Cos’è Busts&Steals? Semplificando, all’interno del mondo del Draft NBA, un bust è un giocatore che, a dispetto delle alte aspettative su di lui nel momento in cui viene scelto, fallisce poi (più o meno) clamorosamente sul campo, scomparendo in tempi (più o meno) brevi dal panorama NBA. Uno steal invece è, per certi versi, l’esatto contrario: un giocatore su cui, al momento del draft, nessuno avrebbe puntato un centesimo e che poi, spesso sfruttando occasioni e situazioni propizie per mettere in mostra il suo talento, stupisce tutti costruendosi un ruolo (talvolta di primo piano) nella Lega. Insomma, il draft non è una scienza esatta, è risaputo, ma proprio qui sta il suo fascino.

Ripercorreremo quindi la storia di quindici draft recenti alla ricerca di busts e steals: che fine hanno fatto le prime scelte sparite quasi subito dai parquet NBA? E chi sono quei giocatori che invece, scelti al secondo giro ed entrati nella Lega in punta di piedi, ne sono poi diventati protagonisti? È questo lo scopo di questa rubrica,che, dopo il Draft 1998, il Draft 1999, il Draft 2000 e il Draft 2001, prosegue oggi con il 2002. Buon divertimento!

Draft 2002

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Il draft del 2002 non è stato di certo caratterizzato da una qualità eccelsa, anche se la sfortuna ha giocato un ruolo di primo piano negli anni a venire. Si pensi, per esempio, a Yao Ming (n. 1), irripetibile combinazione di altezza e talento, costretto a ritirarsi a soli 31 anni per i ricorrenti problemi fisici dovuti proprio ai suoi 229 cm; oppure a Jason Williams, di cui parliamo tra poco. Non sono mancati i buoni giocatori, come Mike Dunleavy (n. 3), Drew Gooden (n. 4) e Nenê (n. 7), scelti però così in alto più che altro per mancanza di valide alternative. Sono solo tre i giocatori, a parte il già citato Yao Ming, che sono poi diventate vere e proprie stelle: Amar’e Stoudemire (n. 9), Caron Butler (n. 10) e l’atipico Tayshaun Price (n. 23). Ai giocatori appena elencati possiamo aggiungere Nenad Krstić (n. 24) e John Salmons (n. 26): la lista di prime scelte che si sono costruiti una carriera nella Lega è tutta qui.

1º giro

Flop totali: sono scomparsi dalla NBA

Jay Williams nell'unica stagione giocata a Chicago (Foto: chicagotribune.com)

Jay Williams nell’unica stagione giocata a Chicago (Foto: chicagotribune.com)

2. Jason “Jay” Williams (G, 188 cm, Chicago Bulls)
Cosa sarebbe potuto diventare questo giocatore se un maledetto incidente in moto non l’avesse di fatto costretto al ritiro dopo una sola stagione NBA? Uscito  da Duke dopo tre anni, con in tasca un titolo NCAA e il premio come miglior giocatore di college nel 2002, Williams viene scelto al n. 2, subito dopo il gigante Yao Ming, che era una prima scelta “obbligata” per il mix di fisico e talento. Subito dopo il draft partecipa ai fallimentari Mondiali di Indianapolis del 2002 con la maglia della Nazionale USA, dopodiché disputa la sua prima e unica stagione in NBA, con qualche difficoltà in più del previsto, chiudendo a quota 9,5 punti, 2,6 rimbalzi e 4,7 assist a partita. Quindi, nella notte del 19 giugno 2003, arriva lo schianto in moto: Williams è senza casco e la sua patente non gli permette di guidare una moto in Illinois; inoltre, guidare una moto è considerata attività pericolosa e pertanto vietata dal contratto in vigore con i Bulls. Viene così tagliato da Chicago, ma con una buonuscita (non dovuta) di 3 milioni di dollari per permettergli di continuare la riabilitazione necessaria per riprendersi da una frattura dell’osso pelvico e dalla lesione di diversi legamenti del ginocchio sinistro. Nel 2006 prova a tornare sul parquet: prima con i Nets e poi con la maglia degli Austin Toros, nella NBDL, ma entrambe le esperienze durano poco: le conseguenze del terribile incidente sono troppo invalidanti per un giocatore professionista. Williams farà un ultimo, vano tentativo nel 2010 con gli Heat, prima di dire definitivamente addio al basket giocato. Attualmente fa il commentatore per il campionato NCAA sulla ESPN; è inoltre da poco uscita la sua autobiografia Life is not an accidenti: a memoir of reinventation.

5. Nik’oloz Tskit’ishvili (PF-C, 213 cm, Denver Nuggets)
Appena diciannovenne al momento del draft, fresco vincitore dello scudetto in Italia con la maglia della Benetton Treviso, “Skita” era il prototipo del giocatore europeo di moda a quel tempo (e ancora adesso, a dirla tutta): abbondantemente sopra i 210 cm ma con le caratteristiche di un’ala, con tiro da fuori, atletismo, rapidità di piedi e trattamento di palla fuori dal comune per un giocatore di quell’altezza. Il fisico, però, non è tutto: l’impatto del georgiano nel mondo NBA è di palese difficoltà, con la prima stagione in Colorado chiusa a soli 3,9 punti e 2,2 rimbalzi di media in oltre 16 minuti sul parquet. A preoccupare sono soprattutto le percentuali di tiro: 32% da due e 24% da tre, che lo portano, negli anni successivi, a cercare di modificare il suo gioco. Se nella prima stagione i tiri da dietro l’arco erano stati 152 (di cui 37 a segno) in 81 partite, nelle tre stagioni successive si passerà a soli 31 tentativi totali (di cui 6 segnati) in 91 partite. Questa differente selezione di tiri non porterà però particolari frutti: la sua stagione da rookie rimarrà la migliore per quanto riguarda la produzione offensiva; dopo due anni e mezzo a Denver vestirà le maglie di Warriors, Timberwolves e Suns prima di chiudere la sua esperienza NBA con medie carriera di 2,9 punti, 1,8 rimbalzi e il 30% al tiro. Nel 2007 torna in Europa: quattro stagioni in Spagna (Siviglia, due anni a Fuenlabrada, San Sebastián) intervallate da una stagione in Italia a Teramo e da una breve esperienza in Grecia al Panionios, in cui si conferma giocatore affidabile ma assai lontano dalla stella che si pensava potesse diventare in gioventù. Nel 2011 va in Asia: due anni in Iran, uno negli Emirati Arabi, qualche partita in Giappone e tre stagioni in Libano, dove gioca tuttora con la maglia dello Champville.

