Gli interrogativi che avevano accompagnato la fine del 2015 sono stati allontanati dalla maggior parte dei team di una Central Division che, almeno dal punto di vista dello spettacolo, ci ha regalato un avvio di anno solare davvero molto promettente.

CLEVELAND CAVALIERS (27-9). Rispetto all’ultimo aggiornamento è cambiato il numero di vittorie, ma non quello delle sconfitte. Risultato? Una striscia aperta di 8 “W” in fila, che ha portato i Cavs a ottenere il terzo miglior record della NBA e a confermare un dominio pressoché assoluto ad Est. D’accordo, il calendario è stato piuttosto favorevole, con le uniche vere insidie rappresentate dagli ispirati Raptors dell’ultimo periodo, spazzati via con uno scarto superiore ai 20 punti, e dai Dallas Mavs, battuti a domicilio. Eppure la Cleveland di inizio anno probabilmente non avrebbe saputo mostrare una costanza simile, segno che “l’olio” versato da David Blatt sta iniziando a far funzionare gli ingranaggi di un motore già incredibilmente potente. Non solo grazie a Kyrie Irving, ancora lontano, per sua stessa ammissione, dal trovare una forma ottimale, ma tremendamente decisivo quando conta, ovvero nelle vittorie contro Toronto e Washington, mettendone a referto rispettivamente 25 e 32. Ma soprattutto un più che positivo J.R. Smith da 20 di media nelle ultime cinque gare (durerà o è solo un miraggio?) e un sempre impattante Tristan Thompson sotto le plance. Ah, ci sarebbe anche un LeBron James da 25,8 punti a partita, quarto top scorer della Lega, decisivo e determinato come non mai a riconquistare il trono di vincitore (vedere qui sotto la tremenda schiacciata con cui ha deciso l’incontro di Dallas). Questa però, non è una notizia.

CHICAGO BULLS (22-15). Le tre sconfitte nelle ultime tre gare (con Hawks, Wizards e Bucks) sono un brutto campanello d’allarme per una Chicago che era invece reduce un filotto di sei vittorie consecutive, la prima vera prova di forza nella stagione dei Bulls. Sconfitte dolorose perché arrivate una contro una diretta contender (Atlanta) per la seconda e terza piazza ad est, l’altra in casa, allo United Center, contro Washington, e l’ultima contro la quasi derelitta Milwaukee di questi tempi. Sicuramente ad incidere sono stati gli infortuni che hanno colpito Noah, Dunleavy e, manco a dirlo, Rose (positivo, tuttavia, il suo impatto nelle partite in cui è stato in campo), accorciando sensibilmente le rotazioni. I riflettori sono però tutti puntati su un immenso Jimmy Butler da 22 di media, sempre più leader indiscusso dei suoi e autore della grandiosa prestazione da 40 punti in un tempo, record di franchigia (scavalcando addirittura sua maestà MJ) ottenuto nella complicata trasferta di Toronto. Questa incredibile performance ha riportato alla luce la storia davvero toccante dell’ultimo Most Improved Player of the year, un ragazzo costretto a guadagnarsi tutto sin dall’infanzia, e capace, con dedizione e forza di volontà, di crescere a dismisura fino a diventare la stella dei Bulls, da lui ora strettamente dipendenti.

