Siamo giunti all’ultimo appuntamento del 2015 con il nostro Division Report. In particolare, ci lasciamo alle spalle il “vecchio” anno parlando di una Central in cui le festività si sono rivelate meno benevole delle attese per le cinque squadre coinvolte, portando sotto l’albero notizie non del tutto piacevoli.

CLEVELAND CAVALIERS (21-9). L’ultima volta avevamo parlato, forse con tono un pò severo, di come i ragazzi di coach Blatt stessero praticamente “vivendo di rendita” in una Eastern Conference povera di stimoli. Allo stesso modo, oggi, dobbiamo invece riconoscere come Cleveland abbia dato alcuni segnali importanti, seppur solo in parte premiati dai risultati. Il tanto atteso re-make delle Finals contro i Golden State Warriors, andato in scena a Oakland nel Christmas Day, ha sì visto i campioni NBA in carica portare a casa la vittoria, ma in una maniera del tutto inattesa. Impostando la partita su una difesa tosta e organizzata, i Cavs hanno infatti tenuto il miglior attacco della Lega sotto i 90 punti (89, quasi 25 in meno rispetto ai mostruosi 114,8 a gara finora realizzati) e a tirare con un negativo 27% da tre punti (vs il 42% di media in stagione). Soprattutto, però, hanno costretto il marziano Steph Curry di questo 2015 alla sua seconda peggior performance in stagione (19 punti, con 6 su 15 dal campo), dimostrando che, a dispetto dell’esito finale, Cleveland resta forse l’unica squadra in grado di rompere l’incantesimo vincente di Golden State.

Kevin Love: i Cavs si aspettano di più dal suo rendimento.

Kevin Love: i Cavs si aspettano di più dal suo rendimento.

Senza dimenticare, tra l’altro, che si è trattata solo della terza partita con in campo Kyrie Irving, ancora lontano da un pieno recupero (per lui, però, una più che positiva prestazione da 22 punti, tre giorni dopo, nella sofferta vittoria a Phoenix). A voler riassumere, considerando che il match contro i Warriors era stato preceduto da sei vittorie in fila (una di queste contro OKC), le premesse sono senza dubbio ottimistiche per una squadra di enorme potenziale, vicina al trovare il proprio assetto migliore, ma che ha necessità di imparare a gestire meglio la pressione (lo 0/11 da tre punti collezionato da Irving e Love contro Golden State grida inevitabilmente vendetta).

CHICAGO BULLS (18-12). Crisi d’identità e risultati alterni. Questo il leit-motiv dei Bulls nella prima parte di regular season, conclusa con un record non propriamente confortante (60% di vittorie). Eppure qualcosa nell’ultima settimana sembra essere cambiato. Derrick Rose (assente nel match della scorsa notte contro i Pacers per un risentimento al tendine del ginocchio, si spera nulla di grave), tolta finalmente di dosso la “maschera” protettiva, è reduce da un filotto di 22 di media nelle ultime tre gare, in cui ha saputo mettere in mostra un’efficacia e un ritmo offensivo degni della sua fama, risultando peraltro decisivo nei momenti cruciali. È chiaro a tutti, soprattutto dopo i convincenti successi con i Thunder (in trasferta) e con Toronto, come dalla sua costanza e produttività in attacco dipendano le sorti di una Chicago consapevole dei propri problemi, che non vuole però tirarsi fuori dalla lotta per il titolo. Emblematiche le dichiarazioni di Jimmy Butler al termine della maratona contro i Pistons (quattro Overtime e sconfitta per 147 a 144) in cui la stella dei Bulls ha espressamente affermato che “Hoiberg dovrebbe essere più duro con la squadra“, quasi a voler spronare l’intero ambiente, coach in primis, a recuperare l’energia e l’intensità che sono nel DNA di questo gruppo. Risultato? Un team scosso e rigenerato. E chi meglio di Noah e Gibson a guidare questa rinascita? I due veterani della città del vento, oggetto di assurde voci riguardanti una presunta trade, si sono invece caricati i Bulls sulle spalle e hanno contribuito in maniera fondamentale alle ultime vittorie, al pari del rookie Bobby Portis, sempre più in ascesa partendo da una panchina che, tra i vari Snell, McDermott, lo stesso Noah e soprattutto un superbo Brooks (29 punti nello scontro diretto contro i Pacers, miglior realizzatore della gara) sta diventando l’arma in più di una Chicago desiderosa di rivincita. E a proposito di Butler, assolutamente da vedere il tap-in volante in alley oop con cui ha deciso, all’Overtime, il match della nottata appena trascorsa, a spese di Indiana e di un attonito Paul George.

