Ho letto con molto interesse e anche, devo confessare, un po’ di fastidio i vostri commenti sul blog in merito all’assoluto no-basket che si vede nei tristissimi playoff dell’NBA che si svolgono nello scudo spaziale di Orlando. Tutto giusto, per carità, soprattutto il pezzo scritto da Dan Peterson che è da condividere assolutamente in toto. Quello che mi dà fastidio, come detto, è il fatto che il sottoscritto queste cose le scrive da almeno 25 anni, esattamente negli stessi termini, e il fatto che quanto lui si ostina a scrivere da tempo immemorabile debba essere legittimato da qualche autorità esterna che ci arriva appena adesso, ecco, un po’ mi urta.

Per esempio nel ’95 scrissi un pezzo per i Giganti intitolato “Perché odio Shaquille O’Neal” nel quale rabbrividivo assistendo al suo famoso rap nel quale prendeva in giro quelli che pretendevano che lui giocasse a basket e affermava che quello che la gente voleva era che lui schiacciasse e divellesse il canestro ogni volta che gli si avvicinava. Ogni volta che lo sentivo mi veniva da urlare: “Do you want me to shoot?” “Yes!!” ”Do you want me to dunk?” ”Who f…. cares!!”. Mi era apparso chiaro che il basket, una volta spostato il suo humus originale dal college ai playground da ghetto, stesse prendendo una piega deleteria che l’avrebbe portato alla distruzione. Esattamente quello che è poi puntualmente successo.

Piccola puntualizzazione: quanto detto sopra potrebbe essere interpretato in senso razzista nel senso, ecco questo qui deride i neri del ghetto e esalta i wasp bianchi dei college. Non è certamente un problema di colore della pelle, ma di istruzione e livello sociale. Se qualsiasi cosa, come per esempio oggigiorno la politica in Italia, viene presa in mano da buzzurri ignoranti e di conseguenza  presuntuosi non può che andare a ramengo. Si innesta un terribile circolo vizioso, per cui gli ignoranti, che sono la stragrande maggioranza dell’umanità, trovano in quelli che parlano loro anime gemelle, vedono che parlano come loro, cioè per concetti rudimentali e slogan e dunque  sparano cazzate a raffica, per cui si crea un’immediata solidarietà che, penso anche per autodifesa, porta a denigrare e emarginare tutti coloro che vorrebbero fare i dovuti distinguo, a enumerare fatti e non slogan, a discutere su cose reali e non velleitarie, porta insomma a denigrare la conoscenza e la cultura. “E’ cosa da professoroni che discutono di sesso degli angeli, a noi che ce ne frega, noi vogliamo sicurezze subito!”

Un’altra cosa che proprio non riesco a digerire è che tantissimi, anche cestisticamente molto istruiti e non certamente ciecamente modernisti, continuano a dire che il rifiuto totale dell’attuale NBA è frutto di pregiudizio e di convinzioni aprioristiche dovute alla peculiare mentalità della scuola slava. Aldo Giordani starà ora amaramente sorridendo vedendo che la sua amata scuola americana si è convertita alla sua tanto esecrata “kukkozia”. Uno di scuola jugoslava dovrebbe dunque essere ora felice di vedere che gli americani si sono convertiti al tanto denigrato corri-e-tira che veniva imputato agli jugoslavi. In questo contesto basti ricordare il famoso Cibona della metà degli anni ’80 che teneva Čutura solo sotto canestro mentre gli altri quattro si mettevano a circolo sulla linea del tiro da tre e il primo che era solo fra i due Petrović, Ušić, Cvijetičanin, Bečić o financo Nakić sparava da tre senza pensarci neanche una mezza volta.

E ciò proprio mentre l’NBA viveva in quegli anni il suo momento d’oro che a questo punto penso proprio che rimarrà nella storia come il periodo d’oro, quello che diventa leggenda, del basket. Qualche settimana fa l’amico Raffaele Baldini mi chiese quale era secondo me il quintetto di tutti i tempi del basket. Non ho avuto problemi nello sciorinargli in pochi secondi un quintetto con Magic play, MJ guardia, Larry ala piccola, Russell ala forte e Jabbar sotto canestro. “Tutti americani e nessun europeo?” mi ha chiesto meravigliato conoscendomi. “Scherziamo?” gli ho risposto “quando si parla dei più forti, se si vuole essere seri, non si può prescindere dagli americani”. Eventualmente un europeo lo metterei magari nel secondo quintetto: ovviamente Ćosić quale ala forte con “Big O” Robertson (o Bob Cousy) play, Jerry West guardia, Doctor J ala piccola e Chamberlain centro. Lo penso veramente, con grande convinzione. Però si parla di americani dell’età d’oro e non certo di quelli di adesso.

