Mi rifaccio vivo un po’ in ritardo, vista l’attualità incombente, ma ho una flebile scusa, nel senso che ogni giorno scrivo un commento per il Primorski Dnevnik, dunque di mattina devo guardare le partite e poi scrivere il pezzo nel pomeriggio, per cui mi rimarrebbe un po’ di tempo la sera, nella quale però la mia voglia di lavorare, già scarsa di per sé, normalmente sparisce del tutto.

È ormai finita la prima fase e ora si comincia a fare sul serio. Com’era prevedibile dopo la prima fase sono sparite dal mappamondo cestistico le squadre asiatiche e quelle africane. Forse non era prevedibile che sparisse la Cina che pure si era preparata un sorteggio di tipo balcanico mettendosi nel girone due squadre come Polonia e Venezuela che avrebbero avuto pochissime chance di andare avanti in qualsiasi altro girone fossero capitate, ma evidentemente i cinesi, e le prove di questo si accumulano di anno in anno, sembrano negati a recepire i segreti del gioco del basket e già questa cosa dovrebbe stimolare un interessante dibattito antropologico-culturale che permetterebbe anche di sviscerare un po’ meglio quali siano le vere caratteristiche di una persona, e in senso lato di un popolo, che permettono di giocare a basket con cognizione di causa facendone sicuramente il gioco di squadra più affascinante che ci sia. Nel quale la statistica, i numeri, sono quello che sono, la massima bugia, per non dire frode, concepibile, mentre le vere doti che permettono di giocarlo e che poi fanno risultato sono a volte al limite, se non oltre, del metafisico.

 

Mi dispiace un po’ per l’Iran che sono convinto sia la prossima frontiera dello sviluppo del nostro (pardon mio, visto che sembra che sono finito in un covo di rugbysti sfegatati) sport, sia per il fatto che mi sembrano caratterialmente molto adatti, alla luce di quanto scritto sopra, per concepire il basket nel modo corretto, sia perché anche fisicamente possono attingere alle loro regioni del nord, quelle dei monti azeri, per reclutare lunghi forti, agili e abili. E poi anche perché sono tanti, in massima parte giovani.

Per quanto riguarda l’Africa il discorso è complesso e secondo me preoccupante. Non può esserci sport che pretenda di essere universale se non comprende l’Africa, il continente nel quale il potenziale umano è debordante, cosa confermata ad abundantiam dagli sport che permettono agli africani l’accesso ai massimi vertici mondiali, per esempio da una parte il calcio e dall’altra l’atletica, e se il basket vuole essere uno sport universale non può prescindere dall’Africa. Uno non riesce neanche ad immaginare cosa potrebbe essere una Nigeria, un Camerun, un Senegal, la stessa Angola, magari il Congo, se in quei paesi esistesse una cultura e una scuola di basket. Che non è però il calcio e per giocarlo ci vogliono infrastrutture che lì proprio, si spera almeno per ora, non possono permettersi. Per dire Olajuwon fu scoperto per sommo caso mentre faceva il portiere di calcio, Antetokounmpo si è potuto dedicare al basket solo perché la sua famiglia si è trasferita in Grecia “s trebuhom za kruhom”, come dicono in Slovenia, con la pancia a inseguire il pane. Quanti di questi ci sono da quelle parti che non sanno neanche che il basket esiste? Viene il capogiro al solo immaginarlo.  E in più c’è il problema che le nazionali africane sono “drogate” da gente nata in America che per comodità cestistica ha il passaporto dei genitori se non addirittura dei nonni e che pertanto già alla radice impedisce che vi possano giocare gli indigeni, visto che nessuno sembra aver voglia di scovarli e di allenarli in loco. Cosa che fra l’altro creerebbe quasi automaticamente una scuola locale, se non altro per emulazione, visto che, sempre alla luce di quanto detto sopra, ad occhio non ci sono al mondo popolazioni che più di loro possano appassionarsi al basket proprio per le loro doti caratteriali. Del resto la popolarità del basket presso gli afroamericani dimostra questo assunto in modo inconfutabile.

Passando al lato tecnico di quanto visto finora mi sembra che ci sia ben poco da dire, visto che di partite vere ce ne sono state ben poche. Gli USA sono esattamente quanto previsto, cioè una squadra di media tecnica individuale e di totale insipienza tattica (non perché Popovich non sia bravo, anzi per la sua conoscenza del basket internazionale è il massimo che potevano scegliere, ma proprio perché i giocatori stessi sono tatticamente analfabeti, per come si gioca nell’NBA), fisicamente ovviamente molto ben attrezzata, ma senza alcuna delle “bestie” che facevano la differenza nelle due edizioni precedenti. Per cui sono ampiamente battibili, soprattutto se si arriva nel finale punto a punto come dimostrato dalla Turchia che, come dice Buck (che ringrazio per le sue disamine tutte più che condivisibili) “cagavit sibi addossum”, fra l’altro confermando quanto sospettato dopo averli visti all’Acropoli, di essere squadra presuntuosa che infatti ha giocato alla pari contro gli USA, ma ha preso una bastonata dalla Repubblica ceca per averla sottovalutata all’inizio e poi per non aver potuto in alcun modo rimediare a causa della sua fondamentale scarsezza. Finendo così eliminata e ricevendo immediatamente il premio per squadra superflop dei Mondiali.

