“Giocano diversamente perché sono cambiate 1000 cose, il risultato potrà anche non piacere ma infangarli con le peggiori offese (tipo ‘circo’) mi pare una dimostrazione di grossi limiti nel decifrare la realtà attuale e d’altro canto mitizzare una sorta di Arcadia dei campionati anni 70 – 80 (dove anche lì c’era un sacco di gente che si palleggiava sui piedi: non mi pare che la casella delle palle perse fosse sempre a zero) mi pare un errore ancora più  marchiano. Ma tant’è…”

Riporto tali e quali le frasi di Stefano che ha già riportato Edoardo per mettere anch’io fine alla diatriba che ha ormai stancato un po’ tutti. Voglio solo ribadire alcune cose e chiarire alcune altre. Onestamente mi sento un tantino offeso per l’accusa di essere un patetico passatista che parla di fantomatiche Arcadie. Ho solo un’età, permettetemelo, per parlare di alcune cose con maggior cognizione di causa di persone nate qualche decennio dopo di me e dunque chiunque nato in quel lasso di tempo dopo di me non ha esattamente nulla da insegnarmi se non considerandomi uno scemo. Che non credo di essere.

Semplicemente quell’epoca l’ho vissuta in pieno, sia giocando e dunque allenando me stesso che allenando altri, ripeto, anche se è difficile crederlo, anche quattro squadre diverse nello stesso tempo. So benissimo come ci si allenava una volta, soprattutto noi che al confine gravitavamo, anche per questioni di pura simpatia e di senso di appartenenza etnica, verso il mondo jugoslavo. So anche come venivano insegnati e perfezionati i fondamentali nella nostra vera basket city d’Italia, in quanto ho imparato il basket da gente, credetemi, che rispetto a quelli di oggigiorno erano Einstein inarrivabili. Mi dispiace verso quelli di oggi, ma vedo come allenano (di istruire i giocatori non si parla, non sanno neanche cosa sia) e, paragonandoli ai nostri mitici Micol dell’Inter 1904, o Franceschini e Marini della Ginnastica, o Pituzzi e Stibiel dell’Italsider, o Turcinovich e Pistrin del Don Bosco, o Comici della Servolana, o al maestro Bortuzzo, deus ex machina dei Ricreatori (e non apro neanche il discorso sugli istruttori del settore femminile, che erano anni luce avanti rispetto al resto d’Italia), mi cadono, più che le braccia, proprio le palle. E Stefano può credermi (ma so già che non lo farà, viste le sue convinzioni) quando dico che, se in uno dei nostri campionati uno dei fenomeni locali si palleggiava in partita su un piede, le sbertucciate che subiva erano infinite, crudeli e durature. Non era pensabile che un palleggiatore non sapesse palleggiare e che un passatore non sapesse passare. Erano considerate cose paragonabili alle aste e ai filetti che si facevano alle elementari per imparare a scrivere e non era ammesso sbagliarle. Per cui, sì, ribadisco che la tecnica dei giocatori di una quarantina di anni fa era incomparabilmente migliore di quella dei giocatori di oggi. Ho visto quelli e vedo questi. Non credo di essere ancora rincoglionito, per cui rimango della ferrea opinione che proprio non c’è confronto. C’erano sì palle perse, ma bisogna considerare che una volta esistevano le infrazioni dei tre secondi e dei passi che venivano fischiate in modo a volte più che fiscale, poliziesco, e inoltre c’erano le palle perse dovute a buone idee realizzate in modo errato, principalmente per mancanza di connessione mentale fra i giocatori coinvolti, e non erano, come spesso succede oggi, cagate pazzesche già di concetto riuscite perfettamente. Se uno rischia un passaggio difficile che, se arriva, lascia la situazione come stava prima e non crea alcun tipo di vantaggio, è per definizione una stupidaggine sesquipedale. Ecco, sono pronto a mettere la mano sul fuoco che cose del genere a quei tempi non succedevano.

Poi c’è un’altra cosa che mi conforta. Esattamente tutti quelli della mia generazione, quando parliamo fra di noi di basket, che siamo italiani, o sloveni, o comunque jugoslavi, o spagnoli, o fate voi come vi pare, dopo due minuti che parliamo cominciamo tutti a dire le stesse identiche cose e a darci ragione a vicenda. Tanto che dopo cinque minuti non sappiamo più cosa dire, visto che siamo d’accordo su tutto. Siamo veramente tutti totalmente rincoglioniti? Penso proprio di no.

