freedom tower

Ny protesa verso l’infinito (foto C.Perotti)

New York città sospesa.

Sospesa fra un autunno cui colori sono stati bloccati dall’arrivo di un‘aria glaciale che ha imbiancato Buffalo a nord ma ha cristallizzato il respiro e le idee della gente della Grande Mela, gente che comunque continua a non fermarsi mai – “The city that never sleeps”  – anche quando l’attesa del Thanksgiving Day, che verrà festeggiato domani, rimanda Natale e le sue luminarie alla prossima settimana ed il grande albero del Rockfeller Center è ingabbiato in una grande impalcatura così come la vicina cattedrale di San Patrizio che nasconde i suoi gioielli gotici come un grattacielo in costruzione qualunque.

E nelle sue ri-costruzioni New York City trova la spinta per librarsi fuori dal pantano. Così una semplice ma geniale idea come la High Line, una vecchia linea sospesa (ecco che ritorna il concetto di sospensione) del metrò divenuta una bella passeggiata per famiglie, rivitalizzando una parte della città sennò triste e decadente e dalla sua ferita più violenta, quella del 11 Settembre, nasce la Freedom Tower squadrata come un diamante prezioso, vertiginosa e spaventosamente protesa verso l’infinito nella sua facciata ovest che sorge dinanzi ai due Pools nati nei buchi dove la follia dell’uomo ha fatto crollare le Twin Towers, due pozzi quadrati che originano attorno ai nomi in granito dei morti di una guerra assurda, perché questa è una guerra strisciante, dai quali scorga acqua come lacrime che cadono in un pozzo nero senza fondo perché l’America non vuole dimenticare questa volta.

Un triste sacrario. Come un ossario può esser considerato il vecchio, per gli standard americani, Madison Squadre Garden, dove armeggiano i tristi Knicks, che si nasconde bronzeo e pudico dietro al parallelepipedo che si innalza dalla Penn Station. Ma noi siamo venuti a vedere il college basketball, non i lustrini della NBA, e le semifinali del 2K Classic non hanno attirato un grande pubblico tanto da spostare per ragioni televisive tutti gli spettatori del secondo anello dal lato fronte alle telecamere.

Nella prima semifinale vi sono forse più tifosi degli Hawkeyes di Iowa certamente più agguerriti dei pochi di Texas che però si rinvigoriscono mostrando le corna, non per disprezzo ma come simbolo dei Longhorns, alle telecamere appena possibile, c’è anche quel simpaticone di Dick Vitale, di gran lunga la celebrità sportiva più pronta a fare selfies coi tifosi e due squadre agli opposti: Iowa ha quattro bianchi bradicardici in quintetto ma gioca un basket pulito ed essenziale al servizio del rosso Aaron White che somiglia ad un giovane Matt Bonner non solo per il colore dei capelli ma anche per le buone mani unite ad una mobilità eccellente e doti di salto non disprezzabili così mentre White domina in campo i Longhorns non vi capiscono nulla mettendosi in luce solo per l’insensato concetto secondo il quale difendere equivale a stoppare. Nella ripresa però qualcosa cambia. Texas che è una squadra tremendamente più atletica all’improvviso diventa debordante per i pallidi Hawkeyes: il play, oddio chiamarlo play è una bestemmia, Isaiah Taylor continua a non vedere o servire i compagni ma diventa inarrestabile in penetrazione e solo un polso spezzato dopo una brutta caduta lo ferma e Jonathan Holmes si mette a fare il senior e con tiri dall’angolo e penetrazioni sulla linea di fondo corona la furiosa rimonta di Texas che vince facile.

Doolin

Cody Doolin (foto C.Perotti)

La seconda partita vede poi la squadra di casa ovvero Syracuse. In realtà l’università è sì nello stato di New York ma ben lontana a Nord e forse la neve a Buffalo unito al fatto che il niuiorchese medio non è un gran tifoso di college basketball, anzi probabilmente Duke o North Carolina hanno molti più tifosi dei locali Saint John’s, di gente ce n’è comunque pochina. Saranno poi 7-8000 ma nel MSG non fanno una gran figura. Qualche tifoso arancione però c’è e se ne torna a casa scornato dopo aver visto in campo una squadra senza senso col solo freshman Chris McCullough, gran talento, e con Michael Gbinije a dare segni di vita mentre Syracuse soccombe nettamente contro una sorprendente California del nuovo coach Cuonzo Martin. Il giorno successivo poi ci sarebbero le finali ma “we don’t care” perché il main course si trova a Brooklyn…

Se il MSG è anzianotto, bolso e brontolante come un vecchio che percorre nostalgico il suo sunset boulevard invece il Barclays Center è una space mothership atterrata sulla Atlantic Avenue, la via principale di Brooklyn, ed è affascinante come una sexy tecno-aliena immaginata da Gene Roddenberry, il suo patio aperto s’illumina coi led e ti risucchia come un buco nero verso la hall, una volta superati i controlli di routine si cammina circondati da mini ristoranti che paiono più appetitosi di quelli del Garden, certamente più variati, sino a discendere sino alle nostre poltroncine nere dietro alla panchina di colui che nel cuor ci sta.