Per il resto ovviamente mi prendo un po’ di tempo, visto che mi mancano ancora i fatti su cui basare le mie opinioni (scrivo prima di Italia-Spagna e mentre la Serbia sta demolendo Portorico). Per ora mi sembra di poter dire che la Serbia sembra una spanna, se non di più, superiore a tutti (all’Italia è andata secondo me de luxe) e che mi piace un sacco come gioca l’Australia. E infatti la partita di ieri contro la Lituania, altra squadra che conosce il basket e gioca in modo umano, è stata l’unica partita che finora ho visto dall’inizio alla fine con grosso gusto, perché finalmente capivo quello che succedeva in campo e ambedue le squadre giocavano come io penso che si debba giocare a basket.

Sempre in tema di basket, ma non parlando più di mondiali, un breve commento, o meglio chiosa, sul post di Llandre che spiega la “scoperta americana” del cosiddetto tiro 1-motion e la dotta e esauriente analisi che ne fanno che dimostra come per certi tiratori sia il gesto “innovativo” che permette loro di essere più efficaci. Quanto riportato da Llandre, devo dire, ha dato un ulteriore impulso, se fosse possibile, alla mia autostima (come si dice, anche se io, alla luce di quanto spiegato sulla mia interpretazione di autostima preferisco semplicemente usare la parola “ego”, che indica una condizione statica conseguenza dell’autostima, che è invece un processo), in quanto in un primo momento ho avuto la sensazione di essere nientemeno che un genio. Dovete sapere, anzi lo sapete visto che ne parlo spesso, che ho un fratello che ha sette anni meno di me (classe ’57). Ovviamente anche lui baskettomane accanito che, vista la differenza d’età, quando ha cominciato a giocare seriamente io già allenavo. Fisicamente era come me, cioè abbastanza un disastro, addirittura più basso, ma aveva una cosa che io non avevo: una mano fatata. Nell’anno di passaggio dalla categoria cadetti a quella juniores decisi di impiegare l’estate con una serie di allenamenti quotidiani individuali di un’ora ciascuno con alcuni dei miei giocatori più rappresentativi e Loris (mio fratello) era sicuramente uno di questi, visto che era il play titolare. L’ allenamento per lui comportava ovviamente tutta una serie di esercizi di ball handling (tipo palleggi in corsa con due palloni palleggiati con velocità differente – fondamentale per l’indipendenza degli arti) e di passaggio e finiva ovviamente con una sessione di tiro. Il primo giorno gli feci subito questo discorso: “Loris, tu come me hai un’elevazione da fermo di 25 cm fuori forma e di 35 quando sei al top (esageravo ovviamente, ma era per rendere l’idea), per cui se tu scocchi il tiro alla massima altezza a cui arrivi ti stopperanno tutti comunque. Se vorrai poter tirare in partita dovrai farlo prima che l’avversario ti arrivi vicino, e dunque la cosa fondamentale è che il tuo tiro sia veloce (fortunatamente aveva mani molto veloci) indipendentemente da che altezza parte, magari anche quando la palla è ancora all’altezza della pancia, sempre che l’avversario sia ancora abbastanza lontano. E comunque dovrai tirare sempre da lontano, perché solamente quando sarai lontano avrai lo spazio necessario” Gli impostai dunque il tiro in questo modo, lo recepì subito, e finivamo l’allenamento con me che gli passavo la palla in una posizione almeno a sette metri dal canestro e lui dopo la ricezione doveva tirare il più velocemente possibile e rilasciando il pallone il prima possibile. Erano 100 tiri ed io, da buon telecronista, contavo i tiri segnati. In giornata storta ne metteva circa 60, in una giornata normale dai 70 in su. Era il 1975 (fate i conti, anno di nascita più 18) e dunque posso dire che il sottoscritto aveva “inventato” il tiro 1-motion 44 anni fa. Ovviamente il tiro da tre non era stato ancora introdotto, ed era un peccato, perché tutti i punti che mio fratello segnava in partita sarebbero stati meno di 10 anni dopo tutte triple.

Il bello però di tutta questa storia è che in realtà non avevo inventato proprio nulla. Avevo semplicemente messo in pratica quanto appreso ai corsi di allenatore che avevo fatto in Slovenia, dove la velocità del rilascio, come insegnava la scuola jugoslava, era considerata fondamentale, l’unica qualità veramente utile per un tiratore da fuori. Chiaro, la cosa cambiava radicalmente quando si trattava di insegnare il tiro ad un lungo che doveva farsi largo sotto canestro. Per un lungo il tiro normale era ovviamente quello 2- o magari anche 3-motion (dopo esitazione in area per rimanere in alto un momento in più rispetto al difensore). Ma questo è ovviamente tutto un altro discorso. Quello che voglio dire è che tutta questa “illuminata” discussione di stampo americano è la classica riscoperta dell’acqua calda della quale vanno tanto fieri e che a me dà invece un enorme fastidio, perché spacciano per invenzioni brillanti cose che noi facevamo normalmente mezzo secolo fa.