6. Dajuan Wagner (G, 188 cm, Cleveland Cavaliers)
Figlio di Milt Wagner, ex Laker degli anni ’80, Dajuan viene scelto dai Cavaliers per le sue incredibili doti realizzative, per le quali viene paragonato addirittura ad Allen Iverson: famoso fin dai tempi dell’high school per aver segnato 100 punti in una sola gara, resta al college, a Memphis, solo una stagione, chiusa ben oltre i 20 punti a partita. Il primo anno a Cleveland è per certi versi promettente: 13,4 punti a partita e 2,8 assist, anche se con il 37% al tiro. Preoccupano di più, però, le sue condizioni fisiche: gioca infatti solo 47 partite il primo anno e 44 il secondo (chiuso con cifre praticamente dimezzate: 6,5 punti e 1,2 assist), mentre alla sua terza stagione frequenti episodi di colite ulcerosa gli permettono di scendere in campo solo per qualche manciata di minuti in appena 11 gare. Operato per la rimozione del colon nell’ottobre 2005, i Cavs non gli rinnovano il contratto e Wagner rimane fuori dalla NBA. Dopo una lunga convalescenza, prova a tornare nella Lega nel 2006, quando firma con i Warriors, che però lo tagliano dopo appena una partita. Nell’estate del 2007 prova a rilanciare la sua carriera in Europa, firmando in Polonia con il Prokom, ma nuovi problemi fisici (stavolta un infortunio al ginocchio) gli fanno chiudere nuovamente in anticipo la stagione. Dopo diversi anni lontano dal basket, fa un nuovo tentativo di ritorno in campo nel 2015, nella neonata AmeriLeague di Las Vegas, una lega semi-professionistica. Purtroppo per lui, però, il campionato nemmeno parte quando si scopre che il fondatore, tale Cerruti Brown, scomparso nel nulla dopo aver fatto firmare contratti, ovviamente non validi e mai onorati, a diversi ex giocatori NBA (tra cui Royce White, David Harrison, Al Thornton, Terrence Williams, Antoine Wright e Josh Selby), è in realtà Glendon Alexander, ex giocatore di college non nuovo a truffe del genere.

Marcus Haislip con la maglia dell'Unicaja Málaga (Foto: elmundo.es)

Marcus Haislip con la maglia dell’Unicaja Málaga (Foto: elmundo.es)

13. Marcus Haislip (PF, 208 cm, Milwaukee Bucks)
Questa ala atletica e dalla spiccata propensione offensiva in NBA è durata davvero poco, ma è riuscita a ritagliarsi un ruolo importante in Europa: per una tredicesima scelta non è forse il massimo, ma sicuramente c’è stato di peggio. Ai Bucks, Haislip passa due stagioni a scaldare la panchina, soprattutto al secondo anno, quando gioca 31 partite a meno di 10 minuti di media. La stagione dopo firma per Indiana, dove però scende in campo solo nove volte; a fine stagione decide così di tentare la carta europea, giocando all’Ülkerspor e all’Efes Pilsen in Turchia e all’Unicaja Málaga in Spagna prima di venire richiamato in NBA dagli Spurs. Ancora una volta, però, il suo impiego è praticamente insignificante e a gennaio 2010 viene tagliato, chiudendo così la sua carriera nella Lega, dove, in quattro stagioni, ha disputato appena 89 partite, con 3,5 punti e 1,5 rimbalzi di media. Emigra quindi di nuovo, prima in Europa (Panathinaikos e Caja Laboral) e poi in Asia e Africa (Cina, Libano e Tunisia). Nel 2014 torna in Turchia, prima in forza all’Eskişehir e poi al Türk Telekom, dove gioca tuttora.

18. Curtis Borchardt (C, 213 cm, Utah Jazz)
Scelto dai Magic ma subito mandato ai Jazz in cambio di Ryan Humphrey (scelto al n. 19, mah…), non si può proprio dire che questo centrone bianco di 213 cm abbia lasciato il segno nella NBA, dove, peraltro, arriva già infortunato. Fa infatti il suo debutto solo nella stagione 2003/04, in cui, nonostante un minutaggio tutto sommato discreto, segna solo 3,6 punti di media con 3,4 rimbalzi. Inevitabilmente, l’anno dopo lo spazio diminuisce, tanto che in estate viene mandato ai Celtics, che però lo tagliano prima dell’inizio della stagione. Borchardt, chiusa dopo soli due anni la carriera NBA (3,1 punti e 3,3 rimbalzi di media), decide così di varcare l’oceano e finisce a Granada, dove rimane per ben quattro stagioni, rivelandosi un elemento solido e affidabile, da doppia doppia di media. Dopodiché, una stagione in Francia, all’Asvel Villeurbanne, prima del breve ritorno in Spagna con il Valladolid. Oggi lavora nel campo immobiliare.

19. Ryan Humphrey (F, 203 cm, Orlando Magic)
Scelto dai Jazz ma, come abbiamo appena detto, subito mandato ai Magic in cambio della scelta precedente Curtis Borchardt (ma non era più semplice sceglierli al contrario?!), a Orlando dura in realtà meno di una stagione: ceduto a Memphis in febbraio, rimane ai Grizzlies per due stagioni e mezza, dopo le quali la sua carriera NBA è già giunta al capolinea, con un totale di 85 partite a 2,3 punti e 2,2 rimbalzi di media. La stagione successiva infatti, dopo aver provato vanamente in pre-season a Minnesota, sbarca in Italia, a Reggio Emilia, dove non si fa particolarmente notare, e finisce la stagione a Murcia, in Spagna.  L’anno dopo, fallito in estate il tentativo di tornare in NBA, finisce a Cipro, ma poi un grave doppio infortunio a un tendine gli fa saltare l’intera stagione successiva. Una volta guarito torna per un anno negli USA, giocando in D-League con i Tulsa 66ers, e negli anni successivi sembra sviluppare una predilezione per la lingua spagnola, dato che alterna stagioni in squadre di LEB Oro (la seconda serie spagnola) con qualche presenza in campionati di vari Paesi latinoamericani (Puerto Rico, Uruguay, Argentina, Venezuela, Repubblica Dominicana). Nel 2013 firma con Valladolid, nella Liga ACB spagnola, ma la sua esperienza dura solo sei partite, in cui segna la miseria di 16 punti totali. Insomma, nonostante l’infortunio, non proprio una gran carriera per una scelta al primo giro.

