Volevo accennare anch’io alle irresponsabili e farneticanti parole neo-irredentiste pronunciate domenica a Basovizza. E finché Salvini dice che nelle foibe vennero gettati i bambini come a Auschwitz…va be’, si sa, un fascista rimane tale e dunque che dica certe cose non meraviglia, ma che il Presidente del Parlamento europeo si lasci andare a esclamazioni totalmente grottesche e fuori dal mondo nell’anno del signore 2019, a 74 anni dalla fine della guerra (per la prospettiva storica: dalla fine della guerra sono passati tanti anni circa come ne passarono dal Congresso di Berlino all’inizio della seconda guerra mondiale, dunque un bel po’ di tempo con tante cose che sono successe in mezzo, che ne dite?), questo onestamente non me lo sarei aspettato neanche negli incubi notturni da indigestione. Però avete detto tutto voi, e soprattutto lo ha fatto in modo eccellente il corrispondente di Severgnini, per cui io aggiungo solo che purtroppo le cose a mio avviso non cambieranno mai per una semplice ragione: che in Italia sono state dimenticate, o volontariamente rimosse due cose fondamentali: 1) che la guerra sul fronte italo-jugoslavo l’ha cominciata lei e che 2) poi questa guerra l’ha persa senza se e senza ma con la rotta dell’8 settembre.

 

Però proprio oggi 12 febbraio, girando pagina del Primorski dnevnik dopo aver letto delle cose di cui sopra su due pagine con commenti di ogni tipo, soprattutto illuminante quello dello storico triestino Raoul Pupo, mi sono imbattuto in una notizia molto più bella che si aggancia direttamente a quanto scritto nel pezzo precedente che da questo punto di vista sembra quasi profetico. L’Unione europea promuove ogni anno una competizione per giovani traduttori, studenti dei vari licei. Quest’anno il primo premio per l’Italia è stato vinto da una ragazza di Ronchi, Giulia Rorato, che i genitori, ambedue italiani, hanno mandato all’asilo sloveno, da lì in poi ha frequentato le scuole slovene ed ora frequenta il quarto anno della sezione linguistica del Liceo France Prešeren di Trieste. La ragazza ha tradotto in italiano un pezzo di un saggio scritto in sloveno ed è stata premiata per la precisione, accuratezza e proprietà di linguaggio dimostrati. In una breve intervista lei stessa dice che tradurre è un po’ il suo mestiere da quando era piccola, in quanto frequentando le scuole slovene il suo compito è stato sempre quello di tradurre a genitori e parenti quello che aveva sentito a scuola, per cui la cosa le viene naturale.  A me questa notizia sembra arrivare da un’altra e molto più piacevole galassia rispetto alle vomitevoli brutture di cui parlavamo all’inizio. E se il mondo tutto sommato, una volta che noi vecchi, amari e esacerbati bacucchi avremo levato le tende, sta andando almeno in questo campo nella direzione giusta? Lasciatemelo sperare. Non costa nulla.

E finalmente arrivo alla seconda puntata del capitolo iniziato la volta scorsa. Inizio dalla mia esperienza personale. Quando iniziai a fare il telecronista, proprio per l’ambiente bilingue, se non trilingue (un tronco cospicuo della mia famiglia paterna si era trasferito, chi prima, chi poi, a Vienna, per cui spessissimo, sia che d’estate andassimo noi a Vienna, sia che la famiglia della zia venisse per qualche giorno a fare visita a noi, a casa sentivo parlare tutti in tedesco e mi arrabbiavo perché non capivo una parola di quanto dicessero) nel quale ero stato allevato mi sembrava solo normale, un banale segno di buona educazione e di rispetto per coloro che parlavano una lingua diversa, che tentassi di capire come venivano pronunciati i cognomi dei giocatori delle squadre straniere. Si trattava anche di una normale curiosità intellettuale e culturale che mi sembrava naturale per ogni persona desiderosa di conoscere un po’ il mondo al di fuori dell’angusto recinto del cortile di casa. Con gli anni mi sto sempre più rendendo conto di che fortuna abbia avuto ad avere questo atteggiamento culturale praticamente instillato già nella culla, soprattutto confrontandomi con colleghi italiani tout court che di una simile necessità non ne percepiscono l’importanza avendo sempre avuto a che fare solamente con gente che parlava la loro stessa lingua. Un po’ come uno abituato da piccolo ad avere un orecchio stereofonico rispetto a chi ne aveva uno rigidamente monofonico e che non si rendeva proprio conto che esiste anche la stereofonia, che esistono cioè orizzonti più ampi. Con questo atteggiamento, una volta che finalmente noi di Capodistria cominciammo anche ad andare a fare telecronache di grandi eventi internazionali sul posto, era perfetta routine che prima di ogni telecronaca bussassi alla porta della cabina del commentatore della TV della squadra avversaria e che mi facessi leggere da lui i nomi dei suoi giocatori per poi tentare di copiarne nel miglior modo possibile la pronuncia.

