La quiete prima della tempesta, ossia quella di cui vi avevamo parlato due settimane fa a proposito della Central Division. A distanza di pochi giorni, infatti, ecco una serie non indifferente di stravolgimenti da raccontare, a cominciare da quella che ha visto protagonisti i padroni della Eastern Conference.

CLEVELAND CAVS (32-12). Se alcune scelte, in ambito sportivo e non solo, possono apparire sorprendenti e azzardate, di certo quella compiuta dal GM David Griffin rientra in quest’ampia categoria. L’esonero di coach Blatt è maturato nel modo e nei tempi più inattesi, seppure la tremenda sconfitta interna contro Golden State avesse lasciato dietro di sè non pochi strascichi. Ed è stata senza dubbio quella la goccia a far traboccare il vaso, facendo pendere la bilancia nettamente a sfavore dell’ex capo allenatore della nazionale russa. In realtà, nonostante i successi certificati dall’invidiabile record di 83-40 in una stagione e mezzo (la prima da Head Coach in NBA), Blatt non aveva mai conquistato la totale fiducia e l’incondizionato rispetto da parte dell’ambiente, più per mancata considerazione da parte delle ingombranti stelle che per una sua reale incapacità di mettersi in gioco. E così, al primo momento di reale difficoltà (psicologica e non nei risultati), ha vestito inevitabilmente i panni del capro espiatorio. Difficile decifrare dal di fuori quali dinamiche si siano realmente verificate nello spogliatoio e nello staff dei Cavs. La nostra opinione è che di certo LeBron, al di là delle prevedibili smentite, non può non aver giocato un ruolo quantomeno importante in questa decisione, sia perchè leader indiscusso e emotivo dei suoi, sia perchè è parso più volte evidente come la sua tendenza a prevaricare sulle indicazioni del coach creasse non pochi disagi nell’armonia del team. Un dato di fatto, però, è ora più che mai evidente: Cleveland non ha più alibi. Solamente la conquista dell’anello potrà porre fine a questa telenovela e dire se, effettivamente, il problema potesse essere Blatt o altro. Tyronn Lue, il nuovo condottiero dei Cavaliers, ha già avuto prova del clima non proprio “idilliaco” che lo attende.

CHICAGO BULLS (25-19). Come si suol dire in gergo, Chicago sta dimostrando ancora una volta come, fatto trenta, sia però lontana dal raggiungere trentuno. Una sorta di perenne incompiuta, a tratti capace di esprimersi da prima della classe e in altre occasioni messa ko dai suoi stessi limiti. Il calendario dei Bulls, va detto, è stato tutto fuorchè agevole negli ultimi dieci giorni, eppure è impossibile non riconoscere una cronica incostanza a una squadra che batte in maniera convincente i Cavs alla Quicken Loans Arena e due giorni dopo getta letteralmente alle ortiche un buon vantaggio in casa contro Miami, perdendo l’incontro.

Joakim Noah: resterà fuori fino a fine stagione.

Joakim Noah: resterà fuori fino a fine stagione.

Pau Gasol, sempre positivo in questa stagione (16,6 punti e 11 rimbalzi a gara finora), è stato piuttosto chiaro, ammettendo come il gruppo viva troppi alti e bassi, facendone una questione per lo più di mentalità. Sicuramente il fatto che la grana infortuni non dia tregua a coach Hoiberg è una seria attenuante. A partire da Derrick Rose, affetto da problemi di piccola entità, ma comunque ricorrenti e preoccupanti, fino ad arrivare all’ultima grande defezione, quella di Joakim Noah, la cui stagione può già dichiararsi conclusa causa serio infortunio alla spalla. Un’assenza non da poco per gli sfortunatissimi Bulls, abituati a fare leva sull’enorme energia del centro da New York e necessariamente costretti a tirar fuori il massimo da una panchina che ha già dimostrato di poter fare la differenza.

