Cos’è Busts&Steals? Semplificando, all’interno del mondo del Draft NBA, un bust è un giocatore che, a dispetto delle alte aspettative su di lui nel momento in cui viene scelto, fallisce poi (più o meno) clamorosamente sul campo, scomparendo in tempi (più o meno) brevi dal panorama NBA. Uno steal invece è, per certi versi, l’esatto contrario: un giocatore su cui, al momento del draft, nessuno avrebbe puntato un centesimo e che poi, spesso sfruttando occasioni e situazioni propizie per mettere in mostra il suo talento, stupisce tutti costruendosi un ruolo (talvolta di primo piano) nella Lega. Insomma, il draft non è una scienza esatta, è risaputo, ma proprio qui sta il suo fascino.
Ripercorreremo quindi la storia di otto draft recenti alla ricerca di busts e steals: che fine hanno fatto le prime scelte sparite quasi subito dai parquet NBA? E chi sono quei giocatori che invece, scelti al secondo giro ed entrati nella Lega in punta di piedi, ne sono poi diventati protagonisti? È questo lo scopo di questa rubrica, che, dopo il Draft 1998, il Draft 1999, il Draft 2000, il Draft 2001, il Draft 2002 e il Draft 2003, torna oggi con il Draft 2004. Buon divertimento!

Draft 2004

draft04

Draft piuttosto strano, quello del 2004, con poche stelle (Dwight Howard al n. 1), diversi ottimi elementi (Luol Deng al n. 7, Andre Iguodala al n. 9, Al Jefferson al n. 15, Josh Smith al n. 17, J.R. Smith al n. 18, Jameer Nelson al n. 20, Kevin Martin al n. 26) e tanti giocatori dalla carriera per certi versi indefinibile, da considerare deludente oppure no a seconda dei punti di vista. Così, per esempio, la seconda scelta Emeka Okafor di certo non è diventato un fenomeno, ma non è di certo da considerare un flop, avendo avuto una carriera più che dignitosa finché il fisico ha retto; oppure, il n. 3 Ben Gordon, attaccante di alto livello, seppur in contesti perdenti, per diverse stagioni prima di sparire improvvisamente, e anche un po’ misteriosamente, dalla Lega. Più o meno sullo stesso piano potrebbero essere considerati i vari Shaun Livingston, Josh Childress e Kris Humphries, che invece abbiamo deciso di inserire tra le “moderate” delusioni. Perché? Scopritelo leggendo qui sotto…

1º giro

Flop totali: sono scomparsi dalla NBA

Rafael Araujo con la maglia dei Jazz, prima di diventare Rafael Bábby (Foto: yourkamagraguide.com)

Rafael Araujo con la maglia dei Jazz, prima di diventare Rafael Bábby (Foto: yourkamagraguide.com)

8. Rafael Araújo (C, 211 cm, Toronto Raptors)
Centro brasiliano emigrato negli USA già per il college, prima ad Arizona Western e poi a Brigham Young, viene scelto molto in alto dai Raptors, che vedono in lui un corpaccione con ampi margini di miglioramento. Una cosa però sono i margini, e un altro i miglioramenti effettivi: i due anni a Toronto sono a dir poco fallimentari, così come il terzo, in maglia Jazz. Per di più, il giocatore pare non rendersi conto della situazione, attribuendo sempre ad altri (allenatori, compagni, dirigenti, infortuni) la colpa della sua inconsistenza in campo. Così nel 2007, scaduto il suo contratto da rookie e scontata la squalifica comminatagli dalla FIBA per uso di steroidi (in NBA poteva giocare sia perché è esterna alla FIBA, sia perché non vengono fatti controlli per gli steroidi) saluta la NBA (in tre anni 2,8 punti e 2,8 rimbalzi in 11,4 minuti di media) e firma in Russia con lo Spartak San Pietroburgo. Ma anche qui dura poco. Nell’estate 2008 prova con i Timberwolves, ma viene tagliato prima dell’inizio della stagione (per colpa di un infortunio e dell’arrivo di Kevin Love, stando alle sue dichiarazioni); finisce quindi in Cina, ma anche qui l’esperienza in pratica finisce ancora prima di cominciare. Finché, nel gennaio 2009, torna in patria, con la maglia del Flamengo, con cui vince il modesto campionato brasiliano. Gira poi alcune squadre in Brasile, cambiando nel frattempo anche cognome (ora è Rafael Bábby), prima di ritirarsi nel 2014.

