Straordinario il contributo di Cicciobruttino con l’intervista a Gianni Gross che, mi ricordo, origliavo di nascosto a Berlino durante i Mondiali del ’78, in quanto della spedizione italiana nessuno sapeva chi fossi, per cui pensavano che fossi uno di fuori e parlavano a ruota libera delle cose che succedevano nell’ambiente azzurro. E Gross era uno che, assieme a Castagnetti, era pura poesia ascoltare. Io penso che Gross abbia colto perfettamente il centro del problema che non riguarda solo il nuoto, ma che nel nuoto si palesa con la paura dell’acqua, paura che fa sì che tutto quello che si impara è forzato, in realtà odiato, non solo, ma lo star male nell’ambiente nel quale ci si allena non permette mai di ottenere neanche lontanamente quanto sarebbe nel proprio potenziale.
Posso citare una piccolissima ed insignificante esperienza personale. Ho già più volte detto che l’unico sport nel quale avessi un minimo di talento fosse il nuoto ed a livello amatoriale, non dilettantistico, che già presuppone un minimo di dedizione e di allenamento, ma proprio amatoriale, mi ha procurato le massime soddisfazioni agonistiche con medaglie vinte ai giochi della minoranza slovena in Italia e financo anche a un campionato per licei di Trieste (per dire, nella parallela sezione agonisti c’erano Roberto Pangaro e Franco Del Campo che tutti quelli della mia età conosceranno molto bene). Leggendo quanto dice Gross mi rivedo bambino con papà (che non aveva letto Gross, ma era uno straordinario educatore proprio per talento ed istinto) che al bagno, ogni qualvolta andavamo in acqua, voleva che mi sentissi a mio agio e mi faceva fare tutte le cose che servono per prendere confidenza dell’acqua e non averne più paura (tipo imparare a respirare con la bocca piena di acqua – quando si impara è facilissimo). Quando l’acqua mi è diventata amica, e sorridevo con compiacimento quando vedevo gli altri bambini che quasi affondavano e gridavano di paura mentre io sguazzavo beatamente, ho imparato a nuotare, si direbbe oggi, per default, ottimizzando i movimenti in modo del tutto spontaneo e naturale, visto che ero nel mio elemento. E vi posso garantire che la cosa è stata non di aiuto, ma assolutamente determinante per i miei futuri “successi”. Se avessi avuto in acqua la stessa paura che avevo sulla terra ferma quando mi facevo battere nella corsa da quasi tutte le ragazzine sarei probabilmente affondato come un sasso.
Ragionando su questa falsariga per quanto riguarda gli altri sport è solo naturale pensare che gli atleti degli altipiani africani, e qui il colore della pelle a mio avviso non c’entra niente, corrano così veloce proprio perché corrono bene, spontanei, nel loro elemento, hanno cioè la corsa nel DNA. E se gli etiopi sembrano corridori costruiti al computer per come non sprecano un’oncia di energia, dall’altro lato non ci sono due kenioti che corrano nello stesso modo. Sembrano burattini fuori controllo ed invece vanno come il vento. Proprio perché sono naturali e se qualcuno volesse cambiare il loro stile di corsa probabilmente, anzi sicuramente, li stroncherebbe. Per cui a nessuno passa neanche per la mente di farlo.
Intermezzo che non c’entra niente, ma che mi è venuto in mente parlando di kenioti. Recentemente ho letto una storia che affermano verissima. Il crudele e pazzo dittatore dell’Uganda Idi Amin Dadà un giorno decise sua sponte che l’Uganda non si sarebbe più chiamata così, ma solamente Idi in suo onore. Fu dissuaso all’ultimo momento dal suo consigliere più fidato che rimarcò che i vicini del Kenia erano chiamati kenioti e poteva dunque immaginare come sarebbero stati chiamati nel mondo gli abitanti di Idi.