Ora sembra quasi un tranquillo vecchietto, ma Qyntel Woods è sempre stato genio e sregolatezza (Foto: bebasket.fr)

Ora sembra quasi un tranquillo vecchietto, ma Qyntel Woods è sempre stato genio e sregolatezza (Foto: bebasket.fr)

21. Qyntel Woods (SF, 203 cm, Portland Trail Blazers)
Nonostante un’esplosività pazzesca e una buona dose di talento, la carriera NBA di Woods è durata solo quattro stagioni a causa di evidenti limiti comportamentali. Il fatto di essere scelto da Portland, la cui franchigia a quel tempo era soprannominata “Jail Blazers” (“jail” significa “galera”, n.d.a.), di sicuro non l’ha aiutato: il culmine lo raggiunge nel 2004, quando si parla di un suo presunto coinvolgimento in lotte clandestine tra cani dopo che il suo viene trovato con numerose cicatrici sul corpo. Tagliato dai Blazers (e denunciato dall’avvocato assunto per la storia dei cani per il mancato pagamento delle sue parcelle), viene firmato dagli Heat, con cui in pratica non vede il campo, mentre al suo ultimo e quarto anno nella Lega, il migliore per ironia della sorte, trova spazio a New York, dove sfiora i 7 punti a partita in uscita dalla panchina (in carriera invece ha medie di 4,1 punti e 2,3 rimbalzi). Finisce quindi in D-League, ai Bakersfield Jam, e poi in Europa, ma già alla prima occasione, con la maglia dell’Olympiakos, si fa notare facendosi trovare positivo alla cannabis. L’anno dopo arriva in Italia, alla Fortitudo Bologna, dove, ancora una volta, si fa riconoscere per il suo pessimo carattere. Negli anni successivi gira diverse squadre europee, tra Polonia (dove vince tre campionati e un titolo di MVP), Russia, Israele, Ucraina e Spagna (con una puntatina anche in Kuwait), mentre dal 2015 è in forza allo Cholet, in Francia.

25. Frank Williams (PG, 191 cm, New York Knicks)
Dopo una carriera di alto profilo prima all’high school e poi al college (Illinois), viene scelto dai Nuggets e subito ceduto ai Knicks, a cui piaceva il suo atletismo, in grado di fare la differenza con parecchi pariruolo nella Lega. Il primo anno, però, è piuttosto deludente, mentre nella stagione successiva, se all’inizio i minuti a sua disposizione aumentano, dopo la trade che porta Stephon Marbury a New York Williams finisce in fondo alla panchina. Ceduto ai Bulls in estate, si presenta al training camp completamente fuori forma e gioca appena nove partite. L’anno dopo firma per i Clippers, ma viene tagliato prima dell’inizio della stagione, chiudendo così la sua esperienza in NBA con medie di soli 2,9 punti e 1,9 assist in 11,1 minuti. Va quindi a giocare per due stagioni in D-League, con la maglia dei Sioux Falls Skyforce, intervallate da un anno in Italia, con Scafati. Nel 2009, prima di andare a giocare per un anno in Argentina, viene arrestato insieme a suo fratello per possesso illegale di marijuana. Si perdono quindi le sue tracce fino al luglio 2013, quando finisce di nuovo nei guai, venendo arrestato per violenza domestica.

27. Chris Jefferies (F, 203 cm, Toronto Raptors)
Scelto alla fine del primo giro, le aspettative su questo specialista difensivo senza grandi qualità nella metà campo offensiva non erano certo altissime, ma la sua carriera è stata di livello ancora più basso del previsto. Scelto dai Lakers e subito mandato a Toronto, passa in Canada una sola stagione, mostrando parecchie difficoltà nonostante un minutaggio tutto sommato discreto. All’inizio della stagione successiva passa ai Bulls, dove gioca solo 21 scampoli di partite. Si chiudono qui per lui le porte della NBA, con sole 72 presenze in due stagioni, a 3,9 punti e 1,2 rimbalzi di media. Gioca quindi un paio di partite con i Visalia Dawgs, squadra della ABA durata solo una stagione, dopodiché, forse anche a causa di qualche problema fisico, sparisce completamente dalla circolazione. Nel 2010 si rivede come vice-presidente di una società che si occupa di servizi di portineria, ma attualmente sembra svanita anch’essa nel nulla.

Mezze delusioni: hanno reso molto meno del previsto

Chris Wilcox ai tempi di Boston (Foto: concordmonitor.com)

Chris Wilcox ai tempi di Boston (Foto: concordmonitor.com)

8. Chris Wilcox (PF-C, 208 cm, Los Angeles Clippers)
Fresco vincitore del titolo NCAA con Maryland, viene scelto piuttosto in alto per il suo atletismo e per il fisico massiccio ma rapido e agile allo stesso tempo, che mascherano una tecnica non proprio sopraffina. Non ha avuto una carriera pessima, ma di certo con quel fisico avrebbe potuto fare meglio: invece, non è mai riuscito ad ampliare il suo limitato bagaglio tecnico offensivo, mentre in difesa si è sempre accontentato di saltare e dare spintoni, senza mai applicarsi veramente. In undici anni di carriera ha girato sei squadre (tre stagioni e mezzo ai Clippers, tre ai Sonics poi diventati Thunder, una breve esperienza ai Knicks e poi quattro stagioni equamente divise tra Pistons e Celtics), chiudendo solo due stagioni in doppia cifra (le due intere a Seattle). Le sue medie carriera parlano di 8,2 punti, 4,9 rimbalzi e 0,4 stoppate a partita: non un disastro, ma nemmeno cifre da scelta n. 8, soprattutto se si pensa che appena dopo di lui è stato scelto tale Amar’e Stoudemire.

11. Jared Jeffries (F, 211 cm, Washington Wizards)
Ala atletica e longilinea, si è costruito una carriera come role player con compiti difensivi, un po’ poco per un giocatore scelto così in alto. In parte è stata colpa di diversi infortuni, in parte non è mai riuscito a superare i limiti che aveva già al college, su tutti un tiro a dir poco mediocre e un trattamento di palla poco adatto a un’ala piccola, ruolo che ambiva a ricoprire nella Lega. Basti pensare che nella sua miglior stagione, nel 2004/05 a Washington, ha segnato 6,8 punti a partita, e che in carriera, undici stagioni tra Wizards, Knicks, Rockets e Blazers, ha medie di 4,8 punti, 4,1 rimbalzi, 1,3 assist e il 43% scarso al tiro in quasi 22 minuti di media. Ritiratosi nel 2013, è oggi nello scouting staff dei Denver Nuggets ed è protagonista di un programma sulla pesca (Modern fishing with Jared Jeffries) su Outdoor Channel.