10. Luke Jackson (SF, 201 cm, Cleveland Cavaliers)
Stella prima alla high school e poi al college a Oregon (unico giocatore a chiudere nella Top 10 in addirittura nove categorie statistiche), Luke Jackson piace proprio per le sue qualità da all-around, giocatore totale in grado di fare potenzialmente qualunque cosa sul parquet. A Cleveland, però, trova poco spazio nelle prime due stagioni, anche a causa di problemi fisici. Riparte quindi dalla NBDL, guadagnandosi una chiamata da parte dei Clippers, con cui però gioca solo tre partite. Gli va un po’ meglio qualche mese dopo a Toronto (30 punti nell’inutile ultima gara stagionale), dove dopo un contratto decadale si guadagna un rinnovo di due anni. Che però termina anzitempo, con il taglio prima dell’inizio della stagione successiva. Torna quindi agli Idaho Stampede nella NBDL, e a metà dicembre gli Heat gli danno un’altra chance: in due mesi in Florida se la cava discretamente (5,6 punti e 2,4 rimbalzi), ma alla fine finisce ancora con un taglio, con cui, tra l’altro, termina anche la sua breve carriera in NBA: quattro stagioni a 3,5 punti e 1,2 rimbalzi in 9,9 minuti di media. Negli anni successivi farà diversi workout e partite di summer league, ma non scenderà più in campo in una gara ufficiale, mentre giocherà una buona stagione in Italia, a Ferrara, e qualche partita all’Hapoel Gerusalemme. Ritiratosi nel 2011, dal 2013 è allenatore alla Northwest Christian University, college di Division II.

Robert Swift durante la breve esperienza in Giappone (Foto: japantimes.co.jp)

Robert Swift durante la breve esperienza in Giappone (Foto: japantimes.co.jp)

12. Robert Swift (C, 216 cm, Seattle SuperSonics)
Centrone bianco discreto in quello che si presume sia il lavoro di un lungo (tocco dolce da distanza ravvicinata, propensione a rimbalzo anche offensivo, stoppatore sopra la media, buon gioco di piedi in area), se la sua carriera da professionista è stata un fallimento la sua vita, purtroppo, è andata ancora peggio. Arrivato nella NBA direttamente dalla high school, al primo anno a Seattle trova pochissimo spazio, ma al secondo un po’ a sorpresa gioca oltre 20 minuti di media, senza brillare particolarmente (6,4 punti, 5,6 rimbalzi e 1,2 stoppate) ma guadagnandosi lo spot di centro titolare per la stagione successiva. Durante l’estate Robert si dà da fare, mette su qualche chilo di muscoli e si copre il corpo di tatuaggi, quasi a voler dare una svolta alla sua vita partendo dall’esterno. Il legamento crociato anteriore del suo ginocchio destro, però, ha altri programmi, e si rompe prima ancora dell’inizio del campionato. Swift rimane fuori l’intera stagione, e al suo ritorno in campo il famoso treno è ormai passato. Per due anni rimane ai margini delle rotazioni, a Seattle e poi a Oklahoma City dopo il trasferimento della franchigia; quindi i Thunder decidono di tagliarlo, ponendo fine alla sua carriera NBA (4 stagioni a 4,3 punti e 3,9 rimbalzi in 15,5 minuti di media). Nel 2009, sovrappeso e fuori forma, gioca un paio di partite nella NBDL, e l’anno dopo vola in Giappone chiamato da Bob Hill, suo primo allenatore a Seattle, che vuole cercare di risollevare la sua carriera e, soprattutto, di salvarlo dall’alcolismo e dalla depressione. A Tokyo Swift lavora duramente, e in campo domina, tanto che alcune franchigie NBA timidamente tornano alla porta. Ma, ancora una volta, la sfortuna si accanisce: il terremoto del marzo 2011 gli fa finire anzitempo la stagione, Robert torna negli USA e, dopo un workout andato male con i Blazers e un arresto in giugno per guida in stato di ebbrezza, sparisce dalla circolazione per un paio d’anni. Torna agli onori della cronaca nel 2013, quando è costretto a vendere la sua casa alla metà del prezzo che aveva pagato nel 2006, ma si rifiuta di andarsene. Quando lo fa, i nuovi proprietari stentano a credere ai loro occhi: l’edificio è pieno di feci di animali, bottiglie di alcolici, scatole di antidepressivi, pistole e spazzatura di ogni tipo, oltre, curiosamente, alle lettere di reclutamento di vari college risalenti al 2004, quando Swift diede il via ai suoi problemi passando alla NBA pur essendo palesemente non pronto dal punto di vista soprattutto psicologico. Nel 2014 viene arrestato per possesso illegale di armi durante una retata in casa di un pusher di eroina e metamfetamine, coinquilino di Swift; un anno dopo compare di nuovo nella cronaca giudiziaria, arrestato per tentata effrazione armata mentre era sotto l’effetto di droghe. Proveniente da una famiglia difficile e cresciuto in condizioni economiche e sociali disastrose, milionario a 18 anni, fermato più volte dalla sfortuna e psicologicamente devastato da tutto questo, a 31 anni Robert Swift sta ancora cercando di vincere la sfida più difficile: lasciarsi alle spalle il passato e costruirsi una vita degna di questo nome.

