti a partita sul parquet valgono più di qualsiasi clinic: per questo si dovrà fare “lobby” affinché i coach dei club avvertano la responsabilità che hanno nei confronti del movimento e scommettano sullo sviluppo di un giovane italiano piuttosto che su un mediocre americano solo perché il solito, ignorante, presidente pensa che il John Green di turno – il procuratore garantisce – lo porterà ai playoff.

Insomma, al di là dei macro-progetti di cui si dovrà (dovrebbe) occupare la federazione insieme al ministero, le scelte tecniche nel vicino futuro potrebbero contribuire da subito a costruire un altro tipo di Italbasket, arrembante e non intaccata da questa mentalità rinunciataria. Con tutti questi giovani rischiamo di pagare lo scotto dell’inesperienza e magari andare incontro a qualche precoce eliminazione? Prego rileggere l’articolo da capo.