12. Melvin Ely (PF-C, 208 cm, Los Angeles Clippers)
Non contenti per aver scelto un mezzo bust come Wilcox alla n. 8, i Clippers sono riusciti a fare ancora peggio poco dopo, scegliendo con il n. 12 questa power forward dal grande fisico ma dal talento piuttosto limitato, che è riuscito a malapena a costruirsi una carriera come giocatore di complemento, in grado di occupare l’area con la sua stazza, prendere qualche rimbalzo e segnare qualche punto nei pressi del canestro. Dopo due anni a Los Angeles in cui vede il campo poco o nulla, passa a Charlotte, dove, al suo quarto anno, gioca la migliore stagione della sua carriera (9,8 punti e 4,9 rimbalzi di media). Dopodiché, dopo un’altra mezza stagione con i Bobcats, viene mandato agli Spurs, con i quali, almeno teoricamente, vince il titolo NBA, pur non scendendo mai in campo durante i Playoffs. Ormai in parabola discendente, gioca due anni a New Orleans e uno a Denver, accumulando esperienze anche a Puerto Rico con i Brujos de Guayama e in D-League con i Texas Legends prima di tornare per due partite a New Orleans nel 2014. Ceduto ai Wizards in estate, viene tagliato prima di mettere piede in campo, chiudendo la sua carriera di nove anni tra i Pro a quota 5,3 punti e 3,2 rimbalzi di media. Nel settembre 2014 firma con i Gunma Crane Thunders, in Giappone, con cui gioca tuttora.

14. Fred Jones (G, 193 cm, Indiana Pacers)
Non è stato un flop totale, ma sicuramente ci si aspettava di più da un giocatore scelto, un po’ a sorpresa a dir la verità, nella prima metà del primo giro. Guardia nel corpo di un playmaker, cerca di compensare la carenza di centimetri con un’incredibile esplosività e un’apertura di braccia ben superiore ai 210 cm, ma i suoi limiti fisici sono spesso troppo evidenti, soprattutto nella metà campo difensiva, mentre in attacco non è mai riuscito a migliorare il suo ball handling e la sua visione di gioco per trasformarsi in una point-guard. Dopo una stagione da rookie a dir poco difficile alle spalle di un certo Reggie Miller, riesce a ritagliarsi un po’ più di spazio durante il secondo anno e chiude addirittura in doppia cifra (10,6 punti) la sua terza stagione, sfruttando al meglio i minuti a disposizione in seguito alla leggendaria squalifica di Ron Artest. Quella stagione rimarrà però la migliore della sua carriera, con la ciliegina della vittoria del non particolarmente memorabile Slam Dunk Contest del 2004 (vedi video qui sotto); quindi, dopo un altro buon anno a Indianapolis, firma per Toronto, dove rimane solo mezza stagione, prima di passare a Portland. Nuovamente scambiato in estate, finisce a New York, che però lo tiene solo per un anno; nel dicembre 2008 firma per i Clippers. Nonostante cifre che, pur non esaltanti, sono ancora tutto sommato dignitose (intorno ai 7 punti a partita), Jones non trova altre chance in NBA, e chiude così una carriera di sette anni con 7,5 punti, 2,2 rimbalzi e 2,3 assist in 24 minuti di media. Nella stagione seguente firma per Biella, in Serie A, ma gioca appena 9 partite, senza brillare particolarmente (12,3 punti con il 36% al tiro); passa quindi in Cina, vestendo però solo per un anno la maglia dei Guangdong Tigers. Si ritira nel 2011 e fonda Player Population, un social network appositamente dedicato a giocatori professionisti del presente e del passato, che però ha avuto vita molto breve.

15. Boštjan Nachbar (F, 206 cm, Houston Rockets)
La carriera NBA di Boštjan Nachbar non è stata certo sfavillante, seppur nemmeno interamente da buttare, ma questo talentuoso giocatore sloveno ha saputo rifarsi più che degnamente nel vecchio continente, vincendo due campionati sloveni (più tre Coppe di Slovenia, con l’Olimpija Lubijana) e uno italiano (più una Supercoppa, con la Benetton Treviso) prima di approdare in NBA, e un campionato tedesco (più una Supercoppa, con il Brose Bamberg) e uno spagnolo (Barcelona) dopo la conclusione della sua esperienza oltreoceano. Esperienza che è iniziata a Houston, con due stagioni e mezza in cui vede appena il campo, per poi passare New Orleans e ai New Jersey Nets, con cui disputa le sue due migliori stagioni; che, però, sono anche le ultime: chiude infatti con la NBA nel 2008, dopo sei anni nella Lega, con medie di 7,1 punti e 2,6 rimbalzi in 17,8 minuti. Tornato in Europa, firma un contratto da quasi dieci milioni di euro in tre anni con la Dinamo Mosca, anche se a fine stagione decide di utilizzare la clausola che gli permette di uscire dall’accordo. Si accasa quindi in Turchia, dove gioca per due stagioni con l’Efes Pilsen (con cui vince due Coppe di Turchia), al termine delle quali alcune voci lo danno vicino a un ritorno in NBA. Alla fine, però, torna in Russia, al Kazan; dopodiché, una stagione in Germania, al Brose, e tre in Spagna, prima a Barcellona e poi, dal 2015, a Siviglia.

Jiří Welsch a Boston ha disputato la sua miglior stagione nella NBA (Foto: thesportster.com)

Jiří Welsch a Boston ha disputato la sua miglior stagione nella NBA (Foto: thesportster.com)

16. Jiří Welsch (G-SF, 201 cm, Golden State Warriors)
L’impatto di Welsch nella NBA è stato più o meno simile a quello di Nachbar, anche se, una volta tornato in Europa, il successo della stella ceca non è stato paragonabile a quello del giocatore sloveno. Scelto dai Sixers ma subito mandato ai Warriors, Welsch arriva nella NBA con alle spalle due Coppe di Slovenia e, soprattutto, una Lega Adriatica (con titolo di MVP) vinte con l’Olimpija Lubijana, ma in California le cose non vanno come forse si sarebbe aspettato, con una stagione da soli 6 minuti a partita. Ceduto ai Mavs, viene subito rispedito a Boston, dove disputa la sua miglior stagione con 9,2 punti, 3,7 rimbalzi e 2,3 assist. A metà della stagione successiva viene nuovamente scambiato, finendo prima a Cleveland, dove trova pochissimo spazio, e poi a Milwaukee, dove gioca una quindicina di minuti a partita senza brillare particolarmente. In estate decide di lasciare la NBA (6,1 punti, 2,4 rimbalzi e 1,5 assist in 18,6 minuti le sue medie in quattro stagioni) e torna in Europa: quattro stagioni a Málaga, una all’Estudiantes e una in Belgio al Charleroi, prima di tornare in patria, nel 2012, con la maglia del Nymburk, squadra in cui milita tuttora e con cui ha vinto tre campionati e una Coppa della Repubblica Ceca.