E sempre vedendo le cose da questa prospettiva non si può non andare al nostro amato gioco. Nei tempi eroici in Jugoslavia esistevano tiratori mortiferi, il più clamoroso di tutti era l’amico di Boša all’ OKK Beograd Blaž Kotarac (che infatti una volta a Capodistria mi presentò dicendomi: “Ecco, lui è il tuo grande idolo”), e dei quali l’ultimo clamoroso epigono fu Žarko Paspalj, che tiravano in modo totalmente illogico, fregandosene altamente dell’allineamento spalla-gomito-polso e di tutte le altre cose che determinano una corretta tecnica di tiro, ma che la mettevano sempre dentro. Lo stesso Paspalj una volta disse che, arrivato al Budućnost, la prima cosa che gli allenatori vollero da lui era che cambiasse la meccanica di tiro. Disse che ci provò un po’, ma che non si sentiva a suo agio e che soprattutto non segnava più. Al che fece questo discorso molto semplice ai suoi coach: “Gente, io tiro così, prendere o lasciare”. Presero.
La morale che si trae da questi ragionamenti è che la cosa assolutamente fondamentale per uno sportivo è che si senta a suo agio nello sport che pratica, che cioè “senta” il suo sport a modo suo e non come vogliono gli allenatori. Fra l’altro solo così si diverte, motivazione fondamentale per qualsiasi sportivo. Se andassimo nel tennis, altro sport adattissimo al discorso che sto facendo, di esempi del genere se ne avrebbero a bizzeffe. Forse Federer è il più grande giocatore di tutti i tempi proprio perché la sua tecnica innata, il suo ritmo interno, coincide alla perfezione con i dettami classici della tecnica, per cui lui è uno “tecnicamente naturale”. E per questo è tanto forte e potendo potrà giocare fino ai 50 anni, se ne avrà voglia. Lo stesso, per tornare al basket, si può dire di Michael Jordan. E infatti, guarda caso, anche lui è il più grande giocatore di tutti i tempi.
Domanda: si può inculcare un concetto del genere ai robotici coach giovanili di questi tempi? Diceva Karel Čapek (per rimanere in tema di robot) che non esiste iattura maggiore al mondo di un imbecille istruito. Per cui sono sicuro che sarebbe tempo sprecato, avendo a che fare in concreto con imbecilli istruiti, cioè gente che della sostanza del basket non capisce un cavolo, che ha però letto tantissimi libri e fatto tantissimi clinic, per cui pensa di sapere tutto. Come ogni mona che si rispetti, dicono in Friuli. Per cui, mi dispiace, non avremo più giocatori veri, genuini, non avremo più Zorzi, Vittori, Brumatti, per limitarmi ai massimi esponenti del basket goriziano. Non è triste, la cosa?
Saltando di palo in frasca sono rimasto affascinato dalla lista fatta da Stefano delle sue preferenze (e certezze) musicali. A parte la piccola eccezione dell’uomo che a un angolo di una strada di campagna fece un patto con il diavolo che gli ispirò i blues più primordiali e struggenti che esistano, parlo ovviamente di Robert Johnson, siamo esattamente agli antipodi. Se lui è l’Italia, io sono la Nuova Zelanda. Le mie preferenze hanno esattamente tutta un’altra base. Concretamente io voglio dalla musica due cose fondamentali: emozioni e belle melodie. Orecchiabili? Porca miseria, e perché cavolo no? E il tutto condito da due cose imprescindibili: la semplicità dell’esecuzione, senza alcun tipo di fronzoli cervellotici e di virtuosismi che lasciano il tempo che trovano, e il ritmo. Che può essere quello che vuole, ma deve trascinare. Quando ascolto la musica voglio che i miei piedi battano il tempo e nel frattempo magari simulo qualche battuta di batteria, strumento a me totalmente ignoto, ma che reputo affascinante. Nel contesto, ovviamente. Se uno fa un assolo di batteria che dura tre ore, dopo due minuti ho già cambiato canale. Ognuno faccia il suo mestiere. Basso e batteria tengono il ritmo e non tollero che si allarghino.
