Sto per scrivere una cosa che mai si sarei immaginato un giorno di dover fare. Devo confessare che di solito quanto scrive Edoardo non è che normalmente mi trovi particolarmente d’accordo, soprattutto quando parla di politica affermando cose che per me sono come dire che il sole non è giallo, ma verde, per cui siamo su pianeti (galassie?) diversi in tema di concezione di cosa sia il mondo, ma stavolta devo proprio ringraziarlo per un suo contributo. Parlo ovviamente del decalogo sui falsi miti del basket moderno concepito e pubblicato da Carlo Fabbricatore. Dal mio punto di vista è una cosa che bisognerebbe scolpire su una pietra e portarla in giro per il mondo tentando di convertire il più possibile di gente ancora benpensante. Un po’ quanto fatto da Mosè con i suoi comandamenti, se si può usare un paragone tanto blasfemo (Leo, scusa).

Per i più giovani: Fabbricatore è stato come giocatore un mio idolo assoluto, nel senso che in lui mi rivedevo io, ma lo stesso tanto meglio da poter giocare a livelli ben superiori a quelli ai quali sarei potuto arrivare io con il mio fisico da pensionato precoce. Era insomma la mia proiezione un po’ onirica venata di malinconia, in quanto era comunque troppo limitato fisicamente per poter veramente ambire ai massimi livelli e questo per me più che un peccato era un delitto (un Moretti jr. ante litteram, ovviamente vista l’epoca molto meglio impostato e istruito, se rendo l’idea). Va detto di sfuggita che lui usciva dalla scuola dell’Olimpia Milano che a quei tempi produceva ancora veri, molto veri, giocatori (il che significa che aveva istruttori con i controfiocchi, quelli che oggi sono totalmente spariti di circolazione, almeno a giudicare dai mostriciattoli che producono), e infatti della sua generazione erano i gemelli Boselli (mi sembra che fossero di un anno più grandi, ma non cambia molto), altri veri giocatori di basket. E dunque, caro Stefano, se c’è qualcuno con tutte le cognizioni di causa possibili per parlare autorevolmente di basket, questo è sicuramente e assolutamente lui fra i primi.

Vorrei analizzare punto per punto quanto scrive per fare anche qualche chiosa e contribuire così all’estensione di una specie di manuale di pronta consultazione per la gente che vuole sapere cos’è, o meglio, cosa dovrebbe essere il vero basket.

Comincio: punto uno, non servono più i playmaker. Il commento è lapidario e precisissimo, per cui assolutamente nulla da aggiungere.

Punto due, i centri moderni giocano lontano da canestro. A parte la stupidaggine totalmente incoerente di questa affermazione (se sono centri, per definizione giocano vicino a canestro, se no non sono più centri, ma altro), il punto è un altro. I centri, sempre per definizione, giocano sotto canestro, ma è giusto e meritorio che sappiano giocare anche fuori per ovvie ragioni tattiche. Tattiche, non certamente strategiche. Se poi hanno anche tiro, sanno passare la palla e comunque vedono il gioco come i giocatori che nomina Fabbricatore, allora ancora tanto meglio. Sono state proprio queste dimensioni multiple del loro gioco che li hanno resi tanto grandi. Sempre però senza dimenticare che erano centri. Ancora una chiosa sul commento: più che passare per il post basso, posizione che per le loro abilità era troppo riduttiva, loro erano maestri quando tagliavano in posizione di post alto (da quattro), perché lì erano assolutamente esiziali, avendo un enorme repertorio tecnico che permetteva loro di scegliere ogni volta la cosa giusta da fare in dipendenza da come reagiva la difesa.

Punto tre, i centri grandi e grossi non servono più. Questa è del basket cosiddetto moderno la cazzata più colossale che si possa non tanto profferire, ma addirittura pensare. Una piccola chiosa sul commento, assolutamente pertinente e corretto, ma secondo me trascura il fatto più sostanziale, fatto che è rimasto tale e quale da quando Naismith appese un cesto di pesche sulla parete della palestra: non tutti i tiri entrano (a proposito, qualcuno ha fatto una ricerca sulle percentuali di tiro di una volta paragonandole a quelle di oggi, epoca di fantastici tiratori, come ci dicono di continuo? Siamo veramente sicuri che siano migliori di quelle di una volta?), per cui esistono i rimbalzi. Che, una volta catturati, assicurano un possesso, cioè si ha la palla per poter fare canestro noi. Mi sembra lampante che, più ne prendiamo, più possibilità avremo di vincere. Vale sia per la difesa che anche per l’attacco, anzi, in attacco valgono molto di più, perché siamo già vicini al canestro avversario e non occorre creare alcuna azione per segnare: a volte basta un tap in. E per prendere i rimbalzi essere alti, forti e tosti non guasta certamente, anzi, è il presupposto base per sperare di poterli prendere. Se poi qualche allenatore spende qualche oretta sui fondamentali del tagliafuori, ancora meglio.