INDIANA PACERS (18-13). Ok, sicuramente Indiana avrebbe potuto e dovuto ottenere di più nel trittico (insidioso) di partite contro Memphis, San Antonio e Sacramento, dal quale sono invece maturate tre sconfitte dolorose (in particolare quella casalinga contro i Kings). Ciò nonostante, in casa Pacers c’è di che essere soddisfatti. Innanzitutto per la vittoria contro Atlanta, una della più serie concorrenti ai primi quattro slot disponibili per i Play Off , i quali, a questo punto, sono ormai diventati l’obiettivo dichiarato per Paul George e compagni. In secondo luogo e soprattutto, per il percorso fin qui intrapreso, impensabile ad ottobre, quando a regnare erano per lo più le incognite e gli scetticismi. Dopo un primo periodo di comprensibile difficoltà, infatti, dovuto a un necessario cambio di rotta verso una small ball mai praticata in precedenza dalla franchigia di Indianapolis (contraddistinta, semmai, da un approccio diametralmente opposto negli anni di Hibbert e West), la rivoluzione ha avuto i suoi effetti. I Pacers sono infatti l’ottavo miglior attacco della Lega (102,04 punti a partita) e la quarta squadra con la miglior percentuale dall’arco dei tre punti (36,8%), a testimonianza di un approccio quasi completamente metabolizzato dai ragazzi di coach Vogel. Last but not least, per il rendimento di Monta Ellis (spiccano i 22 contro i Timberwolves e i 26 contro gli Hawks), finalmente innalzatosi ai livelli che la dirigenza si attendeva. Con queste credenziali Indiana, priva delle aspettative e delle pressioni che incombono su rivali dirette come Chicago, Atlanta e Miami, può certamente usufruire di un vantaggio in partenza.

DETROIT PISTONS (17-15). Nonostante altre prestazioni “monstre” da parte di Andre Drummond (quella da 22 rimbalzi e 22 contro i Celtics rappresenta già la quinta volta in stagione in cui il prodotto da Connecticut supera quota 20 in entrambe le statistiche) i Pistons hanno ormai un trend consolidato che si attesta sul 50% circa di vittorie. A buone/ottime performance, infatti, come quelle contro Miami, Boston e Chicago (quest’ultima, una fantastica e interminabile odissea conclusasi solo al quarto Overtime, con Drummond e Jackson autori rispettivamente di 33 e 31 punti), Detroit alterna sistematicamente altrettante strisce negative, come l’ultima, emblematica, che ha fatto infuriare coach Van Gundy in particolare per la tenuta difensiva dei suoi, commentata al termine della sconfitta al Garden contro i Knicks con un eloquente: “In difesa non abbiamo combinato nulla!“. Del resto, è da inizio stagione che sottolineiamo come il talento e le opzioni offensive non manchino affatto ai ragazzi dell’Oregon, mentre è giusto che Van Gundy punti in maniera forte l’attenzione sull’applicazione nell’altra metà del campo, dove i Pistons si giocano inevitabilmente le loro chances di provare a crescere in quanto gruppo, requisito indispensabile per accedere alla Post Season.

MILWAUKEE BUCKS (12-21). 6 sconfitte nelle ultime 8 gare, e un record ormai stabile al 36/38 %, sono un risultato davvero troppo negativo per poter pensare a un recupero miracoloso. Non tanto per la distanza accumulata rispetto alle altre franchigie, quanto per la scarsa qualità che i Bucks mettono in campo ad ogni apparizione. Sembra davvero incredibile pensando a quanto Milwaukee fosse brillante e divertente solo pochi mesi fa, nell’ottimo turno di Play Off disputato contro Chicago, eppure è la nuda e cruda realtà. Kidd non sta riuscendo in alcun modo a creare un assetto offensivo degno di questo nome, affidandosi quasi esclusivamente all’atletismo e all’estemporaneità dei suoi interpreti. E per quanto anche in Wisconsin le qualità non manchino, a latitare è invece un’idea di gioco concreta, una strategia di fondo che sia diversa dal vivere solamente delle invenzioni di Jabari Parker e Chris Middleton, con un Antetokoumpo apparso in preoccupante involuzione a dispetto delle statistiche (15,6 punti a partita, massimo in carriera). Così come, anche difensivamente, continuano a vedersi amnesie e scarsa coesione, quando sarebbe lecito invece, da un team così giovane, aspettarsi un’aggressività di tutt’altro tipo. Sarà forse il caso, per evitare di disperdere tempo ed energie, che i Bucks pensino già a ricostruire per la prossima stagione?