E qui faccio una digressione facendo mio l’appunto che fa Roda. L’amico non sa quante ore abbiamo passato a TV Capodistria per tentare di affrontare proprio il nodo a cui lui accenna e tentare di trovare una soluzione di compromesso che salvasse più o meno capra e cavoli. Il problema è proprio quello: copiare perfettamente le pronunce delle varie lingue è impossibile per chi quella lingua non la parla, per cui dire il cognome come lo dice un indigeno sarà sempre impossibile. Però una via di mezzo fra le moine alla Bragagna (l’ho già scritto una volta e lo ripeto: se anche nelle altre lingue commette gli stessi strafalcioni che commette quando vorrebbe fare il saccente e pronunciare un cognome slavo, cioè di lingue che personalmente parlo e che dunque so benissimo come si pronunciano, allora siamo veramente freschi) e il telecronista francese che chiamava il mitico Kaiser Franz “Bescenboiè” ci deve pur essere e sta a noi gente del mestiere trovarla. Alla fine sono convinto che il compromesso giusto sia anche quello più ovvio: pronunciare il cognome usando i fonemi presenti nella lingua nella quale si parla che più si avvicinano a quelli della lingua “straniera”, senza forzature ma anche senza strafalcioni. Prendo ad esempio l’olandese, una lingua per la quale la mia teoria, che si inserisce nel filone delle mie teorie strampalate, alcune delle quali ho già avuto modo di esprimere, è che sia una lingua condizionata dalla perenne alta umidità di quelle terre con conseguenti bronchiti croniche dei suoi abitanti, per cui di base è una lingua che sembra un’incessante scatarrata. Ricorderò sempre quando a Zagabria nel 1976 il telecronista olandese volle darci la formazione che sarebbe scesa in campo quella sera nella semifinale dell’Europeo contro la Cecoslovacchia. “Comincio con il portiere che è ovviamente Skraeifers” – il tutto condito dall’inevitabile scatarrata. Chi? Quello che noi chiamavano Šrivers? Era solo ovvio che quel cognome, come lo aveva pronunciato il collega, era totalmente impossibile replicarlo. Però era altrettanto ovvio che chiamandolo Skreifers era meno sbagliato, ma soprattutto era molto più rispettoso nei confronti degli olandesi, che chiamarlo Šrivers. Per esempio c’è una nuotatrice il cui cognome si scrive Nijhuis. Sapendo (basta fare un’elementare ricerca) che il dittongo “ij” si legge “a(e)i” e che il dittongo “ui” in quel contesto si legge come “au” viene da sé che una lettura sufficientemente corretta di quel cognome è “Na(e)ihaus”, il che fra l’altro, avendo una conoscenza di base delle lingue germaniche, fa sì che uno capisca subito che in realtà sarebbe niente meno che il nostro “Casanova”. Ecco, io continuo a meravigliarmi quando qualcuno dimostra una totale mancanza di curiosità intellettuale in merito. A me queste cose piacciono tantissimo e sono sempre contento quando risolvo piccoli enigmi linguistici di questo tipo. E penso che ogni persona un tantino curiosa di come vanno le cose al mondo dovrebbe avere questo tipo di interesse.