Tornando alle schifezze che si stanno vedendo ad Orlando penso che abbiate già scritto e detto quanto andava di dire voi nei vostri commenti che, devo confessare, mai come stavolta mi sono piaciuti perché avete sviscerato ogni angolo del problema rendendo benissimo un’immagine plastica e multidimensionale dello scempio a cui stiamo assistendo. Non solo, ma in molte conclusioni a cui siete arrivati e nelle valutazioni dei giocatori che avete visto siete esattamente in linea con quanto penso io.

A questo punto mi sembra quasi irreale commentare quanto letto non avendo nessuna polemica, neanche amichevole, da alimentare con nessuno su proprio nessun tema. Fra l’altro, per ragioni che penso tutti voi potete comprendere, la mia attenzione sportiva è rivolta attualmente in modo praticamente esclusivo agli Internazionali open di Slovenia di ciclismo che si stanno svolgendo in Francia, per cui delle Finals NBA non potrebbe, emotivamente, in questo momento fregarmi di meno.

Forse è meglio così, perché riguardo al basket sono emotivamente del tutto indifferente, e dunque posso essere obiettivo nel giudicare quanto succede, non essendovi coinvolto in alcun modo. Sono cioè nella situazione del famoso entomologo che osserva attraverso la lente l’atto dell’accoppiamento fra insetti e prende appunti.

E allora cosa vedo attraverso la mia lente? Intanto vedo, prendendola alla larga, che il concetto di basket come gioco di squadra che si gioca in cinque contro cinque è stato completamente abbandonato. In ogni momento chiave della partita l’idea è che a prendersi in mano le sorti della squadra debba essere il fenomeno, l’uomo copertina che palleggerà fino allo sfinimento con quattro compagni che stanno a guardare e che poi tirerà indipendentemente dal fatto che sia o meno un tiro perfettamente del piffero. Attenzione, per essere chiari: se pensate che mi sia esaltato quando Dončić ha imbucato da otto metri il canestro della vittoria in gara quattro contro i Clippers vi sbagliate di grosso. Per me concettualmente è stata un’azione che non avrebbe dovuto esistere. Sotto di due, intanto non mi fa schifo andare al supplementare, per cui, sapendo che tutti avrebbero concentrato la loro difesa su Dončić, avrei escogitato un sistema per fare in modo che uno degli altri tiratori rimanesse libero in una posizione buona per segnare, imponendo al buon Luka che sa passare la palla meglio di chiunque altro in questo momento nell’NBA, di leggere la situazione e di recapitare il pallone a quello che avrebbe reputato meglio piazzato. Ecco, se avesse fatto ciò, allora sì che lo avrei esaltato, nella fattispecie invece che abbia segnato non avrebbe potuto fregarmi di meno e comunque a fine partita l’avrei preso a calci in culo.

La cartina di tornasole che mi fa credere di avere ragione è il fatto che quando per caso, o anche perché ha un allenatore che riesce ancora a fare l’allenatore (il discorso che avete fatto sui coach che contano quanto il due di spade con briscola coppe è perfetto e non c’è nulla da aggiungere), una squadra mette in campo qualche rudimento di gioco di squadra ottiene subitanei risultati. Sono molto contento che all’Est in finale ci siano Boston e Miami, le uniche due squadre che ho visto in assoluto che ogni tanto eseguono anche qualche giocata di squadra, non solo, ma che hanno precise gerarchie in squadra con Miami che per esempio ha trovato un ottimo equilibrio fra Dragić e Butler che non si pestano i piedi e con gli altri dei quali si sa più o meno sempre cosa stiano in campo a fare. Di Boston mi è piaciuto tantissimo che due volte sull’ultima azione Kemba Walker, giocatore che ai Mondiali mi era sembrato un’insopportabile pippa, abbia trovato un compagno solo sotto canestro senza tirare lui tiri strani. E poi contro Toronto in un’azione decisiva mi hanno fatto strabuzzare gli occhi quando su un tale Murray (può essere? uno comunque molto decantato per ragioni che sfuggono ad ogni mia possibile comprensione) che si era avventurato allo sbaraglio nel pitturato hanno difeso in modo umano con un immediato raddoppio dell’uomo più vicino e con un terzo che ha fatto la »diagonale« giusta, come direbbero i calciofili, con il risultato che il suddetto fenomeno si è inchiappettato clamorosamente perdendo la palla. Che poi, chiunque arrivi in finale, perderà contro una delle due squadre di Los Angeles (se i Clippers dovessero perdere contro Denver sarebbe una barzelletta e Doc Rivers dovrebbe essere cacciato a pedate) a causa della brutale superiorità fisica degli avversari è un altro discorso che non inficia minimamente quanto appena detto.