Punto quattro, i giocatori devono essere totali. Commento perfetto e nulla da aggiungere, se non un breve commento a mo’ di spiegazione del perché servono gli specialisti. Mi ricordo di quando Ćosić disse a qualcuno a Bologna: “In una squadra ci devono essere i muratori e gli ingegneri. Tu sei il muratore e io l’ingegnere, per cui fai il tuo che io faccio il mio”. Oggigiorno dire che tutti giocatori devono essere totali equivale a affermare che in un cantiere edile tutti devono essere ingegneri e che i muratori non servono. Se un’affermazione del genere per la costruzione di una casa sembra tanto ridicola a tutti noi (vi immaginate gli ingegneri alle prese con malta, cazzuole e livelle a bolla? Oppure a mettere in moto una macchina per impastare il cemento sapendo anche quando è pronto e da gettare sull’armatura di ferro – che a sua volta qualcuno deve saper montare?), anche sforzandomi non riesco a capire come possa non apparire altrettanto idiota per una squadra di basket. Squadra, appunto, sarebbe bene sempre ricordarlo.

Punto cinque, le guardie devono attaccare il ferro. Qui sono un tantino in disaccordo con Fabbricatore, non tanto per quanto lui dice, che è sacrosanto, ma per l’impostazione stessa della spiegazione che a mio avviso non tocca i punti veramente fondamentali della questione. Secondo me l’affermazione giusta è: le guardie devono sempre e comunque avere l’attacco al ferro quale prima opzione, ma devono sapere quando è giusto farlo e quando è invece andare a cercare rogne e a farsi stoppare. Qui ovviamente casca l’asino: la scelta deve essere fatta in un momento e deve essere giustificata (dunque bisogna sapere giocare a basket), nel senso che, se vado al ferro e qualcuno della difesa avversaria ruota su di me, devo avere sempre pronto uno scarico efficiente a un compagno che taglia e, ultimissima (certamente non la prima) opzione, passare la palla a un compagno fuori (oggi sulla linea da tre) per un tiro passabilmente aperto. Quello che voglio dire è che una guardia deve sempre avere quale primissima opzione il famoso “penetra-e-segna” e le successive opzioni (fra le quali assolutamente fondamentale è l’arresto e tiro – che, attenzione, può essere anche la primissima opzione per uno capace di arrestarsi in un fazzoletto e segnare dai due metri – Dražen di prima dell’introduzione del tiro da tre, dove sei?) sono tutte conseguenze. L’ironia di tutta questa situazione è che, malgrado “la guardia debba sempre attaccare il ferro”, le guardie moderne vanno sì verso il canestro, ma normalmente guardano sempre da qualsiasi parte, meno che verso il canestro. E come fai a attaccare una cosa che non guardi e vedi? Evidentemente non hanno loro ancora spiegato che un tiro da sotto che vale due punti sicuri è sempre meglio di un passaggio aleatorio (che, come dice Fabbricatore, spesso finisce in tribuna) verso un compagno lontano che il tiro da tre, se prende la palla, deve ancora segnarlo.

Punto sei: pochi portano il contropiede al centro e si arrestano sulla linea del tiro libero. Letta questa frase avrei voluto abbracciare Carlo, perché in questo mondo di analfabeti cestistici c’è evidentemente ancora qualcuno che si ricorda di come dovrebbe essere condotto un contropiede tre contro due. Che, particolare non da poco, se fatto bene con tutti ai loro posti naturali, permette anche un facile inserimento del primo rimorchio, o magari anche del secondo. Crea cioè un attacco a cinque in transizione che arriva più o meno da solo senza dover spendere ore e ore in allenamento per impararlo. Come sempre, basta saper giocare a basket. Fra l’altro in quest’epoca di spasmodica ricerca del tiro da tre una transizione cinque contro cinque permette anche di trovare uomini liberi, possibilmente veri tiratori e in giornata, completamente liberi sulla linea del tiro da tre (normalmente è uno delle due ali del contropiede primario che è intanto uscito per fare spazio all’inserimento dei rimorchi) per un tiro totalmente non contestato. Questo punto tocca inoltre per me una corda particolarmente sentita. Vi ho già raccontato della mia mania quale allenatore che nelle partitelle giudicava un’infrazione (dando dunque la palla all’altra squadra) quando in contropiede la palla non superava la linea del centro campo entro il cerchio del salto a due iniziale. Volevo assolutamente che i miei giocatori sviluppassero un riflesso di tipo pavloviano prendendo come un dovere assoluto il fatto di portare la palla in attacco dal centro per poi aprire facilissimi angoli per i taglianti.