Nell’intervista a piena pagina che il bravissimo giovane collega del Primorski Dnevnik Albert Vončina mi ha fatto per l’occasione del mio pensionamento ci fu anche la domanda su quali fossero i miei tre musicisti preferiti. Non ebbi la minima difficoltà a rispondere: Beethoven, Elvis e i Beatles. Aggiungo che per me il miglior pezzo di musica mai scritto e che resterà per sempre tale è l’Allegretto, il secondo movimento, della settima sinfonia di Beethoven. Se lo ascoltate potrete capire benissimo cosa io cerco nella musica: la semplicità che deriva dall’aver eliminato tutto quello che c’è di inutile e superfluo, per cui rimane solo la struggente emozione di sentire nella sua sostanza la musica più emozionante che ci sia, che ti prende in ogni parte del corpo e non sai perché. Certo, la musica poi deve essere elaborata, messa insieme in modo armonico, ma tutto ciò è un di più, una cosa che non riuscirà mai a surrogare un’emozione che c’è di primo acchito o non c’è. E se non c’è emozione, non mi interessa. Potrò ammirare intellettualmente la matematica messa in musica da Bach, ma se vorrò piangere dall’emozione ascolterò mille volte più volentieri un’esecuzione a cappella da parte di una splendida voce femminile (avete notato come le femmine siano estreme anche in questo? vanno dall’angelo in terra al piatto graffiato con il coltello) della seconda strofa della più bella canzone popolare mai concepita, l’irlandese Danny Boy. O ascolterò Wildwood Flower della Carter Family o ancora I’m So Lonesome I Could Cry di Hank Williams o, se preferite, Yesterday di Paul McCartney o ancora, preferibilmente cantata da Josè Carreras, Core Ingrato. Se invece vorrò scatenarmi nel ritmo, allora ascolterò le leggendarie canzoni della Sun Records degli anni ’50. In generale voglio emozioni e non musica fine a se stessa. Se per curiosità ascolterete le canzoni su menzionate noterete che in esse l’accompagnamento musicale è praticamente rudimentale, ridotto all’osso (anche se Mother Maybelle Carter era una chitarrista con i controfiocchi). Che è esattamente quello che voglio. Voglio la musica con le sue emozioni nella sua essenza più pura, senza niente attorno che mi disturbi. Bella musica. Che abbia una melodia che posso cantare. Se poi i testi li scrive Bob Dylan non mi lamento certamente.
Come si vede i gusti musicali sono millanta e lo spettro intero è più o meno quello che va da Stefano da una parte a me dall’altra. In questo spettro, come avete giustamente scritto, le etichette sono più o meno solo un metodo per mettere ordine, ma non caratterizzano certamente quello che ognuno di noi vuole avere dalla musica. Ognuno ha i suoi gusti, tutti perfettamente legittimi. L’unica cosa che posso dire per finire è che in tutto questo ho un sincero e profondo compatimento per coloro che non capiscono e dunque non amano la musica. Di tutte le arti è quella più primordiale, diretta e immediata e chi non riesce a comprenderla è semplicemente cieco culturalmente per l’espressione forse più profondamente umana che ci sia. Per cui è uno che è e resterà per sempre povero d’animo. Mi dispiace, ma è così.
Basta. Con il prossimo (molto prossimo) pezzo ricomincerò a parlare di basket. Ce ne sono di cose da dire, a cominciare dagli Europei femminili con i Mondiali maschili alle porte. Degli sconquassi di mercato nell’NBA parlerete voi, dunque saremo coperti.
Ah sì. Avuta la liberatoria, eccovi il testo della poesiola che mi è stata dedicata alla Sconvenscion. A parte l’eccessiva enfasi finale mi è piaciuta tantissimo la parte centrale che indica che i miei amici, come presuntuosamente considero quelli che vengono ai raduni bi-annuali, cominciano a conoscermi bene.
“Vogliam ringraziarti per ciò che hai insegnato/ sperando qualcosa di aver imparato/ Ripensiam a quel basket e al suo telecronista/ alla mamma di Dončić e a chi non l’ha vista/ Siam qui a celebrare il tuo esser sloveno/ le radici salde nel carso terreno/ le tue parole van contro il vento/ la schiena dritta, senza spavento/ il tuo esser caparbio, l’anima pura/ avanti ancora senza paura/ Farem tesoro della tua favella, la mamma di Dončić è proprio bella/ Infin ti diciam qui, tutti ed ognuno:/ per noi sarai sempre il numero 1!”
Ripeto: a parte l’esagerazione finale roba da lacrimuccia neanche tanto nascosta. Ragazzi, grazie ancora, veramente di cuore.