Llandre si meraviglia che affermi che oggigiorno i secondi quintetti batterebbero per no contest, direbbero i pugili, i secondi quintetti di una volta, e si chiede come ciò si concili con quanto affermo in generale. Pensavo di essermi spiegato in abbondanza raccontando come venivano fatte le squadre a quei tempi e a come vengono fatte adesso, ma evidentemente non sono stato del tutto chiaro. Domanda: quanti spettatori paganti andrebbero a vedere una scazzottata fra forzuti lavoratori del porto? Quanti andrebbero a vedere un match di pugilato che includesse, che ne so, Ray Sugar Leonard? Nessuno nel primo caso e una grande folla nel secondo? E come andrebbe a finire un match fra uno scaricatore di 2 metri per 120 chili e Ray Sugar Leonard? Quest’ultimo finirebbe con ogni probabilità ammazzato di botte. Ecco, il match fra il secondo quintetto di adesso contro quello di una volta sarebbe esattamente la stessa cosa. Per la grande quantità di materia prima e di soldi disponibili in tutto il mondo le squadre di adesso possono permettersi tutti gli scaricatori forzuti che vogliono, mentre una volta si prendevano, a prescindere, giocatori che sapessero giocare o che avrebbero imparato a farlo in un ragionevole lasso di tempo. Tutto qua. Però questa folla di scaricatori forzuti tutto possono definirsi meno che veri giocatori di basket. Che è tutt’altra cosa. O era tutt’altra cosa. E per finire, sì, Stefano, hai perfettamente ragione, oggi è tutt’altra cosa rispetto a quella di una volta. Purtroppo. L’unica cosa che mi dà un enorme fastidio è che si ostinano a chiamarla ancora basket.

Per fortuna ci sono comunque ancora isole di resistenza. Devo dire che sono stato particolarmente colpito da Barcellona-Milano ed è stata, dopo lungo tempo, una partita che ho seguito senza fare zapping. Complimenti a Milano, spero solo che giochi avanti così, soprattutto in difesa. Ho ancora qualche dubbio sulla conduzione del gioco in attacco. A volte c’era Hines che portava la palla avanti. Potrebbe essere un’idea. E ancora: sicuri che Delaney ripeterà ancora partite così strepitose? E’ stata comunque una bellissima partita fra squadre che facevano cose logiche, con uno scopo, e finalmente, dopo tanto tempo, riuscivo a seguire (e tentare di anticipare, cosa che a suo tempo facevo sempre – ovviamente supportato dai soli suoni d’ambiente) la logica delle cose che venivano fatte in campo. C’erano anche errori, per carità, ma, vivaddio, ho visto del basket! Tanto più che in contemporanea c’era su Sky la diretta di Boston-Indiana, roba totalmente inguardabile che mi ha fatto sbellicare dalle risate nel momento culminante in cui uno di Boston ha tentato di ribaltare il fronte d’attacco passando la palla a due suoi compagni dall’altra parte del campo (e in mezzo? nessuno, oggidì evidentemente si fa così) riuscendo nell’impresa di mancarli ambedue (erano a non più di tre metri uno dall’altro) spedendo un siluro (per gli amanti del baseball, era una veloce alta dritta) in tribuna.

Bellissima e originale la scommessa di Buck. Onestamente non ho trovato niente, anche se ci ho pensato a lungo e la CBA di Mario Boni potrebbe essere la risposta giusta, visto che quanto ricordo io sono le firme un anno dopo di Rusconi per Phoenix e di Esposito per Toronto. Poi ci ho pensato e sono giunto alla conclusione che è impossibile che nei tempi che furono, quelli nei quali FIBA e NBA erano galassie totalmente diverse, qualsiasi giocatore italiano di nome potesse neanche pensare di andare all’estero. In Italia si poteva schierare un solo straniero (poi anche l’oriundo e infine anche il secondo straniero, prima solo in Coppa e poi anche in campionato), l’Italia, assieme alla Spagna, era l’unico paese europeo dell’economia occidentale (ricordate? c’era la cortina di ferro) nel quale il basket poteva essere professionistico (va be’, c’era anche la Francia, che era però disorganizzata – hanno sempre scontato il fatto che a Parigi praticamente non si giocasse a basket, per cui l’unico loro faro è sempre stato solo a Villeurbanne, Pau-Orthez e poi le altre sono venute dopo) visto che nel resto d’Europa neanche si sapeva che esistesse questo sport, dunque tutti i giocatori italiani rimanevano a casa per la semplice ragione che, intanto erano necessari per fare le squadre, e poi perché a casa si stava di gran lunga meglio che dovunque altrove in Europa. Certo, ci potrebbero essere casi isolati di gente che ha giocato all’estero per ragioni magari di lavoro o di cuore, ma uno che di professione (per quanto ipocritamente mascherata per ragioni olimpiche) faceva il giocatore di basket andasse all’estero mi sembra di poterlo escludere.