Punto sette: la zona è l’antitesi dello spettacolo. Assolutamente d’accordo, la zona uccide lo spettacolo, inteso all’americana, cioè ignobile circo. In compenso esalta il basket quale sport di squadra, per cui, intendendo cosa si intende per spettacolo (per me è giocare bene a basket), altro abbraccio fraterno con bacio accademico a Fabbricatore. Solo una rettifica: lui scrive che pochi sanno attaccare una zona combinata. In realtà praticamente nessuno sa più attaccare una zona tout court, tanto che si vedono zone 3-2 o 1-3-1, cioè zone tattiche che ai nostri tempi ridicolizzavamo con due passaggi giusti fatti al momento giusto, che paralizzano gli attacchi avversari che, pervicacemente, si ostinano a attaccare la zona proprio lì dove è forte, senza avere la minima idea di dove sia invece debole e dunque di dove dovrebbe essere attaccata. In sostanza la difesa a uomo difende l’uomo e si mette in difficoltà ovviamente muovendo il più possibile (e in modo ordinato e logico mantenendo le distanze – l’orribile “spaziature” proprio non riesco a dirlo) i giocatori, mentre la difesa a zona difende la posizione della palla e si attacca dunque muovendo la palla il più velocemente possibile per fare in modo che qualcuno nella zona difensiva a un dato momento perda un colpo e lasci un buco. Cosa che succede più o meno sempre verso la fine dell’attacco. Attaccare la zona significa avere pazienza, muovere velocemente la palla creando soprannumero su un lato con tagli improvvisi da e verso il lato debole, significa insomma avere un grande gioco di squadra e dunque la difesa a zona è lo specchio perfetto per dimostrare quanto una squadra sia competente in attacco. Il che, per chi ama il basket come sport intelligente, è la quintessenza stessa dello spettacolo.

Punto otto: gli allenatori sono sempre fondamentali. Qui si dovrebbe aprire un discorso molto complesso e articolato e consiglierei a Fabbricatore di tralasciare questo punto. Quanto dice lui è sicuramente giusto, ma le cose sono molto più complesse e non possono essere ridotte a uno slogan. In sostanza bisognerebbe innanzitutto saper tracciare l’identikit più perfetto possibile del grande allenatore, cosa difficilissima e comunque opinabile.

Deve saper scegliere i giocatori e creare un gruppo, deve sapere individuare e mettere in pratica giochi che esaltino le doti migliori dei giocatori che ha a disposizione (che tante volte sono quelli che la società è riuscita a reperire sul mercato e dunque deve fare le classiche nozze con i fichi secchi) e infine deve sapere guidare bene la partita in panchina facendo i cambi giusti al momento giusto. Se ha tutte queste doti sarà sicuramente un fattore importantissimo, a volte addirittura decisivo, per le sorti della sua squadra, Quanti però di simili fenomeni ce ne sono in giro? E’ questa la vera domanda da porsi.

Punto nove: il tiro da tre ha snaturato il gioco. D’accordo con Fabbricatore, per quanto vi sembri strano. Non tanto però per chi legge con attenzione quanto scrivo. Ho più volte detto che è il tiro da tre usato come arma strategica, cioè come prima opzione per l’attacco, il vero stravolgimento del basket, mentre se è usato come arma tattica, cioè come il tiro da scoccare verso la fine dell’attacco dopo aver cercato prima soluzioni più facili e aver fatto collassare la difesa, è un’arma fondamentale se chi tira è un segnatore ed è solo. Vale tre invece di due, come diceva Kića “ora danno tre punti per i tiri che io e Mirza facevamo di routine, saremmo stupidi giocando ancora se non ne approfittassimo”, per cui, giocando così, non ho proprio niente in contrario che venga usato.

Carlo! Manca il decimo comandamento. Prova a inventare ancora qualcosa che facciamo il decalogo da appendere in ogni spogliatoio.


Sergiotavcar.com