17. Juan Dixon (G, 191 cm, Washington Wizards)
Scelto dopo il suo ex compagno a Maryland Chris Wilcox, in realtà Dixon ha avuto un ruolo di maggior rilievo al college, con il titolo NCAA vinto da Most Outstanding Player, il premio di ACC Men’s Basketball Player of the Year e l’inclusione nel primo quintetto All-American del 2002; in ogni caso, però in NBA i loro destini sono stati per certi versi simili. Anche Dixon infatti, pur senza fallire clamorosamente, non ha mai lasciato veramente il segno: scelto da Washington, vi rimane per tre stagioni discrete ma nulla più, per poi passare a Portland, dove trova più spazio e fiducia, chiudendo l’anno oltre i 12 punti di media. La stagione successiva però qualcosa si inceppa e i Blazers lo mandano a Toronto in febbraio. In Canada Dixon rimane per una buona prima mezza stagione e per una pessima seconda mezza stagione; il risultato è un altro scambio, che stavolta lo manda a Detroit ma che non cambia la sostanza: a nemmeno trent’anni, Dixon è già sul viale del tramonto. Nell’estate 2008 torna a Washington, firmando per il minimo salariale, ma gioca poco più di 15 minuti di media con un ruolo assai marginale. Nel settembre 2009 firma con Atlanta, ma viene tagliato prima dell’inizio della stagione. Si chiudono qui per lui le porte della NBA, dopo sette stagioni chiuse con 8,4 punti, 1,9 rimbalzi e 1,8 assist di media e con percentuali rivedibili (44% da due e 34% da tre), ma si aprono quelle dell’Europa, dove prova a rilanciare una carriera fino a quel momento ben al di sotto delle sue aspettative. Ma, anche qui, le cose non vanno certo per il verso giusto: solo undici gare tra Aris Salonicco e l’Unicaja Málaga prima della squalifica per anno per uso di steroidi; poi, nel marzo 2011 torna sul parquet in Turchia, con il Banvit, ma al termine della stagione decide di appendere le scarpe al chiodo e di iniziare la carriera di allenatore; attualmente è assistente nella “sua” Maryland.

20. Kareem Rush (SG, 196 cm, Los Angeles Lakers)
Scelto dai Raptors ma subito ceduto ai Lakers, il fratello maggiore di Brandon, attualmente in forza ai Golden State Warriors (nonché di JaRon, ex giocatore a UCLA), aveva buone carte per costruirsi una solida carriera in NBA, grazie a un ottimo tiro da fuori e a un discreto atletismo. Invece, la sua esperienza tra i Pro è durata appena sette stagioni: prima due e mezzo ai Lakers e una e mezzo a Charlotte (il periodo migliore, oltre la doppia cifra per punti segnati); poi, dopo la cessione ai Sonics e il successivo taglio per infortunio, un po’ a sorpresa vola in Lituania, firmando con il Lietuvos Rytas, con cui vince la Lega Baltica. Tornato in NBA, gioca una discreta stagione con i Pacers, ma l’anno dopo ai Sixers scende in campo solo 25 volte, e addirittura solo sette l’anno dopo ancora, l’ultimo in NBA, con la maglia dei Clippers, complice un problema al tendine del ginocchio destro. Si rivede due anni più tardi in ABA, e poi nella NBDL con i D-Fenders, con i quali, però, dura solo fino a gennaio 2014, quando annuncia il ritiro. Le sue medie carriera nella NBA parlano di 6,4 punti e 1,7 rimbalzi, con il 40% al tiro. Oggi è impegnate in diverse attività nel campo musicale, della moda e della pubblicità.

Casey Jacobsen con la maglia n. 23 del Bamberg, ritirata a fine carriera (Foto: kicker.de)

Casey Jacobsen con la maglia n. 23 del Bamberg, ritirata a fine carriera (Foto: kicker.de)

22. Casey Jacobsen (SG-SF, 198 cm, Phoenix Suns)
Casey Jacobsen sembra incarnare in maniera esemplare lo stereotipo di tiratore bianco. Specialista da oltre l’arco, piuttosto lento di piedi, dà il suo meglio sugli scarichi, dato che la mancanza di velocità e un trattamento di palla non eccelso lo penalizzano nell’uno contro uno. Insomma, come “atleta” non sarebbe nemmeno stato draftato, ma la sua mano fatata gli vale una chiamata verso la fine del primo giro, dopo essere stato McDonald’s All-American all’high school e dopo una buona carriera universitaria a Stanford, di cui è terzo realizzatore di sempre e con cui segnò 49 punti contro Arizona State nel 2002. Nella NBA, però, comprensibilmente Casey fa fatica, soprattutto in difesa: troppo lento per marcare le guardie, troppo poco fisico e dinamico per vedersela con le ali piccole. Il vero problema, però, è che anche la sua arma principale – anzi, diciamo la sua unica arma – non funziona come dovrebbe: nel suo anno da rookie tira da tre appena con il 31%; l’anno dopo va un po’ meglio, sfiorando il 42%, ma a metà del terzo anno i Suns lo mandano a New Orleans. Lì Jacobsen, pur tirando con il 36% dall’arco, segna il massimo in carriera, che però sono solo 7,6 punti di media. In estate non c’è esattamente una fila di squadre ad attenderlo, e così decide di provare a giocare in Europa, passando un anno in Spagna al Tau Vitoria (con cui vince una Copa del Rey) e, dopo un provino estivo con i Rockets, finito con il taglio prima dell’inizio della stagione, un altro in Germania con il Brose Bamberg, con cui vince il campionato venendo anche nominato MVP delle finali. Il basket europeo sembra definitivamente la sua dimensione, ma il suo sogno è la NBA: la stagione dopo firma quindi con i Grizzlies, disputando la sua peggior stagione nella Lega, dopo la quale opta per il ritorno in Germania, chiudendo i suoi quattro anni in NBA con 5,2 punti di media, il 39% al tiro e il 35% da tre. Dopo una stagione con l’Alba Berlino (con la vittoria della Coppa di Germania), torna al Brose, dove rimarrà per cinque stagioni vincendo altri quattro campionati (con un altro titolo di MVP delle finali) e tre Coppe di Germania. La sua maglia n. 23 è stata ritirata dalla società tedesca al momento del suo ritiro, nel 2014. Attualmente conduce un programma per il canale digitale dei Suns e fa il commentatore per le gare di college su Fox Sports.

