Ripeto per l’ennesima volta e dopo taccio per sempre secondo la massima che è inutile parlare a quelli che non vogliono sentire. Dei highlights che circolano sul web non potrebbe fregarmi di meno per la semplicissima ragione che quanto si vede è decisivamente condizionato dal contesto nel quale le cose che si vedono si sono svolte. Se guardo una serie di highlights nella quale uno segna in tutti i modi possibili e poi scopro che si tratta di highlights del campionato UISP (o ACLI, fate voi) è solo ovvio che le prodezze del fenomeno di turno lasciano il tempo che trovano. Questo è quanto ho cercato, inutilmente pare, di spiegare. I highlights di Jokić, nel contesto del basket attuale, non sono semplicemente comparabili con quelli dei tempi di Divac, perché allora la competizione era ben diversa. E in più allora i centri giocavano da centri (vi immaginate Magic se qualcuno di 2 e 11 avesse preteso di palleggiare lui magari smazzando assist?), per cui il confronto fra le due epoche è totalmente improponibile. Tutto qua.

Lasciamo stare che i highlights semplicemente fotografano momenti ben precisi e nulla dicono né possono dire sulle vere capacità del giocatore in questione che deve essere giudicato con ben altri parametri che includono la sua presenza in campo, la visione di gioco, il saper istintivamente giocare senza palla, in genere le scelte tecniche, tutte cose che una fotografia mai potrà far vedere. C’è un bellissimo proverbio sloveno che tradotto recita più o meno: “anche una gallina cieca ogni tanto riesce a beccare un chicco.” Nel basket ciò significa che per la legge dei grandi numeri anche un incapace può ogni tanto per sbaglio indovinare la giocata giusta. Se tutti questi momenti poi vengono messi assieme allora anche uno come Wembanyama appare come un fenomeno paranormale. Che sia ben chiaro: Jokić è un fortissimo giocatore che ha però avuto la sfacciata fortuna di nascere in un periodo dove di galline cieche ce n’è a bizzeffe.

Già che siamo in tema di NBA posso passare subito al prossimo argomento, antipasto di un’estate che per noi sloveni che facciamo il tifo per gli sportivi sloveni si preannuncia storicamente esaltante. Si comincia con Luka che gioca da super protagonista la finalissima NBA, si continua con la nazionale di calcio che dopo 24 anni è di nuovo nella fase finale di un Europeo (e che Dio ci conservi sani Oblak, Bijol e Šeško, perché se no saranno volatili senza zucchero nel girone della Slovenia, molto forte), si prosegue con il Tour con Pogi e Roglič e si finisce con le Olimpiadi dove le chance di medaglie saranno numerose, ma soprattutto ci saranno fra le protagoniste anche le due nazionali di pallamano e con ogni probabilità anche quella maschile di volley. E non mettiamo limiti alla Provvidenza per quella di basket, anche se sarà maledettamente difficile battere i greci a casa loro.