16. Kirk Snyder (SG/SF, 198 cm, Utah Jazz)
Guardia/ala atletica e solida fisicamente, con un tiro poco efficace ma in grado di dare una mano un po’ in tutto, dai rimbalzi alla difesa uno contro uno, ha giocato solo quattro stagioni nella NBA (con medie di 6,3 punti, 2,3 rimbalzi e 1,1 assist in 16,8 minuti) senza mai riuscire davvero a ritagliarsi il suo spazio, probabilmente a causa di problemi psicologici in seguito emersi con maggiore evidenza. A conferma di ciò il fatto che, nonostante cifre tutto sommato discrete, abbia cambiato quattro squadre in quattro stagioni (dopo i Jazz, che l’hanno scelto, Hornets, Rockets e Timberwolves), e che in seguito non abbia più trovato opportunità nella Lega. Nel 2008 sceglie così di andare in Cina, dove però rimane una sola stagione, al termine della quale, tornato in patria, viene arrestato per violazione di domicilio e aggressione nei confronti dei suoi vicini di casa, in Ohio. Condannato a tre anni, esce in anticipo per potersi curare (i suoi legali affermano sia affetto da disturbo bipolare) e nel 2011 firma in Canada con gli Halifax Rainmen, che però lo tagliano dopo appena tre gare. Dopo altre due brevi esperienze in Russia (Nizhny Novgorod) e in Repubblica Dominicana (Reales de la Vega), di lui si perdono completamente le tracce.

21. Pavel Podkolzin (C, 226 cm, Dallas Mavericks)
Ennesima conferma al fatto che la maggior parte dei flop dei draft fa parte della categoria dei lunghi (solitamente “molto lunghi”), la carriera non solo NBA di questo gigante russo è stata a dir poco imbarazzante, in linea con lo stereotipo del “se sei così alto non puoi non giocare a basket”. E a basket Podkolzin inizia a giocare molto presto ad alto livello, esordendo con la maglia del Novosibirsk, nella seconda serie russa, a soli 16 anni. Un fisico del genere non passa certo inosservato, così, l’anno dopo, lo troviamo in Italia, a Varese, dove rimane due anni in cui vede il campo una decina di minuti a gara. Abbastanza per farsi scegliere al draft dai Jazz, che subito lo girano a Dallas, dove rimane due anni scendendo in campo solo 6 volte, per 4 punti, 9 rimbalzi e 1 stoppata in totale, senza mai segnare un canestro dal campo. Dopo l’esperienza americana riparte dalla Russia, con la maglia del Khimki, ma anche lì dura poco: il livello è ancora troppo alto per lui. Torna così a casa, a Novosibirsk, dove è rimasto dal 2007 alla passata stagione (salvo una parentesi al Metallurg Magnitogorsk nel 2010/2011) vincendo, un po’ a sorpresa, la Coppa di Russia nel 2015. Nell’estate 2016 è passato al Sakhalin Yuzhno-Sakhalinsk.

22. Victor Khryapa (F, 206 cm, Portland Trail Blazers)
Classico esempio di grande giocatore europeo che non è mai riuscito a adattarsi al basket NBA, Victor Khryapa, quando viene scelto dai Nets (che poi lo girano subito a Portland) verso la fine del primo giro, è un’ala versatile e dall’ottima tecnica che in Europa ha già giocato due stagioni con la maglia del CSKA, vincendo due campionati. A Portland, nonostante giochi oltre 16 minuti di media nella sua stagione da rookie, segna poco più di 4 punti a partita. L’anno dopo va un po’ meglio, ma di certo non bene in assoluto: 5,8 punti e 4,4 rimbalzi in oltre 21 minuti. I Blazers lo mandano così ai Bulls, dove però gioca pochi minuti e poche partite (appena 42 in due anni). Dopo quattro stagioni a 4,5 punti, 3,4 rimbalzi e 1 assist in 16,4 minuti di media, decide così di chiudere con gli USA e di tornare al suo CSKA, dove milita ancora oggi (dal 2008) e con il quale ha vinto due volte l’Eurolega, oltre a 5 campionati russi e a 7 titoli VTB (uno da MVP). Al suo palmarès personale bisogna poi aggiungere i risultati con la Nazionale russa: un oro agli Europei di Spagna 2007, un bronzo agli Europei di Lituania 2011 e un bronzo olimpico a Londra nel 2012.

23. Sergej Monja (SF, 202 cm, Portland Trail Blazers)
Monja chiude il terzetto di russi scelti in fila dal n. 21 al n. 23, le cui carriere NBA sono state una più fallimentare dell’altra. Il “gemellino” di Khryapa (cresciuti insieme nel Saratov e passati insieme al CSKA) viene scelto proprio dai Blazers, dove arriverà poco dopo il suo ex e allo stesso tempo nuovo compagno di squadra. Monja però è ancora meno pronto del suo connazionale a calcare i parquet americani, e viene quindi ceduto ai Kings dopo sole 23 gare (3,3 punti e 2,2 rimbalzi in 14,6 minuti). A Sacramento va ancora peggio (solo 3 volte in campo per 7 minuti in totale) e a fine anno il russo, dopo aver assaggiato anche la D-League, decide di tornare a Mosca, stavolta con la casacca della Dynamo. Vi rimane per quattro stagioni, per poi passare al Khimki, dove gioca tutt’ora e con cui ha vinto due Eurocup e un titolo VTB. Con la Nazionale russa vanta lo stesso palmarès di Khryapa: un oro e un bronzo europei e un bronzo olimpico.