DETROIT PISTONS (25-21). È ormai assodato: un record superiore al 50% di vittorie sembra assolutamente alla portata di una squadra come Detroit, attualmente sesta a Est al pari di Miami. A saperlo, coach Stan Van Gundy ci avrebbe probabilmente messo la firma già ad inizio stagione, per quanto gran parte del merito sia proprio e indiscutibilmente frutto del suo lavoro. Sì perché l’ex coach dei Knicks è riuscito nell’arduo compito di fare dei suoi giovani ma indisciplinati talenti un gruppo solido e competitivo, capace di mandare spesso in doppia cifra tutto lo starting five e forte di una panchina in netta crescita (Tolliver e Baynes in particolare). Tanto che, ad oggi, il problema maggiore dei Pistons è semmai quello di mantenere alta l’asticella in partite contro squadre sulla carta più deboli. Eloquenti a riguardo le brutte sconfitte patite in quel di New Orleans e Denver, alle quali hanno fatto da contraltare lo scalpo d’eccezione ai Golden State Warriors (quarta squadra della Lega a riuscirci finora) e le splendide vittorie esterne contro Houston e Utah. Se mai Detroit dovesse riuscire a limare questo difetto di mentalità, che è poi la differenza tra una franchigia vincente e una mediocre, le ambizioni di approdare alla post-season senza l’etichetta di vittima sacrificale sarebbero da considerarsi più che legittime.

INDIANA PACERS (23-22). Basteranno sei sconfitte nelle ultime sette partite a dichiarare la parola “crisi” ? Probabilmente no, ma ci siamo quasi. Dopo un periodo scintillante che li aveva portati addirittura ad occupare la terza posizione, i Pacers sono ora scivolati in all’ottavo posto nella classifica della Eastern, palesando probabilmente il momento più nero della stagione. Il motivo? Sempre lo stesso, ossia l’incapacità di gestire i finali di partita e di portare a termine tutto il buono generato grazie alle tante armi a disposizione di coach Vogel. Se in più aggiungiamo un fisiologico appannamento da parte del fin qui mostruoso Paul George (si fa per dire visto che, dopo alcune gare sottotono, contro i Clippers ne sono arrivati 31 e contro i Kings 34) e l’assenza per tre partite di Ian Mahinmi, unico centro di ruolo di una squadra votata alla small ball e proprio per questo cruciale, soprattutto negli equilibri difensivi, ecco che si spiegano i risultati davvero preoccupanti delle settimane appena trascorse. Da capire come e se Indiana riuscirà a venir fuori da quest’empasse che rischia di diventare particolarmente critica. Nel grigiore generale, tuttavia, un motivo per cui sorridere, ossia Myles Turner. Il rookie da Texas scelto alla 11 sta gradualmente esplodendo e svelando tutto l’enorme potenziale a disposizione. Chiedere ai Nuggets, ai quali ne ha rifilati 25, e soprattutto ai Warriors, contro i quali ha messo a segno un fantastico, seppur inutile, career high da 31 punti.

MILWAUKEE BUCKS (20-27). Nel momento in cui tutte le altre squadre della Division mostrano più segnali negativi che positivi, i tanto bistrattati Bucks di questo pessima prima metà di stagione danno qualche parvenza di risveglio, vincendone sei delle ultime dieci. Alla vigilia del ritorno in panchina di coach Kidd dopo l’operazione subita, questo pseudo-filotto positivo sembra essere la giusta iniezione di fiducia per una squadra che proverà a vendere cara la pelle da qui ad aprile. Milwaukee pare infatti aver trovato un minimo di continuità nel proprio gioco, soprattutto grazie alla leadership di Middleton (23,3 di media negli ultimi sei incontri) e al rendimento finalmente positivo di Monroe (anche lui salito a 20 punti e poco più di 10 rimbalzi a partita). Positivo e subito d’impatto, inoltre, il rientro dall’infortunio di Jerryd Bayless, giocatore dal medio talento, ma prezioso per la sua capacità di offrire varietà e mix di esperienza a un attacco troppo basato sull’atletismo. Chissà che in realtà, in fondo al tunnel e in ottica play-off, qualche speranza per una squadra da noi stessi data per spacciata fino a due settimane fa non possa ancora esistere.