Si comincia, appunto, con Luka e la serie contro i Celtics. Non posso parlare dei Celtics, visto che le partite NBA, come sapete, normalmente non le guardo, ma anche Stefano, che tifa per loro, alla Sconvenscion me ne magnificava le doti. Squadra, mi ha detto, molto bassa (che dunque sfida tutti i fallaci stereotipi sul “formidabile” progresso fisico delle nuove generazioni), ma che gioca e soprattutto difende molto bene. Non ho motivo di non credere a quelli che dicono che Boston è favorita, ma come per la finale dell’Eurolega, di cui parlerò fra poco, forse qualche considerazione di contorno che di tecnico ha ben poco bisogna pur farla. Intanto sono contento che Luka abbia messo a tacere tutti quelli che dicevano che giocava da solo, cosa semplicemente idiota se si guardano le partite della nazionale slovena con o senza di lui. E sono contento che si sia dimostrato giocatore che sa e riesce a decidere le partite nel finale, altra cosa sulla quale mai ho avuto dubbi. E, con tutto quello che potete pensare, l’ultima azione della semifinale olimpica di tre anni fa mi ha fatto sparire qualsiasi residuo dubbio potessi avere. Ma non è tutto qui: evidentemente con Irving si sono parlati e, parlando ambedue lo stesso linguaggio cestistico, un’intesa nell’interesse collettivo è stata apparentemente facile trovarla. Sia l’uno che l’altro hanno un enorme ego, ma rivolto nella direzione giusta. Sanno di essere i più forti, lo sanno nel loro intimo e dunque hanno una debordante autostima, e chi ha queste caratteristiche non vede perché dovrebbe fare lui il protagonista se possono farlo altri. Tanto poi, quando i nodi verranno al pettine, ci dovremo pensare noi, ovvio. Voi compagni di squadra senza di noi con il piffero che potete vincere, ma anche noi senza di voi non potremmo farlo, se non altro perché in campo bisogna essere in cinque, e dunque, visto che nessuno come noi vuole vincere, diamoci sotto remando tutti nella stessa direzione. Guardando Luka mi sembra ogni giorno che passa che somigli sempre di più a Dražen Petrović, uno che viveva esclusivamente per il basket e dunque era uno tranquillo, calmo, rispettoso e educato nella vita normale (come è del resto Luka, promotore in Slovenia di tutta una serie di iniziative filantropiche da lui finanziate), ma che appena aveva un pallone di basket in mano diventava una belva. Tanto belva da risultare antipatico ed essere odiato da tutti quelli che non lo adoravano o almeno rispettavano la sua infinità bravura cestistica. Ci sono stati due episodi che mi hanno convinto di ciò. Il primo è stato ovviamente il leggendario balletto dell’orso che ha fatto fare a Gobert prima di sparargli in faccia la tripla della vittoria in gara due contro Minnesota. Dopo averlo portato in giro per il campo ed aver segnato ha avuto una reazione per me sommamente indicativa. Come ben sapete gli ha urlato ferocemente: “Jeboh ti majku! – nella traduzione americana che più si avvicina all’originale serbo di “ti f…o la madre” – tu non riuscirai mai a difendere su di me!”. Perché ha avuto questa reazione? Perché evidentemente nella sua concezione si sentiva offeso dal fatto che nell’azione decisiva gli avessero messo di fronte non solo un giocatore solo (non ne merito almeno due?), ma che anche gli avessero messo contro un lungo che, per quanto giocatore difensivo della Lega potesse essere, fuori dal pitturato è la classica foca sull’asciutto. Mi ritenete tanto cesso da pensare che mettendomi addosso questo incapace potevate impedirmi di fare quello che volevo? Eccovi serviti. Parlando appunto di ego. L’altro è stato il primo quarto di gara cinque. Nel quale è entrato assatanato in campo, non solo, ma, avendo tutto il pubblico contro munito di fazzoletti per irriderlo dei suoi atteggiamenti da piangina, motivato in modo sovrannaturale e nel solo primo quarto ha zittito tutto il palazzo rendendo i successivi tre quarti una specie di garbage time nel quale è bastato e avanzato Kyrie per tenere le cose assolutamente sotto controllo. Se avete ascoltato cosa ha detto dopo gara quattro lo avrete sentito dire che era stata tutta colpa sua (tripla doppia malgrado – per dire di quanto i numeri siano fallaci) e la cosa che pochi capiscono è che era perfettamente sincero. Lui si sente il leader, il più forte di tutti, per cui soffre come un cane quando perde giocando male, proprio perché, appunto, nella sua concezione è solo e esclusivamente colpa sua. Per cui nella gara successiva pronti-via aveva tantissime cose da farsi perdonare solo nei confronti di se stesso (di cosa pensino gli altri non gli importa un fico secco, tanto cosa ne capiscono?) e dunque, per non soffrire di più, doveva semplicemente distruggere tutto quello che gli si parava davanti. Cosa che nel suo intimo deve essergli riuscita, perché ha avuto anche il tempo di gridare a uno spettatore (non credo fosse Snoop Dogg, come dicono alcuni): “Jeboh ti majku – questa, per uno che nei momenti di massima adrenalina fa emergere tutta la serbitudine che c’è in lui, non può mai mancare – chi è che piange ora?”

Come avete detto già voi, con Luka e Kyrie finalmente sulla stessa lunghezza d’onda, e dunque perfettamente efficacemente complementari e con i giocatori di ruolo che fanno quello che i due leader vogliono che facciano, Dallas mi sembra una vera squadra di basket, non per i belli schemi che gioca, cosa che non potrebbe fregarmi di meno, ma per la chimica personale. In più per arrivare in finale ha dovuto affrontare squadre tostissime, mentre Boston ha avuto più o meno un bye senza essere mai essere stata veramente messa sotto pressione. Per cui attenzione! La serie mi sembra molto equilibrata e, onestamente, se avessi soldi da puntare, punterei su un bel 4 a 2 per Dallas. Fermo restando che Boston sembra comunque favorita, ma, almeno dal punto di vista dei tifosi di Luka, non perdiamo la speranza di lasciarci sorprendere.