David Harrison insieme a Fred Jones, altra meteora dei Pacers (Foto: businessinsider.com)

David Harrison insieme a Fred Jones, altra meteora dei Pacers (Foto: businessinsider.com)

29. David Harrison (C, 213 cm, Indiana Pacers)
Che questo centro uscito da Colorado non fosse un fenomeno si sapeva, e lo sapevano bene anche i Pacers, che, scegliendolo con l’ultima chiamata del primo giro, speravano di mettersi in casa semplicemente un buon lungo di riserva per gli anni a venire. E i primi due anni a Indianapolis, pur macchiati dalla partecipazione di Harrison alla famosa mega-rissa con Detroit che costò la squalifica per l’intera stagione a Ron Artest, non vanno affatto male, con 16 minuti di media in campo in cui il fatturato è intorno ai 6 punti, 3,5 rimbalzi e 1 stoppata a partita. Poi, però, qualcosa si inceppa. Il terzo anno gioca solo 24 partite per un problema alla spalla, mentre l’anno successivo arriva in panchina Jim O’Brien, e Harrison quasi sparisce dalle rotazioni. Se già, come dichiarerà poi, nelle stagioni precedenti David faceva uso di marijuana durante la offseason, ora inizia a fumare quotidianamente anche durante la stagione; com’è ovvio, è solo questione di tempo prima che venga trovato positivo all’antidoping. Sospeso per cinque partite e costretto a frequentare un programma di recupero, a fine anno il suo contratto da rookie scade, e nessun’altra squadra decide di rischiare puntando su di lui, nonostante 4 stagioni NBA tutto sommato discrete (5 punti, 2,9 rimbalzi e 1 stoppata in 14,2 minuti di media). Harrison finisce così in Cina, dove gira tre squadre in quattro anni, per poi tornare negli USA, per qualche apparizione in D-League nel 2012. Gioca anche la summer league con i Mavericks, ma non trova un contratto ed è costretto a inventarsi un modo per mantenere la compagna e il figlio, perché gli oltre 4 milioni di dollari guadagnati nella sua carriera sono svaniti in cattivi investimenti. Finisce addirittura a fare il turno di notte in un McDonald’s, salvo smettere dopo due settimane perché i clienti, riconoscendolo, si mettevano a parlare con lui mettendoci troppo tempo a ordinare. Nel 2014 gioca qualche gara con i Metrowest Ballas nell’infima EBL, mentre l’anno dopo prova a tornare al professionismo firmando per i Las Vegas Dealers della neonata AmeriLeague, prima che si scoprisse che l’intera lega era una truffa (vedi anche DaJuan Wagner nel Draft 2002). Oggi Harrison è ormai un ex giocatore che si guadagna da vivere comprando e vendendo azioni e cercando finanziatori per la sua piccola impresa di videogiochi per smartphone.

Mezze delusioni: hanno reso molto meno del previsto

4. Shaun Livingston (PG/SG, 201 cm, Los Angeles Clippers)
Playmaker atipico di oltre due metri dichiaratosi eleggibile per il draft subito dopo l’high school, dopo aver vinto il titolo nel 2015 come elemento fondamentale in uscita dalla panchina per i Warriors Livingston si è guadagnato molti estimatori anche tra chi non segue quotidianamente la NBA. Per questo, molti storceranno il naso vedendolo inserito tra le delusioni del draft del 2004, ma è pur vero che bisogna considerare l’impatto che ha avuto nella Lega in relazione alla posizione in cui è stato scelto. Un impatto davvero al di sotto delle aspettative, anche a causa di un infortunio gravissimo a inizio carriera. Scelto dai Clippers, a Los Angeles è chiuso da Sam Cassell ed è costretto a giocare parecchi minuti da guardia, senza riuscire a emergere. Il primo anno è così così, anche a causa di alcuni problemi fisici che gli permettono di giocare solo 30 partite. L’anno da sophomore, però, va ancora peggio, con meno di 6 punti a gara e altri acciacchi che iniziano a preoccupare lo staff dei Clippers. Il dramma, però, arriva nel 2007: il 26 febbraio, contro i Bobcats, a seguito di una caduta il suo ginocchio in pratica si disintegra. Gli esami evidenziano la rottura dei due legamenti crociati, del legamento collaterale mediale, del menisco laterale e la lussazione della rotula, e i medici temono addirittura di dovergli amputare la gamba. Invece, dopo un anno e mezzo di stop, può tornare in campo; la ripresa, però, è tutt’altro che semplice, sia perché nel frattempo il contratto con i Clippers è scaduto, sia perché, di fatto, è un giocatore che, se già prima dell’infortunio non stava brillando particolarmente, ora è del tutto da “ricostruire”. Così, in due anni cambia tre squadre (Heat, Thunder e Wizards), giocando 48 partite in totale e passando anche dalla NBDL. Proprio ai Wizards, però, inizia la sua rinascita, con 26 partite poco sotto la doppia cifra di media, che gli valgono un contratto con i Bobcats (ironicamente, proprio la squadra contro cui è avvenuto il tragico infortunio). A Charlotte, e poi a Milwaukee, di nuovo Washington e Cleveland, si conferma ottimo cambio del play, ma è nel 2013 che “rinasce” definitivamente. Ai Nets sfrutta al meglio diversi infortuni di suoi compagni di squadra, partendo in quintetto in 54 partite su 76 e chiudendo con 8,3 punti, 3,2 rimbalzi e altrettanti assist. Il resto è storia recente, con la firma per i Warriors, la vittoria del titolo 2015 e la sconfitta nella Finale 2016, come perfetto backup di Stephen Curry. Insomma, per certi versi una storia che da una potenziale tragedia si è invece riservata un lieto fine; ma stiamo comunque parlando di una quarta scelta assoluta che non ha mai chiuso una stagione oltre i 9,3 punti di media, né prima, né dopo l’infortunio.