Questo ultimo episodio mi porta alla successiva considerazione sul perché l’odierna NBA sia inguardabile. Semplicemente le conoscenze sia tecniche che tattiche dei giocatori sono infime. Parafrasando quanto diceva Giordani sugli jugoslavi si può dire: “non sanno fare altro che tirare”. Solo che nel caso degli jugoslavi era una balla colossale, basta guardare cosa sapevano fare con la palla prima Ćosić, Kića, Mirza, Praja, Moka e poi Kukoč, Divac, Rađa, Danilović, Sale, per non parlare ovviamente di Dražen, mentre nel caso degli americani di oggidì la cosa è tragicamente vera. Azzerate l’audio trionfalistico di Sky e provate ad analizzare spassionatamente, senza essere condizionati dalla propaganda, il modo con cui tutti, anche i supposti (ogni attinenza con un siluro di uso medico è perfettamente voluto) fenomeni, si liberano per il tiro dopo aver palleggiato per i famosi 20 secondi (di più non possono per regolamento). Ormai il tiro classico è lo stepback, che è, secondo me, il tiro dei perdenti, perché ogni tiro in allontanamento è un’ammissione di non essere riusciti a battere il difensore. E infatti noi della nostra generazione conoscevamo benissimo questo tiro, ma era il classico tiro della disperazione che effettuavi quando ogni altra cosa aveva fallito. Il tiro da fare in uno contro uno era normalmente il tiro in avvicinamento: penetrazione, quando il difensore si para davanti finta e cambio di direzione, se il difensore è ancora lì esitazione e finta di partire con successivo arresto e: o tiro se c’è spazio, o successiva finta e poi passo e tiro (in avvicinamento!!) o infine scarico al compagno che taglia o anche, perché no, è solo sulla linea del tiro da tre. Ecco, di tutti i giocatori dell’NBA, oggi a usare questo tipo di bagaglio tecnico mi sembra che ci sia il solo Dončić, e anche lui se ne sta sempre più dimenticando abbracciando la logica esiziale dello stepback come tiro di default.

Poi ci sarebbe da fare tutto il discorso sulle capacità di trattamento di palla della media dei giocatori dell’NBA, cioè sarebbe da analizzare il modo con il quale effettuano un cambio di direzione e velocità con annesso cambio di mano in palleggio. Ci sarebbe a volte semplicemente da inorridire per le clamorose carenze tecniche che si vedono. Lasciamo stare che di passi e palle accompagnate a rigor di regolamento ce ne sono a bizzeffe, che fra l’altro portano immediati vantaggi a chi le perpetra, e dunque il discorso che tanto non cambiava e dunque lasciamo correre è palesemente falso, infrazioni peraltro dovute proprio alle carenze tecniche di cui sopra, per cui l’impappinamento è sempre incombente.

Lasciamo ancora stare che la stragrande maggioranza dei giocatori non ha un’idea sparata delle tattiche individuali più basiche, tipo quando e come tagliare in attacco o come disporsi in difesa in uno contro uno. Insomma, guardando con la lente di cui sopra vedo un gioco sempre più rozzo e rudimentale e sempre peggio eseguito.

Andrebbe dunque fatto tutto un discorso sulla scuola di basket che c’è ora in America, su chi insegna a giocare ai ragazzi e dove e come si istruiscono cestisticamente. Discorso già fatto e che porta sempre alla tristissima conclusione: una volta usciti dai campetti di periferia con le nozioni di base apprese a casaccio, in realtà non si istruiscono affatto, visto che al liceo non ci sono più istruttori e che la maggior parte dei giocatori salta il college. Chiaro, i fisici sono devastanti, quando saltano ti mangiano vivo, spostano un camion con mezzo braccio, ma tutto questo con il basket, di grazia, cosa c’entra?

Scusate, ma sono uno che ha un approccio distruttivo dovuto ai pregiudizi di scuola jugoslava, ormai sono un rudere sorpassato, per cui non vale neanche la pena di insultarmi. Tanto non ho voce in capitolo. E comunque non mi farete mai cambiare idea. Ma, di grazia, posso dire che questo non è basket e che dunque non vedo il perché dovrei guardarlo? O la libertà di parola è (già) stata abolita?