28. Dan Dickau (PG, 183 cm, Atlanta Hawks)
Un playmaker che esce da Gonzaga deve sempre affrontare lo scomodo e assurdo confronto con John Stockton; se poi è bianco e con un fisico da ragioniere, allora è davvero finita. Scelto dai Kings alla fine del primo giro e subito mandato agli Hawks, Dickau è tutto sommato un discreto giocatore: intelligente, buon tiratore, efficace nel pick’n’roll ma non in grado di costruirsi un tiro da solo, né di difendere sulla maggior parte dei pariruolo, proprio per un fisico leggero e poco atletico. Ciò nonostante, si ritaglia una carriera di sei anni nella Lega: due stagioni tra Atlanta e Portland in cui quasi non vede il campo, poi un anno da favola a New Orleans (iniziato con quattro partite in maglia Mavs) a 13 punti e 5 assist di media, per poi tornare nella mediocrità, anche a causa di un grave infortunio al tendine d’Achille, a Boston, di nuovo Portland e poi a Los Angeles, sponda Clippers (se avete fatto bene i conti sono sette squadre in sei anni, senza contare Kings, Warriors e Knicks, di cui ha fatto parte senza però scendere in campo). Dopodiché, decide di provare la carta europea, grazie anche al passaporto polacco che gli permette di giocare come comunitario, ma in Italia con Avellino risolve il contratto prima dell’inizio del campionato, e in Germania, l’anno dopo con il Brose, gioca solo cinque partite; nel 2010 gioca brevemente con i Fort Wayne Mad Ants in D-League, e nel 2011 viene assunto dai Blazers come player development assistant. Oggi, oltre che fare il commentatore per le partite di Gonzaga, ha aperto insieme alla moglie un negozio di barbiere a Spokane. Le sue medie carriera in NBA sono di 5,8 punti e 4,9 assist in 15,4 minuti di media.

2º Giro

Stelle a sorpresa: chi li ha scelti al secondo giro ha avuto davvero un colpo di genio (o di fortuna…)

35. Carlos Boozer (PF, 206 cm, Cleveland Cavaliers)
Nato in Germania e cresciuto in Alaska, al college va a Duke, dove rimane per tre anni, in cui mette insieme ottime cifre, ma giocando da centro. Il problema di fondo è proprio questo: troppo basso per giocare da “5” in NBA, è però troppo lento per difendere sulle ali forti e ha un tiro non eccelso, anche a causa di una meccanica piuttosto particolare. Insomma, la sua trasformazione in ala suscita parecchi dubbi, e così Boozer scivola fino all’inizio del secondo giro, paradossalmente in un draft in cui al primo giro, come si è visto, sono state scelte parecchie ali forti scomparse in breve tempo dal panorama della NBA. Carlos stupisce fin dalla sua prima stagione, quando con la maglia dei mediocri Cavs chiude con 10 punti e 7,5 rimbalzi di media. Dopo un’altra buona stagione, i Jazz lo soffiano a Cleveland con un mega-contratto da 70 milioni in sei anni (quasi il doppio di quanto gli offrivano i Cavs), ripagato da sei stagioni intorno ai 20 punti di media (quattro in doppia doppia), con due chiamate all’All-Star Game ma anche parecchie partite saltate per problemi fisici. Nell’estate del 2010 passa ai Bulls con un sign-and-trade: rimane a Chicago per quattro stagioni, con cifre leggermente in calo, per poi giocare con i Lakers nel 2015 la sua ultima stagione in NBA; almeno per ora, visto che non si è ancora ufficialmente ritirato. In tredici stagioni nella Lega ha tenuto medie di 16,2 punti, 9,5 rimbalzi e 2,2 assist con il 52% al tiro; inoltre, è stato più volte membro della Nazionale USA, con cui ha vinto il bronzo olimpico nel 2004 e l’oro olimpico nel 2008. Nonostante molti detrattori, che lo hanno spesso accusato, tra le altre cose, di un’etica lavorativa non proprio impeccabile, non c’è dubbio che un giocatore del genere scelto al n. 35 sia stato un vero e proprio steal of the draft.

Con la maglia dell'Argentina Scola ha toccato i punti più alti della sua carriera (Foto: zimbio.com)

Con la maglia dell’Argentina Scola ha toccato i punti più alti della sua carriera (Foto: zimbio.com)

56. Luis Scola (PF, 206 cm, Houston Rockets)
L’argentino Luis Scola è l’ennesimo capolavoro “rubato” dagli Spurs in un draft, anche se a San Antonio ha giocato solo da avversario. Arrivato in Spagna diciottenne, sotto contratto con il Tau Vitoria, va due anni in prestito a Gijón prima di diventare una delle bandiere della squadra basca (un campionato, tre Coppe del Re, tre Supercoppe, due volte MVP della Liga ACB) e di venire scelto al draft. Scola decide però di rimanere in Europa ancora per qualche anno e gli Spurs stanno alla porta. Quando però nel 2005 si fanno avanti per negoziare un buyout, il Tau chiede 3 milioni di dollari, ma le regole NBA fissano come soglia per un buyout quota 500.000 dollari. Così, non se ne fa nulla: gli Spurs al suo posto firmano Fabricio Oberto e due anni più tardi scambiano i diritti del giocatore con i Rockets, con cui Scola firma subito dopo, nell’estate del 2007. Teoricamente è un rookie, ma a 27 anni è in realtà un giocatore navigato e subito pronto all’uso: il primo anno chiude già in doppia cifra di media, e nei successivi tre anni sale di livello fino a toccare i 18,3 punti (più 8,2 rimbalzi e 2,5 assist) della stagione 2010/11. Rimane a Houston un altro anno, per poi venire tagliato con la amnesty clause, non perché i Rockets fossero insoddisfatti del suo rendimento, ma semplicemente per creare spazio salariale per poter firmare Dwight Howard. Scola si accasa così a Phoenix, ma le sue cifre iniziano a calare, e l’anno dopo, a Indiana, chiude per la prima volta (ben) al di sotto della doppia cifra. Rimane ai Pacers un altro anno come cambio dei lunghi; poi, nell’estate 2015, firma con i Raptors, dove ha riguadagnato il posto in quintetto, ma sempre con cifre al ribasso, cosa inevitabile a ormai 36 anni. Si può discutere sul considerare o meno Scola come una stella della NBA, ma sicuramente lo è stato come giocatore di basket internazionale (nel suo palmarès anche un oro e un bronzo olimpici, un argento mondiale, due ori, tre argenti, tre bronzi e quattro volte MVP del FIBA Americas Championship con la maglia della Nazionale argentina), così come non c’è dubbio sul fatto che sia stato un vero steal of the draft: le sue cifre in otto stagioni NBA (esclusa quella attuale) parlano di 12,7 punti, 7 rimbalzi e 1,7 assist in 26,8 minuti di media.