5. Devin Harris (PG/SG, 191 cm, Dallas Mavericks)
Scelto dai Wizards su richiesta dei Mavs, a cui è arrivato attraverso una trade preventivamente accordata, Harris, secondo l’idea dei dirigenti di Dallas, avrebbe dovuto coltivare il suo talento giocando per un paio di stagioni come cambio di un signor playmaker come Steve Nash. Piano impeccabile, se non fosse che Nash, quell’estate, passa ai Suns come free agent. Forse anche per questo e chissà per quanti altri motivi, Harris è rimasto un’eterna promessa. A Dallas resta solo tre stagioni e mezza, ceduto ai Nets non appena il suo rendimento diventa consistente. In New Jersey gioca le sue migliori stagioni, chiudendo oltre i 21 di media (e guadagnandosi anche la chiamata all’All-Star Game) nel 2008/09, in una squadra però tutt’altro che irresistibile. Rimane ai Nets fino a metà della stagione 2010/11; ceduto ai Jazz, inizia la parabola discendente della sua carriera, che continua in maglia Hawks e, di nuovo, ai Mavs, in cui gioca da tre anni come play/guardia in uscita dalla panchina. In 12 stagioni NBA finora ha tenuto medie di 11,7 punti e 4,4 assist con il 43,7% al tiro: come quinta scelta, forse è un po’ poco per non essere considerato una mezza delusione.

Josh Childress durante i suoi due anni "europei", all'Olympiacos (Foto: cleveland.com)

Josh Childress durante i suoi due anni “europei”, all’Olympiacos (Foto: cleveland.com)

6. Josh Childress (SF, 203 cm, Atlanta Hawks)
La carriera di questa atletica ala piccola scelta dagli Hawks al n. 6 dopo tre anni a Stanford è stata a dir poco particolare. Ottimo difensore ma tiratore statisticamente ed esteticamente orrendo, già dalla sua stagione da rookie, chiusa a 10 punti e 6 rimbalzi di media, mostra che nella NBA può starci eccome. Nelle tre stagioni successive non esplode come forse qualcuno sperava, ma viaggia comunque ben sopra la doppia cifra di media (13 al terzo anno) uscendo dalla panchina. Poi, a sorpresa, nell’estate 2008 l’Olympiacos gli propone di ricoprirlo d’oro e Josh senza pensarci due volte firma in Grecia un triennale da 20 milioni di dollari che, per motivi fiscali derivanti dal giocare al di fuori degli USA, equivarrebbero a un contratto NBA da oltre 30 milioni (che gli Hawks gli offrono, ma spalmati su cinque anni). Un po’ a sorpresa (o forse no), l’impatto con il top del basket europeo è più difficile del previsto, e solo al secondo anno in maglia biancorossa Childress inizia a fare la differenza (incluso nel secondo miglior quintetto di Eurolega e capocannoniere del campionato greco). Alla fine di quella stagione decide di uscire dal contratto con la squadra del Pireo per tornare in NBA. Che, però, lo aspetta tutt’altro che a braccia aperte. Gli Hawks scambiano i diritti su di lui con i Suns, ma nelle due stagioni in Arizona lo spazio a sua disposizione è dimezzato rispetto ai tempi di Atlanta, e il rendimento cala ancora di più (2,9 punti in 14,4 minuti nel 2011/12). “Amnistiato” nel 2012, firma con i Nets, ma dura solo un paio di mesi; un anno dopo prova con i Wizards, che però lo tagliano prima dell’inizio della stagione; si accasa quindi ai Pelicans, ma anche qui dura poco, solo un mese. Si conclude così la sua carriera NBA, con cifre complessive che parlano di 9,1 punti, 4,7 rimbalzi e 1,6 assist in 8 stagioni, ma con una differenza nettissima tra i primi quattro anni ad Atlanta (11,1 punti, 5,6 rimbalzi, 1,8 assist e 31,3 minuti di media in 285 partite) e le stagioni post-Olympiacos (106 partite a 3,6 punti, 2,5 rimbalzi e 0,8 assist in 14,2 minuti). Una differenza tanto netta quanto incomprensibile, dato che Childress non ha avuto particolari problemi fisici di ritorno dall’Europa, dove al contrario al suo secondo anno aveva dimostrato sia di essere in forma, sia di essersi ormai ambientato in un basket per certi versi molto diverso da quello americano. Che sia stato proprio questo il problema, al suo ritorno in patria? Chiusa l’esperienza in NBA, Childress ha giocato due stagioni in Australia con i Sydney Kings, mentre nel 2016 è tornato negli USA, con i Texas Legends della NBDL.