Sulla questione infine delle calzature che oggigiorno dovrebbero reggere sollecitazioni ben più formidabili che in passato, beh, lasciatemelo dire, la cosa fa un po’ ridere. Con i campi che hanno oggi non si farebbero niente neanche se giocassero scalzi. Vorrei vedere cosa farebbero i giovincelli di oggi se dovessero passare, come facevo io, d’estate almeno 6-7 ore al giorno andando su e giù per un campo con il fondo di cemento (solo dopo tre anni dall’inizio dell’attività del nostro club il campo del Prosvetni fu allargato e piastrellato come è adesso, per chi l’ha visto). Per la cronaca su un campo del genere le Superga classiche duravano un mese scarso prima di letteralmente sfarinarsi (a proposito, lo sapevate che in Jugoslavia “superge” era il nome generico dato alle scarpe da ginnastica, il corrispettivo jugo di “sneakers”: “Oggi ho comprato le nuove superge Adidas”?), per cui le uniche scarpe che reggevano quasi tutta una stagione erano delle specie di carri armati pesantissimi, per quanto a caviglie basse, prodotti a Borovo Selo dalla locale fabbrica su licenza Puma. Le scarpe americane? Una volta riuscii a intercettare delle Converse che erano destinate al fiorente mercato nero est europeo e che passavano per Trieste, base storica di questo contrabbando legalizzato (le autorità sapevano tutto, ma guardavano via – secondo voi perché?) internazionale. Risultato? Durata inferiore a quella delle Superga. Mai più usate.

Ah, sì, poi ci sarebbe il discorso da fare su Đoković. Che non faccio, perché avete detto tutto voi. Veramente una “lectio magistralis”, prima di Stefano che ha descritto minuziosamente il contesto sociale e politico in cui si è svolta la vicenda, e poi di Pado che ha fatto tutte le considerazioni e le chiose giuste. Sono veramente fiero che forse il commento più informato e centrato sulla vera questione che abbia letto in tutti questi giorni sia uscito sul mio blog. Grazie, ragazzi. Da parte mia dico solo che sabato ero a cena con la cerchia più intima della mia famiglia ed alla domanda di mia cognata su cosa pensassi della vicenda ho detto solo: “E’ stato il comportamento da libro antropologico di testo per definire il concetto di “sborrone balcanico””.

In merito comunque ci sarebbe, almeno da parte mia, da aggiungere ancora una cosa. Spesso e volentieri si dice che la politica non dovrebbe interferire con lo sport. Il che per me è impossibile, un vero e proprio ossimoro. Nel senso che lo sport “è” politica, nel suo senso più profondo e primordiale. Dai tempi dei giochi organizzati dagli imperatori romani per ingraziarsi le folle all’attività sportiva nei college inglesi per allevare i futuri soldati lo sport è sempre stato politica. E non può essere altrimenti, visto che lo sport è un’attività che coinvolge gli umani nel modo più diretto e ancestrale, quello delle emozioni. E il controllo delle emozioni della gente è uno dei compiti più importanti e delicati che qualsiasi politica deve affrontare se vuole definirsi tale e se soprattutto vuole avere consenso. Attraverso lo sport passano messaggi di importanza capitale, decisiva, che lasciano un’impronta profondissima su tutto il vivere sociale. Pensiamo solo a come ci sentiamo quando possiamo riposarci dopo un’attività fisica di diporto svolta in un ambiente sano, bello e confortevole, magari in compagnia dei nostri amici più cari. E, andando dall’altra parte dello spettro dell’importanza dello sport, pensiamo solo cosa sia significata per tutta la comunità sudafricana la visita fatta da Nelson Mandela alla nazionale di rugby, lo sport percepito da tutta la maggioranza nera del paese come la roccaforte più inespugnabile del razzismo dei colonizzatori, che si preparava per il mondiale in casa. Praticamente con quel solo gesto Mandela ha semplicemente pacificato un intero paese. Ecco perché fra l’altro lo considero senza alcuna ombra di dubbio il più straordinario politico che abbia visto all’opera in tutta la mia vita. E dunque sono convinto che la decisione sulla sorte di Nole non poteva che essere politica, avendo il caso preso una via che travalicava ampiamente i contorni di un evento agonistico. Ed è solo giusto, nonché semplicemente inevitabile, che sia andata in questo modo.