Onesti mestieranti: scelti al secondo giro, si sono costruiti una (più o meno) solida carriera NBA.

31. Roger Mason Jr. (SG-SF, 196 cm, Chicago Bulls)
La carriera di questo giocatore scelto dai Bulls all’inizio del secondo giro si può in un certo senso dividere in due: i primi due anni in NBA, infatti, tra Bulls e Raptors, gioca appena 43 partite con un minutaggio quasi insignificante. Le cose però cambiano dopo due anni in Europa (Olympiacos e Hapoel Gerusalemme): al suo ritorno negli USA firma per Washington, dove trascorre un’altra annata da incubo per poi vedere praticamente triplicato lo spazio a sua disposizione (da 7,9 a 21,4 minuti di media) per gli infortuni a Gilbert Arenas e Antonio Daniels, chiudendo la stagione a 9,1 punti di media. Ormai trasformatosi in un solidissimo tiratore da oltre l’arco, oltre che in difensore affidabile, l’anno dopo gli Spurs gli offrono addirittura 7,3 milioni in due anni, e lui ripaga con l’unica stagione in doppia cifra (11,8 punti di media) della sua carriera. Dopo il biennio a San Antonio finisce a New York, quindi torna a Washington per poi finire la carriera con una stagione a New Orleans e una a Miami. Una carriera durata dieci anni nella NBA, a 6,3 punti di media con il 38% da tre. Ritiratosi nel 2014, oggi è direttore esecutivo dell’associazione giocatori della NBA.

Dan Gadzuric a canestro con la maglia dei Bucks (Foto: ign.com)

Dan Gadzuric a canestro con la maglia dei Bucks (Foto: ign.com)

34. Dan Gadzuric (C, 211 cm, Milwaukee Bucks)
Centro olandese (ma con madre serba e padre delle isole Saint Vincent e Grenadine) cresciuto cestisticamente negli USA, dove ha frequentato sia l’high school che il college, viene scelto dai Bucks per la sua stazza, la sua attitudine difensiva e il suo discreto atletismo, che gli permettono di essere uno stoppatore credibile e di correre bene il campo. Nonostante i suoi limiti offensivi, è riuscito a costruirsi una carriera professionistica assai dignitosa: ben otto stagioni a Milwaukee come centro di riserva (e con un contratto da 36 milioni firmato nel 2005), per poi chiudere con mezza stagione ai Warriors, mezza ai Nets e, dopo esperienze in Cina e in D-League, una ai Knicks (anche se in questi ultimi due anni gioca solo 44 partite in totale). In totale fanno dieci stagioni nella Lega, a 4,7 punti, 4,4 rimbalzi e 0,9 stoppate in 14,8 minuti di media. Dopo aver chiuso con la NBA, ha giocato in Venezuela e in Iran e si è ritirato nel 2015.

42. Ronald Murray (G, 191 cm, Milwaukee Bucks)
Non c’è che dire: in questo draft i Bucks hanno scelto tanto male al primo giro  (Haislip al n. 13) quanto bene al secondo, con l’appena citato Gadzuric e Ronald “Flip” Murray, snobbato da numerose altre squadre sia per il ruolo indefinito, sia per il pedigree non eccelso. Flip, infatti, è la “solita” guardia nel corpo di un playmaker, ottimo realizzatore anche se un po’ ondivago e difensore tutto sommato solido, quando ne ha voglia. L’altro problema, si diceva, è il pedigree: Murray ha frequentato un college di Division II (Shaw), pur venendone nominato giocatore dell’anno. Insomma, il talento c’è, ma la certezza che possa fare bene al piano di sopra no, e così scivola a metà del secondo giro. A Milwaukee rimane però solo metà stagione, venendo ceduto ai Sonics, dove non trova molto più spazio. Già dal secondo anno a Seattle, però, la musica cambia: Murray sfrutta come meglio non potrebbe l’assenza per infortunio di Ray Allen, chiudendo la stagione con una media di 12,4 punti in oltre 24 minuti e partecipando anche al Rookie Challenge 2004 nella squadra, ovviamente, dei sophomore (con 25 punti e 10 assist, per quello che possono valere). Negli anni successivi gira parecchie squadre (Cleveland, Detroit, Indiana, Atlanta, Charlotte e Chicago), costruendosi un ruolo da specialista in grado di portare punti rapidi in uscita dalla panchina, con esiti più o meno degni di nota a seconda della franchigia e dei giocatori che gli stanno intorno (e “davanti”). Tutto sommato, però, non si può certo dire che abbia avuto una carriera deludente, anzi: otto stagioni a 9,9 punti e 2,3 assist in 22,7 minuti di media. Una volta chiusa l’esperienza in NBA, gioca brevemente in Europa (Turchia e Ucraina) e in D-League, campionato che vince nel 2012 con la maglia degli Austin Toros; visto l’ultima volta in Libano nel 2014, ufficialmente non si è ancora ritirato.

Matt Barnes con i Grizzlies sta vivendo una seconda giovinezza (Foto: circasports.com)

Matt Barnes con i Grizzlies sta vivendo una seconda giovinezza (Foto: circasports.com)

