Andrea Beltrama

Un sabato come gli altri nella metropoli. La blue line ci scarica nella lingua di cemento in mezzo alla Eisenhower Expressway, l’arteria impestata di traffico e rumore che collega downtown ai sobborghi occidentali. Un lungo cavalcavia per passare sopra alle corsie, e arriviamo alle porte del campus di UIC. L’acronimo sta per University of Illinois at Chicago, ed è già una piccola beffa. Quando si dice University of Illinois, infatti, tutti pensano alla sede principale di Urbana-Champaign, 200 km di campi di mais a sud della Wind City. Un luogo che ha prodotto decine di icone nell’immaginario collettivo degli appassionati di basket americano. Deron Williams, la Assembly Hall, l’arancione intenso dei Fighting Illini. A nessuno, invece, neanche per sbaglio, viene in mente questo fazzoletto urbano di Chicago, denso di cemento, racchiuso tra i grattacieli del centro e i quartieri un po’ lugubri del West Side. Quello di UIC è un campus secondario, anonimo. Sfigatello, in altre parole, come tutti i North Carolina-Asheville e California-Davis di questo pianeta. Se non ci fossero, non se ne accorgerebbe nessuno. Quasi nessuno.

I due idoli più recenti passati da queste parti si chiamano Josh Mayo e Scott Vandermeer. Non proprio John Wall e DeMarcus Cousins. Mayo era un play afroamericano di 1.70, fulmineo, sgusciante, realizzatore. Vandermeer un perticone bianco di 2.12, mani apprezzabili, tempi di esecuzione biblici, e il gusto della stoppata. Assieme formavano una specie di articolo IL, un buffo pick and roll ambulante. Usciti nel 2009, il primo è finito a Mykolaiv, in Ucraina, dopo uno sfavillante anno in Lega Baltica. Il secondo ha tentato fortuna in Svizzera e in Romania, prima di trovare la sua dimensione come dodicesimo uomo nei Maine Red Claws, in NBDL. La NCAA è sconfinata, complicata, piena di pieghe inesplorate. Per una Kentucky ci sono venti UIC. Per una conference che raccatta miliardi, ce ne sono cinque che pagano perchè le tv locali trasmettano le partite. E per una prima scelta NBA, ci sono centinaia di ragazzi che devono adattarsi a tutto pur di continuare a giocare. Soprattutto se escono da un posto come UIC.

Arriviamo alle porte del palasport da Racine Street. Si chiama UIC Pavillion, premio Nobel alla fantasia. Cinquecento metri più in là si vedono le luci del Rush Hospital, davanti al quale si erge lo United Center. Lì, alla sera, ci sarà Bulls-Knicks, con 22mila spettatori, il Belinelli in stato di grazia e le frotte di  white guys in the media che affollano le sale stampe NBA, soprattutto nelle partite di cartello. Della sfida pomeridiana tra gli UIC e Colorado State nessuno è a conoscenza. Ma il pomeriggio è giovane, il sole ancora alto nel cielo, anche se nascosto dalle nuvole basse che ancora puzzano di autunno. E questo famigerato campus grigio di anonimato è tutto da esplorare. Vediamo tre-persone-tre avvolte in sciarpe rossoblu. “Gli ultrà di UIC” commenta divertito l’amico Simone Donei, compagno di avventura di questo pomeriggio di palla a spicchi. Arrivati all’ingresso stampa, non c’è traccia dei nostri pass. Avevamo mandato una richiesta di accredito precisa e ordinata, e l’addetto stampa di UIC, tale Brett McWethy, ci aveva risposto  “tutto a posto”. E invece no. “Niente, non vedo il vostro nome” ci dice la tipa seduta al tavolo, senza nemmeno abbozzare un cenno di dispiacere. Stava ripassando delle slides, evidentemente in vista degli esami di fine semestre.  Dopo due minuti arriva Brett in persona, trafelato. Si scusa, ci spiega che c’era stato un disguido, che l’organizzazione ogni tanto ha dei buchi. Noi non indaghiamo. Brett ci scorta a bordocampo. “Non ho fisicamente più pass da emettere, ho finito la carta. Ma non ci sono problemi, sedetevi qui e godetevi la partita” ci dice, indicandosi un tavolo intovagliato di nero che poggia praticamente sulla panchina degli ospiti. Nelle arene NBA la stampa, a parte pochi eletti, viene sbattuta al terzo anello, a distanza di binocolo. A UIC finire a bordocampo è la norma. E i rumori del parquet, le sensazioni, le facce dei giocatori così da vicino hanno sempre il loro fascino. A qualunque livello.

La partita, come premesse, non è nemmeno delle peggiori. UIC è reduce da una sorprendente vittoria in trasferta contro la ben più quotata Northwestern. Colorado State ha distrutto Washington e ha perso solo con la rivale statale Colorado. L’UIC Pavillion è grande, viene usato anche per concerti ed eventi extrabasket. Difficile vederlo pieno, ma il primo anello offre un colpo d’occhio decente. Prima della partita, l’inno nazionale. Cantato da nientemeno che Miss Chicago 2012, anche se noi, come al solito, durante l’inno siamo troppo impegnati a cercare di associare le maglie dei giocatori al loro nome, e a Miss Chicago dedichiamo solo uno sguardo fugace, promettendoci di ricontrollare all’intervallo, magari a distanza più ravvicinata. Ovviamente ci dimenticheremo di farlo, segno che la faccenda non era così importante. L’altra cosa che colpisce l’attenzione è la mascotte di UIC, un drago rosso che lancia fiamme e molesta qualunque spettatore in tribuna prima che la partita inizi. Colpito da un attacco patriottico, scende in campo e si attacca alla fila dei giocatori, mano sul petto e muso verso la bandiera. Il richiamo della land of the free è troppo forte anche per lui, che pure potrebbe incenerire la bandiera con uno starnuto.