INDIANA PACERS (22-17). Un record in fin dei conti positivo, quinta posizione nella Eastern Conference in coabitazione con Miami. Eppure l’ultimo periodo è stato caratterizzato da risultati completamente altalenanti (50% di vittorie nelle ultime otto gare), lasciando la sensazione che vi sia qualcosa di incompiuto in questi Pacers. In particolare, coach Vogel e i suoi stessi giocatori ne fanno un discorso di pura mentalità e gestione dei momenti cruciali della gara, poichè le ultime cinque sconfitte di Indiana sono accomunate da un unico fattore, ossia l’essere scaturite da situazioni di vantaggio, poi puntualmente dilapidato nei minuti conclusivi. Non è certamente un caso, infatti, che le sanguinose sconfitte contro Houston e Miami siano arrivate all’overtime, ossia nei frangenti più concitati e complessi di una gara. Al di là delle responsabilità individuali (la palla persa da George Hill contro Chicago, quella di Monta Ellis contro Houston), è evidente come i Pacers debbano urgentemente trovare un rimedio a questa cronica incapacità di affrontare i finali di partita. Perchè se è vero che il potenziale sia sotto gli occhi di tutti e la nuova idea di gioco proposta da Indiana risulti tutto sommato produttiva, è altrettanto vero che ciò che porta una squadra ad essere vincente è proprio la “closing out skill”, la capacità di chiudere e gestire a proprio favore una partita. A tal proposito, un esempio non propriamente facile da ripetere è arrivato dal mostruoso show personale con cui Paul George ha permesso ai Pacers di vincere la gara contro Detroit: 7/7 dal campo negli ultimi cinque minuti, con 21 punti totali. Spettacolo da godere assolutamente.

DETROIT PISTONS (21-17). Immediatamente dietro Indiana, troviamo la grande sorpresa di questo inizio di 2016, ossia i Pistons di coach Van Gundy, saliti fino alla settima posizione e più che mai in piena zona play-off. La chiave di questa mini-svolta e di un ottimo bilancio di quattro vittorie nelle ultime sei gare va sicuramente trovata nel finalmente consistente contributo offerto dalla panchina.

Brandon Jennings: il suo rientro è manna dal cielo per Detroit (Photo by Rocky Widner/NBAE via Getty Images)

Brandon Jennings: il suo rientro è manna dal cielo per Detroit (Photo by Rocky Widner/NBAE via Getty Images)

Mentre, infatti, Jackson e Drummond (ad oggi, statistiche alla mano, il miglior centro della Lega) continuano a spadroneggiare, spalleggiati dagli ottimi e sorprendenti Caldwell-Pope e Morris, il vero apporto in più è arrivato dal “supporting cast” composto da Tolliver, Johnson, Baynes e soprattutto Brandon Jennings. La point-guard ex Milwaukee è tornata a calcare il parquet dopo quasi un anno dal terribile infortunio al tendine d’achille e, per quanto le statistiche non siano ancora ai livelli attesi, l’impatto nelle rotazioni e nella pericolosità dell’attacco di Detroit si è già fatto sentire. Con queste premesse, i Pistons fanno capire di esserci per davvero, come del resto abbiamo sempre pronosticato.

MILWAUKEE BUCKS (16-25). Non ingannino le vittorie contro i Bulls, ottenuta grazie a una super partita da parte di Giannis Antetokoumpo (29 con 10 rimbalzi catturati) e quella al fotofinish contro Dallas, in cui ad emergere è stato soprattutto Khris Middleton con i suoi 27 punti. La stagione di Milwaukee continua infatti ad essere fallimentare e tra infortuni ai giocatori (Bayless, Plumlee, Copeland, Vazquez) e al coach (Jason Kidd non è in panchina ormai da Natale a causa di un problema alla schiena, ed è stato sostituito dal vice Joe Prunty), l’atmosfera è tutto fuorché idilliaca e la classifica disastrosa (sempre terzultimi nella Eastern Conference). Probabilmente, come sostiene anche il proprietario dei Bucks, Marc Lasry, il quale chiede tempo al suo progetto (2 anni almeno), i giocatori stanno pagando l’assenza di leadership e esperienza in grado di farli essere realmente competitivi nella spietata giungla della NBA. Un atteggiamento e dei proclami di assoluto ridimensionamento rispetto alle attese ottimistiche di ottobre, dove si era pensato, opinionisti compresi, che questa franchigia avrebbe dato avvio sin da subito a una generazione vincente. Evidentemente, i tempi sono tutt’altro che maturi.