11. Andris Biedriņš (C, 213 cm, Golden State Warriors)
Arrivato giovanissimo nella NBA, a soli 18 anni, ma con già due anni di esperienza a buon livello con la maglia del BK Skonto Riga, questo ragazzone lettone ha avuto una carriera NBA “piramidale”. Comprensibilmente, appena arrivato fatica non poco a trovare spazio, e quando è in campo ciò che salta maggiormente all’occhio sono la sua inesperienza soprattutto nella gestione dei falli e la mano quadrata dalla linea di tiro libero. Nel 2006 però, con l’arrivo di Don Nelson sulla panchina dei Warriors, cambia tutto: Biedriņš diventa il centro titolare e le sue medie lievitano fino a sfiorare la doppia doppia di media, che raggiunge nel 2008/09, il vertice della sua “piramide”, durante il primo anno di un contratto da 54 milioni in sei anni. Ma qui si ferma: l’anno dopo, infatti, è limitato da continui disturbi alla schiena e all’inguine, e inizia un inquietante processo di involuzione che lo porta prima a dimezzare e poi ad annullare del tutto il suo contributo offensivo, compresa la percentuale dalla lunetta (dal 62% del 2007/08 al 16% – sedici! – del 2009/10). E non c’entrano solo gli infortuni: nel 2012, tutto sommato in salute, gioca 53 partite a quasi 10 minuti di media, ma tirando solo 21 volte in totale dal campo! Nel luglio 2013 i Warriors lo mandano ai Jazz per liberare spazio e firmare Iguodala; nello Utah, Biedriņš gioca solo 6 partite prima di porre fine alla sua carriera NBA: 10 stagioni a 6,3 punti, 7 rimbalzi e 1,1 stoppate in 21,6 minuti di media. Oggi, a soli 30 anni, Biedriņš risulta inattivo da due stagioni; felicemente inattivo, a quanto pare, dato che nel 2015 ha dichiarato: «Non sento il desiderio di giocare; magari tra un anno cambierò idea, ma al momento sto bene così».

13. Sebastian Telfair (PG, 183 cm, Portland Trail Blazers)
Approdato nella NBA direttamente dalla high school, il cugino di Stephon Marbury di certo non ha mantenuto le aspettative, ma è comunque riuscito a costruirsi una carriera da solido playmaker di riserva: un po’ poco per una scelta n. 13, ma sempre meglio che niente. Scelto dai Blazers, vi rimane due anni, e, nonostante sia un ottimo distributore di gioco ma con un tiro a dir poco inconsistente, sfiora la doppia cifra di media al secondo anno, quando parte in quintetto. Mandato a Boston in estate, inizia il suo vagabondaggio per la NBA: nelle successive otto stagioni vestirà le maglie di Timberwolves, Clippers, Cavaliers, Suns, Raptors e Thunder, con un minutaggio che, dopo il 2009, scenderà sotto i 20 minuti di media. In 10 stagioni NBA ha messo insieme 7,4 punti e 3,5 assist in 21,5 minuti (con il 39% dal campo e il 32% da tre). Sia prima che dopo le sue 16 partite in maglia Thunder, scende in campo in Cina, mentre nel 2016 alcune voci danno per certo il suo passaggio a Torino, salvo poi sfumare tutto dopo qualche giorno per il continuo gioco al rialzo dell’agente del giocatore, che già aveva fatto scappare anche Cantù e Zagabria.

14. Kris Humphries (PF, 206 cm, Utah Jazz)
Sia chiaro, la carriera di questa ala forte uscita da Minnesota dopo una sola stagione di college non è stata del tutto fallimentare, ma di sicuro da una scelta n. 14 ci si sarebbe aspettati di più. Scelto dai Jazz poco prima dell’altra delusione Snyder, vi rimane per due stagioni, trovando abbastanza spazio ma senza farsi notare particolarmente. Lo stesso succede nelle tre stagioni successive, a Toronto, dove è un membro più o meno stabile della rotazione e nulla più. Qualcosa si smuove nel 2010, quando passa dai Mavs ai Nets, producendo 8 punti e 6 rimbalzi in uscita dalla panchina. I due anni successivi, sempre in New Jersey, saranno i migliori della sua carriera, entrambi in doppia doppia di media. Come spesso succede, questa crescita gli vale un rinnovo consistente, da 24 milioni in due anni. E come altrettanto spesso succede, dopo il contrattone le cifre tornano mediocri, sia ai Nets, nel frattempo trasferitisi a Brooklyn (dove Blatche e Teletovic gli rubano minuti), sia successivamente a Boston, Washington, Phoenix e Atlanta, dove si conferma solido cambio del “4” titolare, ma nulla più. In 12 stagioni NBA finora ha tenuto medie di 6,8 punti e 5,5 rimbalzi in 18,2 minuti.