Alle ore 15.07 si parte. Palla a due alzata, primo possesso per i Flames. Il pubblico prova a spingere, gli studenti riempiono chiassosamente tutto il loro spicchio, dietro alla panchina dei padroni di casa. Sarà una partita che non interessa a nessuno, ma dentro all’arena ci sono 3380 spettatori.  Poco-medi, per una partita di NCAA, anche di questo mediocre livello. Ma sono sempre più o meno quanti andrebbero a palazzo a Treviso o a Milano per una partita di Eurolega importante, segno che anche il concetto di devotion, come il movimento dei corpi in fisica, è sempre relativo. La partita è fisica, lenta, vittima del tentativo di entrambi gli allenatori di forzare uomini e risorse dentro un gioco controllato. Un costume diffuso nella patria dei 35’’ per chiudere l’azione.  All’intervallo siamo 21-19 per i padroni di casa. Ma nessuno chiede indietro i soldi del biglietto.

Eustachy (AP Photo)

In verità, dalla nostra postazione annoiarsi è praticamente impossibile. Perchè a pochi centimetri da noi il coach di Colorado State Larry Eustachy mette in piedi uno spettacolo mozzafiato, almeno per noi che non abbiamo niente a che fare con i suoi attacchi d’ira. La squadra parte 6-0, ha ritmo, sembra in controllo. Poi arriva la prima palla persa, su una banale incomprensione per un passaggio consegnato. Damn it! E’ il grido di Eustachy, che si alza per un secondo dalla sua sedia. Azione successiva, altra palla persa. Il coach si alza ancora, punta un assistente, gli mette una mano sulla spalla. Can’t  believe we can’t fucking run this fucking motion offense. Tradotto: abbiamo qualche problema tecnico con il nostro attacco. L’assistente sbianca. Passano due minuti, arriva una dormita a rimbalzo. Eustachy si alza, ancora. Pesta i piedi per terra come un bambino che non vuole mangiare il minestrone. La sedia traballa. Il coach si avvia verso i malcapitati giocatori in fondo alla panchina, innocenti in quanto inutilizzati. Look at me! It’s all about fucking toughness! Fucking toughness! sibila, con la voce in crescendo e un ghigno degno del peggior Obradovic. Verso la fine della prima frazione, proprio quando UIC trova il pareggio, Eustachy chiama time-out. Si invola in mezzo al campo, senza nemmeno aspettare che il gioco si fermi. Squadra tutti i giocatori in campo. Appena si siedono lancia la lavagnetta nel mezzo delle sedie riunite in cerchio. Si sente un rumore sordo. Per fortuna è l’impatto dell’oggetto contro il parquet, e non contro la calotta cranica di un giocatore.

Le scenate, purtroppo per gli ospiti, non servono. Da lì in poi le cose andranno solo peggio. Colorado State prende un parziale decisivo verso la fine della partita. Su uno sfondamento dubbio fischiato contro un suo giocatore, il coach parte verso il tavolo, entra due metri in campo e inizia a urlare di tutto agli arbitri. Tecnico immediato, poi ci vogliono tre assistenti a portarlo via. Negli ultimi due minuti, con la sconfitta acquisita, l’ultima perla di saggezza, rivolta all’ennesimo panchinaro senza colpe.  I’m not fucking used to people who can’t fucking play this fucking game. Traduzione con censura incorporata: Non sono abituato a gente che non sa giocare a basket. In poche parole, come farsi volere bene dai propri giocatori. Sia chiaro, non prendiamoci in giro: le F-words vengono usate da tutti i coach, indistintamente. Anche da quelli che poi, in pubblico, ringraziano Dio ogni tre parole. Ma un uso così sistematico, così cattivo, così iroso non l’avevamo mai visto, almeno da questa parte dell’Oceano. Almeno come atteggiamento, abbiamo trovato l’erede di Bob Knight. Quanto al resto, è ancora un po’ presto per capire.

Eustachy a parte, il secondo tempo è più gradevole del primo. UIC piazza la zampata decisiva grazie a una difesa a zona molto aggressiva sugli angoli, che produce recuperi e punti in contropiede che gasano il pubblico di casa. Prima della fine,  l’amico Brett si precipita da noi. “La conferenza stampa è in fondo a destra, se venite ci fa piacere”. In sostanza, una via di mezzo tra un invito e una richiesta. Finisce con Howard Moore, coach dei padroni di casa, a ringraziare il pubblico col microfono. “Siete la migliore student section del paese”. L’iperbole è un classico. E’ quello che qualsiasi allenatore di college direbbe ai suoi studenti-tifosi. Tutti lo sanno, tutti fingono di crederci. Dopo la partita, quattro giornalisti assistono ai commenti dell’allenatore in una sala stampa di 3 metri quadrati. Uno ha un complicato trepiedi su cui poggia grottescamente una fotocamera digitale. E’ un modello di 10 anni fa, ed è l’unica cosa che ricordi vagamente una videocamera. Per UIC è l’ottava vittoria su nove partite, ma il giorno dopo nessun media principale ne parlerà. L’oblio da campus satellite è anche l’oblio di una città satura di squadre e di sport, che non ha tempo di parlare dei suoi figli minori. Peccato. O forse meglio così, per chi ha la voglia di andare alla scoperta.