Oddio, prima ci sarebbe pure Stanford impegnata a strapazzare la povera UNLV. Con un play esperto come Chason Randle ed il rigidissimo, si potrebbe dire che si muove come se avesse una scopa nel culo, ma efficace centro di 2.11 da Novi Sad Stefan Nastic i Cardinal di Johnny Dawkins non hanno difficoltà nel portare il loro coach in finale contro il suo maestro. Ma qualcosa fra i Rebels di Vegas va annotato. Oltre a Christian Wood che per caratteristiche ci ricorda clamorosamente Maceo Baston c’è un ragazzino di nome Cody Doolin in campo: bianco, piccolino e con la frangetta. Nel giro di un’ora questi sono i nostri commenti:

Ma che cazzo ci fa un liceale in campo?”

“Ma lo sai che non è male? Ed è addirittura un senior, lo scorso anno ne fatturava oltre 11 a San Francisco”

“Peccato per il fisico perché questo sa giocare fottutamente bene”

“Sai che ha un aria da vera carognetta? Mica si fa mettere sotto questo…”

“Non sbaglia i tempi dei passaggi, se deve tirare segna ed in difesa è rognosetto…”

“Sai che ti dico, questo è forte, fotteunasega anche se è un microbo”

“Ho deciso di fondare il Cody Doolin Fan Club”

Jahlil Okafor foto C.Perotti)

Jahlil Okafor foto C.Perotti)

Alle 21.30 poi si riempie il palazzetto, almeno il primo anello, sappiate che è ufficiale: New York è piena di tifosi ed ex alunni di Duke e sabato in finale lo si vedrà appieno. Al nostro fianco si siede un vecchio amico. Si chiama Ken Dennard e la prossima settimana la sua maglia resterà per sempre appesa sul soffitto del Cameron Indoor Stadium. Ha giocato anche a Forlì, che ricorda con affetto, ed ora fa l’uomo di affari a Houston ma, fra i vari ex giocatori di Duke, è nettamente quello più assiduo frequentatore delle gare dei Blue Devils “This is the best Duke team… ever…” ci dice, un po’ azzardato per essere solo in Novembre ma forse Big Dog non ha tutti i torti. Duke trita Temple e mai, ma proprio mai dà impressione di poter perdere la gara. Nemmeno il giorno dopo in finale con Stanford che ci aveva impressionato positivamente.

Quello che stupisce è l’incredibile maturità di una squadra zeppa di freshmen: tralasciando Grayson Allen, che è un interessante prospetto pluriennale, vediamo Tyus Jones giocare in pieno controllo senza mai strafare per cercare punti personali ma badando solo a trovare i compagni e Jahlil Okafor, che pure fatica un po’ ad ingranare a volte incartandosi nella bellezza dei suoi movimenti, dà quella sicurezza sotto canestro che la scorsa stagione non si era mai vista anche perché questa edizione di Duke difende pure. I solisti Jabari Parker e Rodney Hood e la NON-Difesa dello scorso anno sono ricordi sbiaditi. Poi c’è quello che impressiona di più ovvero Justise Winslow, a sorpresa il giocatore più pronto (che il nostro Cabras vi spiega benissimo qui) e non avendo quei problemi a tirare da fuori che gli analisti preconizzavano diventa immarcabile con quella sua potenza abbinata al controllo ed alle magie balistiche che solo i mancini sanno ricreare. Poi c’è Quinn Cook, il capitano, che spostato a guardia tiratrice sembra tanto il suo grande amico Nolan Smith. A questa Duke manca forse un po’ di apporto dalla panchina dove Rasheed Sulaimon è ancora un po’ troppo discontinuo, Matt Jones è certamente più solido pur avendone metà del talento e Marshall Plumlee fatica a fare quello che gli si chiede ovvero sportellate e legna sotto i tabelloni ma onestamente, pur essendo solo impressioni di Novembre, ci pare in grado di andare profonda in Marzo. Molto profonda.

Duke vince su Stanford con un filo di gas con Cook MVP del torneo grazie alle sue triple che lo rendono miglior realizzatore della finale, e la gente in royal blue esce dall’astronave per infilarsi sulla linea Q della subway piuttosto rassicurata ed eccitata. Dalle rovine della figuraccia rimediata al Torneo NCAA dello scorso anno Duke si è rigenerata. Duke allora Araba Fenice come gli stessi Stati Uniti d’America che risorgono dalle macerie del World Trade Center mirandosi con orgoglio le proprie ferite, che risalgono le secche delle crisi economiche rimboccandosi le maniche invece di sbrodolarsi addosso decreti legge e patti di stabilità, che non dimenticano i propri ragazzi mandati in guerre magari inutili. Gli Stati Uniti dove la gente canta il proprio inno prima della gara con la mano sul cuore invece di sbuffare quando si tratta di alzarsi dal seggiolino. Un’America non perfetta ma che ama la sua Patria ed i suoi eroi, sui campi da basket ed altrove.

This is America.