19. Dorell Wright (SF, 206 cm, Miami Heat)
Altro chiaro esempio di giocatore proveniente dall’high school che invece avrebbe fatto meglio a fare esperienza al college, bisogna però anche riconoscere che, con impegno e caparbietà, questa longilinea ala piccola ha saputo costruirsi, stagione dopo stagione, un suo posto nella NBA. Scelto dagli Heat, vi rimane per sei stagioni (compresa una parentesi in D-League con gli affiliati Florida Flame), in tre delle quali trova discreto spazio (quasi 8 punti e 5 rimbalzi di media al quarto anno); nel 2006 vince il titolo, ma da comparsa. Nel 2010 firma da free agent con i Warriors; scelta azzeccata, a quanto pare, dato che l’allora mediocre squadra di Oakland è il posto giusto per permettergli di esplodere: partendo titolare, chiuderà con 16,4 punti di media (più 5,3 rimbalzi, 3 assist e 1,5 recuperi), segnando più punti nella sua settima stagione che in tutte le sei precedenti, oltre a far registrare i record franchigia di nove triple a segno in una sola gara e di maggior numero di triple a segno in una stagione (i tempi di Stephen Curry erano ancora lontani). Proprio il tiro da tre è il simbolo della sua capacità di migliorarsi, dato che non aveva quest’arma nel suo bagaglio tecnico al suo ingresso nella Lega. Dopo essere arrivato terzo nella classifica per il Most Improved Player (alle spalle di gente come LaMarcus Aldridge e Kevin Love), al secondo anno a Golden State non mantiene le aspettative che ha creato, scendendo a 10,3 punti a partita e venendo ceduto a Philadelphia al termine della stagione. Ai Sixers viene utilizzato in uscita dalla panchina, contribuendo con 9,2 punti a gara, e a fine anno non viene confermato. Firma così con i Blazers, dove però ha pochissimo spazio, e dopo due anni, non trovando valide alternative, vola in Cina, dove gioca da superstar con i Beikong Fly Dragons. Nell’aprile del 2016 torna in NBA, proprio con gli Heat, giocando i Playoffs, ma ormai, nonostante abbia solo 31 anni, il suo ruolo è più che marginale. In 11 stagioni NBA, almeno fino a questo momento, ha tenuto medie di 8,4 punti, 3,8 rimbalzi e 1,5 assist in 22,4 minuti: poteva andare peggio, certo, ma anche molto meglio, considerando che, dopo di lui, è stata scelta gente come Kevin Martin, Tony Allen e Trevor Ariza, giusto per nominare tre giocatori dal ruolo simile.

2º Giro

Stelle a sorpresa: chi li ha scelti al secondo giro ha avuto davvero un colpo di genio (o di fortuna…)

Varejao, per due Finali di fila con la squadra sbagliata (Foto: nbamemes)

Varejao, per due Finali di fila con la squadra sbagliata (Foto: nbamemes)

30. Anderson Varejao (PF/C, 211 cm, Orlando Magic)
Prima scelta del secondo giro, il lungo brasiliano Anderson Varejao arriva nella NBA dopo due anni ad alto livello al Barcelona, con cui vince l’Eurolega nel 2003, seppur con un ruolo marginale. Scelto dai Magic ma ceduto ai Cavs un mese dopo il draft, trova spazio fin dal primo anno, mettendo in mostra le sue innate qualità di lottatore, che gli valgono il rinnovo. Rimarrà a Cleveland per le successive dieci stagioni e mezzo, diventando una pedina fondamentale della squadra, con tanto di contrattoni milionari, e specializzandosi come specialista difensivo odiato da buona parte degli avversari per il suo gioco sporco. Nel 2015 i Cavs raggiungono (e perdono con i Warriors) le Finali NBA, ma Varejao le guarda da bordo campo, infortunato (cosa purtroppo ricorrente nella sua carriera). L’anno dopo, in febbraio viene ceduto per motivi principalmente salariali ai Blazers, che lo tagliano subito dopo. Firma quindi con i Warriors, che vanno poi in Finale, ironia della sorte, proprio contro i “suoi” Cavs (che vinceranno 4-3 la serie), riuscendo così nella non facile impresa di vestire la maglia “sbagliata” in due Finali consecutive. Nonostante il suo ruolo marginale a Golden State, in estate firma il rinnovo. In 12 stagioni NBA ha finora tenuto medie di 7,4 punti, 7,3 rimbalzi e 1,2 assist in 24,4 minuti; non male per una scelta al secondo giro, a maggior ragione considerando che si tratta di un giocatore che ha costruito la sua carriera sui cosiddetti intangibles, ovvero quegli aspetti del gioco tanto fondamentali quanto impossibili da rilevare statisticamente. Nazionale brasiliano, con la maglia verdeoro ha vinto due ori (2005 e 2009) e un argento (2001) ai FIBA Americas Championship.