46. Matt Barnes (F, 201 cm, Memphis Grizzlies)
Non molti si ricordano che questo giocatore, che negli ultimi anni ha ricoperto un ruolo di primo piano nella NBA, è stato scelto a metà del secondo giro e che, dopo la chiamata da parte dei Grizzlies, ci ha messo un anno e mezzo prima di mettere piede su un parquet della Lega. Memphis, infatti, lo cede quasi subito a Cleveland, che però lo taglia in ottobre: Barnes passa così la prima stagione dopo il college nella D-League con i Fayetteville Patriots, e quella successiva nella ABA con i Long Beach Jam. A gennaio 2004 arriva però la chiamata dei Clippers, con cui si comporta dignitosamente, guadagnandosi un nuovo contratto con i Kings in ottobre. Anche lì, però, dura poco: mandato ai Sixers infortunato, viene tagliato senza mai scendere in campo. Durante la off-season si accasa ai Knicks, ma ancora una volta non a lungo, visto che viene tagliato dopo appena sei partite. Lo richiamano quindi i Sixers, dove finisce la stagione 2005/06, ma ancora senza impressionare particolarmente: a quattro anni dal draft, la sua è una carriera “degna” di una tarda seconda scelta. Qualcosa però cambia quando, in ottobre, firma con i Warriors, squadra tosta che raggiunge le Semifinali di Conference e in cui riesce comunque ad emergere, sfiorando la doppia cifra e mettendo in mostra le sue capacità da “all-around”. Da sempre giocatore dinamico e grintoso, oltre che ottimo atleta (all’high school era stato All-American come wide receiver nel football), aggiunge alle sue qualità anche il tiro da fuori, segnando 106 triple in una stagione contro le 12 segnate nei suoi primi tre anni in NBA. L’anno dopo il suo minutaggio diminuisce leggermente, ma ormai Barnes è un giocatore che ha trovato il suo ruolo nella Lega, e che ha preso fiducia nei suo mezzi. Nell’estate 2008 firma con i Suns, chiudendo la stagione per la prima volta in doppia cifra per punti segnati; nel 2009 va a Orlando, e l’anno dopo firma per i Lakers, dove rimane per due stagioni. Dopodiché, tre ottime stagioni ai Clippers, probabilmente le migliori della sua carriera e poi, nel 2015, il passaggio a Memphis, ironicamente la squadra che l’aveva scelto al draft, dove quest’anno sta tenendo medie intorno ai 10 punti e 5 rimbalzi e dove ha fatto registrare la prima tripla doppia della sua carriera, con 26 punti, 11 rimbalzi e 10 assist contro i Pelicans l’11 marzo 2016. In dodici stagioni in NBA (esclusa quella in corso) ha segnato 8,1 punti, più 4,5 rimbalzi, 1,7 assist e 0,7 recuperi, in 23,1 minuti di media, cifre di tutto rispetto per un giocatore su cui, nessuno, a inizio carriera, aveva davvero puntato.

50. Darius Songaila (PF-C, 206 cm, Sacramento Kings)
Ala forte lituana cresciuta cestisticamente negli USA, dove ha frequentato sia la high school che il college (a Wake Forest, lo stesso di Tim Duncan), finisce alla fine del secondo giro per vari dubbi sull’impatto che potrebbe avere in NBA: poco atletico e non altissimo per un’ala/centro, in attacco ha movimenti limitati, seppur efficaci, e un tiro dalla media non particolarmente affidabile, nonostante un altro IQ cestistico e ottime abilità di passatore. Scelto dai Celtics e subito ceduto ai Kings, passa una stagione in Europa al CSKA Mosca, con cui vince il campionato, prima di scendere su un parquet NBA. Nei due anni a Sacramento, un po’ a sorpresa, gioca molto bene come cambio dei lunghi, e l’anno dopo firma per Chicago, con la cui maglia disputa la miglior stagione in carriera, pur conclusa in anticipo per un infortunio alla caviglia, sfiorando la doppia cifra di media. Nell’estate 2006 firma con i Wizards, con cui rimane tre stagioni, ormai con un ruolo ben definito nella Lega. Mandato a Minnesota nell’estate 2009, viene poi di nuovo ceduto a New Orleans prima dell’inizio del campionato. Nel 2010 finisce ai Sixers, dove però non trova spazio, giocando appena 71 minuti in 10 partite. Finisce qui la sua esperienza in NBA (otto stagioni a 6,9 punti, 3,4 rimbalzi e 1,2 assist in 18,6 minuti di media), ma non la sua carriera: nell’estate 2011 firma un super-contratto con il Galatasaray, in Turchia, anche se poi finisce la stagione in Spagna con Valladolid. La stagione dopo è a Donetsk, in Ucraina, prima di chiudere la carriera in patria con un anno al Lietuvos Rytas e uno allo Zalgiris Kaunas, squadra di cui diventa assistente allenatore dopo il ritiro, nel 2015.

Rasual Butler è ancora in NBA a 37 anni (Foto: twitter.com)

Rasual Butler è ancora in NBA a 37 anni (Foto: twitter.com)

53. Rasual Butler (SG-SF, 201 cm, Miami Heat)
Ottimo tiratore ma discontinuo, discreto difensore, buon atleta ma niente di speciale, Butler finisce alla fine del primo giro proprio perché sembra un giocatore mediocre, che sa fare tante cose in maniera decente, ma senza eccellere davvero in niente. Insomma, un role player come ce ne sono tanti. Invece, già dal primo anno a Miami dimostra che in campo ci può stare eccome: in una Miami tutt’altro che eccelsa ha l’opportunità di emergere, e la sfrutta appieno, chiudendo l’anno da rookie con 7,5 punti segnati in 21 minuti di media. Rimane agli Heat per altri due anni, per poi passare agli Hornets, dove al suo quinto anno in NBA chiude per la prima volta in doppia cifra per punti segnati. Dopo quattro anni a New Orleans viene ceduto ai Clippers, in cui gioca la miglior stagione in carriera, sfiorando i 12 punti di media partendo in quintetto in quasi tutte le partite della stagione. Da lì in poi, però, il suo ruolo nella NBA va diminuendo e torna a essere lo specialista che esce dalla panchina per produrre punti in breve tempo. A Chicago, Toronto e Indiana vede il campo poco o nulla, tanto che nel frattempo finisce anche in D-League (a 34 anni!), disputando peraltro un’ottima stagione. Torna poi protagonista con i Wizards nella stagione 2014/15, mentre in quella in corso, dopo aver visto il campo poco o nulla con gli Spurs, viene tagliato in febbraio per far spazio a Kevin Martin. Le sue medie, in tredici stagioni in NBA, parlano di un giocatore da 7,5 punti e 2,4 rimbalzi di media, con il 36% da tre: poteva sicuramente andare peggio a una 53º scelta.

Curiosità

Sono solo tre i giocatori scelti al draft del 2002 ad aver vinto un titolo NBA: Caron Butler, Melvin Ely e Tayshaun Prince.
Il draft del 2002 si può in un certo senso definire “quello delle star internazionali”; diversi giocatori non statunitensi, infatti, nonostante una carriera NBA breve o addirittura inesistente, sono poi diventati grandi protagonisti a livello europeo. Oltre a Boštjan Nachbar, Jiří Welsch e Nenad Krstić, scelti al primo giro, e a Miloš Vujanić, David Andersen, Juan Carlos Navarro, Mario Kasun e Luis Scola, scelti al secondo, altri due giocatori erano eleggibili in questo draft: Dimitris Diamantidis e Felipe Reyes non sono nemmeno stati scelti, ma sono diventati delle leggende nel panorama cestistico europeo.