Tanto più che abbiamo ancora negli occhi l’esempio perfetto di quanto ho appena detto, parlo ovviamente della finale dell’Eurolega, nella quale la squadra favoritissima (molto più di quanto non lo sia Boston contro Dallas) ha ricevuto una bella legnata sui denti e se ne è tornata a casa con la coda fra le gambe senza essersi resa conto veramente di cosa le sia successo. Probabilmente neanche adesso le è chiaro perché abbia perso, e allora proviamo a trovare qualche tipo di spiegazione. I grandi tecnici di basket avranno tanti numeri con i quali spiegare quanto è successo, ma personalmente penso che la spiegazione sia molto più terra terra. Uno: Ataman è molto, ma molto, più bravo rispetto a tutti i suoi avversari in panchina di queste Final Four nella gestione spicciola della partita, cioè di cosa e quando farla, soprattutto nei minuti finali. Due: e anche quando c’è stato il momento più indecifrabile della partita, e cioè quando il Pana non sapeva cosa fare per attaccare la zona austro-ungarica (come la chiamava Peter Brumen) messa in piedi per disperazione dalla panchina del Real, momento che mi ha sollevato molti dubbi su Ataman, parzialmente fugati da quanto dirò fra poco, ha avuto uno Sloukas assurdo che ha messo dentro di fila due bombe fuori da ogni logica che hanno definitivamente spaccato la partita. Guarda caso per vincere una partita bisogna avere giocatori che lo facciano materialmente, cosa che non andrebbe mai dimenticata. Tornando a Ataman il suo merito maggiore è stato leggere la partita nel modo giusto adattando di continuo la difesa per mettere più che granelli di sabbia veri e propri scogli nei meccanismi d’attacco del Real che si sono inceppati miseramente nei momenti decisivi della partita. Il Real è sembrato in quei momenti come una versione peggiorata della Milano dei momenti di crisi: una congrega di giocatori che vanno sempre allo stesso ritmo, che si muovono a caso freneticamente per il campo senza uno straccio di idea cosa fare. In questo mi ha particolarmente deluso il reparto dietro. Sia Campazzo (il peggiore in questo) che anche, of all people, Llull e il Chacho hanno pensato che il modo migliore per fare qualcosa fosse quello di prendersi iniziative personali a ritmo sempre più folle andando completamente fuori giri. E in tutto questo la panchina guardava e non faceva nulla se non assistere attonita alle nefandezze perpetrate in campo. Un coach di autorità avrebbe chiamato subito un time out, avrebbe preso, secondo me, a calci in culo le sue guardie e avrebbe dovuto spiegare loro che si può e si deve giocare nei momenti di crisi semmai più piano e ragionando invece di correre come galline senza testa. Come dicono giustamente in Serbia arrivano momenti della partita nei quali bisogna “sedersi sulla palla”. Cosa che sembra di questi tempi nessuno abbia capito.

Lasciamo stare che quando si hanno un play vero e un centro vero come Lessort, uno che si sbatte a fare i lavori specifici che un centro deve fare (grazie a Dio, non avendo tiro da fuori, non gli vengono strani grilli in testa), è molto più facile giocare i momenti chiave, ritorno al momento di crisi nell’attacco alla zona. Sono convinto che le difficoltà dell’attacco alla zona siano oggigiorno dovuti alla completa sparizione di un profilo di giocatore che è per me assolutamente fondamentale, quello di ala forte, o numero quattro, come si usava dire una volta quando si capiva cosa dovesse essere il basket. A cosa sia dovuta questa sparizione non riesco a capirlo, perché un quattro forte è un giocatore assolutamente decisivo, in quanto si tratta di una specie di playmaker aggiunto che però gioca più che sotto canestro in lunetta nella posizione del post, come si usava dire in passato, e da lì può creare sia giochi alto-basso che scarichi a taglianti dietro (backdoor) o alla fine dell’azione trovare il giocatore più libero per il tiro da tre. Gli ultimi che mi ricordo veri quattro sono stati Florent Pietrus, ma soprattutto Erazem Lorbek e Luis Scola. Poi mai più visti. Perché? E chi lo sa. Per esempio, perché in Italia a nessuno, se non forse secoli fa a Vitucci quando giocava a Varese, è mai venuta l’idea di far giocare da quattro uno che sembra nato per quel ruolo come Achille Polonara? Per finire a me rimane dunque solo la nostalgia per i più grandi e decisivi numeri quattro mai visti in vita mia, su tutti Bill Russell e Krešo Ćosić.

Per finire un saluto e un grazie per il ritorno di Andrea-Go, che ricordo è stato uno degli originali sconvenscioners della primissima edizione dell’evento, con il quale condivido tutto quanto da lui detto in merito al golf e allo snooker. Bellissimo il lapsus freudiano sul fortissimo giocatore nordirlandese alla sempre più vana ricerca di un’ulteriore vittoria in un major: certo, se invece di McIlroy si chiamasse McEnroe, sarebbe molto più bene augurante.