43. Trevor Ariza (SF, 203 cm, New York Knicks)
Atletico, rapido e con un’ampia apertura “alare”, Ariza prima del draft veniva considerato un potenzialmente buon difensore o poco più. Invece, fin dalla sua prima stagione ai Knicks, appena diciannovenne (ha infatti giocato un solo anno a UCLA), fa capire di poter avere il suo posto nella Lega e di sapersela cavare anche nella metà campo offensiva, nonostante un tiro non ancora particolarmente affidabile (ora invece è tiratore da oltre due triple a gara con il 35-40%). Nelle stagioni successive, sempre in crescita, passa da New York a Orlando, poi ai Lakers (con cui vince il titolo nel 2009), quindi ai Rockets (con un contratto da 33 milioni in 5 anni), dove gioca la miglior stagione della sua carriera nel 2009/10 (quasi 15 punti e oltre 5 rimbalzi a gara). Ceduto a New Orleans a fine stagione, vi rimane due anni, per poi giocarne altri due a Washington e poi tornare a Houston, dove gioca tutt’ora. Giocatore sottovalutato prima del draft, la sua crescita esponenziale ha fatto poi pensare, paradossalmente, a una potenziale star, che però non è mai diventato: Ariza è “semplicemente” un buon, anzi, un ottimo giocatore, in grado di rendersi utile in diversi aspetti del gioco. E non è poco per una scelta n. 43, che finora, in 12 stagioni NBA, ha tenuto medie di 10,3 punti, 4,7 rimbalzi, 2,1 assist e 1,5 rimbalzi in 28,6 minuti di media.

Onesti mestieranti: scelti al secondo giro, si sono costruiti una (più o meno) solida carriera NBA.

37. Royal Ivey (PG, 193 cm, Atlanta Hawks)
Scelto a secondo giro inoltrato, questo playmaker non particolarmente dotato di talento ha saputo ritagliarsi un posto, seppur marginale, nella NBA lavorando giorno dopo giorno. Scelto da Atlanta dopo quattro anni a Texas College, rimane agli Hawks per tre stagioni, di cui una (la seconda) partendo titolare (seppur giocando solo 13 minuti di media). Dopodiché, inizia a vagabondare per la Lega, cambiando sei volte casacca ma tornando in un paio di occasioni in una squadra in cui aveva già giocato, prova del fatto che si tratta di un professionista più che affidabile. Specialista difensivo in grado di occuparsi sia di playmaker che di guardie, in 10 stagioni NBA ha tenuto medie di 3,3 punti, 1,1 rimbalzi e 1 assist in 12,5 minuti di media, giocando solitamente come terzo cambio del play; insomma, non un campione e nemmeno un buon giocatore, ma non sono molte le seconde scelte che possono raccontare ai nipotini di aver giocato dieci anni da professionisti. Nel 2014, dopo aver chiuso con la NBA, finisce la stagione in Cina prima di annunciare il ritiro e di intraprendere una carriera da allenatore. Attualmente è assistente presso i Thunder, squadra in cui ha anche militato per due stagioni da giocatore.

Chris Duhon al top della sua carriera (Foto: sheanoxheady.blogspot.com)

Chris Duhon al top della sua carriera (Foto: sheanoxheady.blogspot.com)

38. Chris Duhon (PG, 185 cm, Chicago Bulls)
Intelligenza e duro lavoro hanno permesso a questo playmaker non particolarmente dotato fisicamente e atleticamente di ritagliarsi un posto nella NBA che in pochi, prima del draft, avrebbero pronosticato. Uscito dopo quattro anni a Duke (campione NCAA nel 2001) come migliore di sempre nei recuperi (e secondo negli assist), viene scelto dai Bulls per farne, addirittura, il playmaker titolare. Già nella sua prima stagione gioca oltre 26 minuti di media, contribuendo con quasi 6 punti (di certo non la specialità della casa) e 5 assist. Rimane a Chicago per quattro stagioni, per poi passare con un biennale da 12 milioni di dollari a New York, dove disputa la miglior annata della sua carriera (11 punti e 7 assist di media, con il record franchigia di 22 assist in una sola gara). Dopo un altro anno, più deludente, nella Grande Mela, firma un quadriennale con i Magic, ma a Orlando rimane solo due stagioni, entrando dalla panchina. Ceduto ai Lakers, ma ormai ampiamente nella parabola discendente della sua carriera, gioca un solo anno prima di venire tagliato e di optare per il ritiro, dopo 9 stagioni a 6,5 punti, 2,3 rimbalzi e 4,4 assist in 25,6 minuti di media. Dal 2014 è assistente allenatore alla Marshall University.

Curiosità

Sono otto i giocatori scelti al draft del 2004 ad aver vinto almeno un titolo NBA: Shaun Livingston, Andre Iguodala, J.R. Smith, Dorell Wright, Tony Allen, Sasha Vujacic, Beno Udrih e Trevor Ariza.
Ha Seung-Jin, gigante di 221 cm scelto al n. 46, è stato il primo sudcoreano a giocare nella NBA; non molto a lungo, a dire il vero: solo due stagioni ai Blazers (46 gare in totale a 1,5 punti e 1,5 rimbalzi in 6,9 minuti di media).


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