Ragion per cui mi dà proprio un fastidio fisico quando sento per esempio alla RAI Labate e De Chiesa discorrere fra loro quando scende il discesista sloveno Martin Čater (prendendo ad esempio il mio cognome saprete tutti che si pronuncia “Ciater”): “Ecco ora scende lo sloveno Kater” fa Labate al che De Chiesa “Ho parlato con gli sloveni e sembra che la pronuncia giusta sia Ciater” e quell’altro “Sarà, ma noi continuiamo a chiamarlo Kater, non ce ne vorrà” con De Chiesa che annuisce e conferma. Ecco, un dialogo del genere denota secondo me: a) ignoranza e totale mancanza di voglia di eliminarla, b) mancanza totale di rispetto nei confronti di un altro popolo e di un’altra lingua e c) una disinformazione nei confronti degli spettatori che dai commentatori dovrebbero ricevere informazioni anche non strettamente inerenti al risultato ed alla prestazione sportiva. Uno normale, secondo me, uno a cui danno in mano un microfono, non dovrebbe essere un bifolco e qualche infarinatura di cultura generale, soprattutto linguistica, dovrebbe pur possederla se vuole fare il mestiere di telecronista, per cui esigerei che il suo livello di cultura linguistica fosse tale per cui sapesse che nelle lingue slave quando si vede scritta una “c” si legge per forza o “tz” o, se ha il segno sopra, “tch”, ma mai, tassativamente mai, come “k” per la quale le lingue slave, appunto, usano sempre e comunque la kappa. Per cui se Labate legge Tzater mi va anche bene, ma se legge Kater e, quando gli dicono che si legge Ciater, ancora insiste dicendo che non è importante, è semplicemente un cafone.

In questo tipo di discorso quanto scritto l’altra volta sulla capacità dei singoli popoli di imparare le lingue è molto relativo e tantissimo dipende dai singoli. C’è per esempio un telecronista inglese di ciclismo su Eurosport (scusate, ma le telecronache in italiano su Eurosport, qualsiasi sport sia, a parte dove c’è Ambesi che di sport invernali, per quanto a volte sia portato a farla un po’ fuori dal vaso, è uno che ci capisce tantissimo e soprattutto sa e conosce tutto, non riesco proprio a seguirle – sono riusciti a rovinare anche Trigari, se ha detto quello che ha detto di Prepelič, che pure è amico mio e garantisco che parlandoci a quattr’occhi è uno che veramente capisce di basket), molto significativamente non la prima voce, che è fondamentalmente un super appassionato di ciclismo, ma abbastanza scemo, la seconda voce, dicevo, che è uno che pronuncia perfettamente tutte le lingue romanze e che durante il Giro d’Italia dimostra non solo di saper pronunciare perfettamente l’italiano, ma anche di parlarlo in modo corretto. Inglese, dico, dunque per stereotipo uno che di lingue straniere non dovrebbe sapere niente. Fra l’altro normalmente fa coppia con un tecnico che parla con smaccato accento scozzese, anche lui molto bravo, e quando sono assieme seguo le loro telecronache con grandissimo piacere. Nello stesso tempo c’è a Sky il telecronista della Bundesliga che di cognome fa Nicolodi che è in realtà un sovversivo, nel senso che la sua stessa presenza dimostra che anche in Italia, volendo, si potrebbe fare. Intanto non sbaglia un cognome tedesco, e questo per un italiano è già una prodezza senza pari, non solo, ma mi sono trovato a fargli una standing ovation quando ha nominato il centrocampista ceco dell’Hoffenheim giustamente “Kaderžabek”, visto che sulla “r” del suo cognome c’è il segnetto che c’è sulla “c” del mio cognome e che fa sì che la “r” si pronunci “rž” come per esempio in Dvoržak, famoso compositore ceco. L’apoteosi c’è stata quando ha chiamato l’ungherese che si scrive Szallai giustamente “Ssa(o)llai” sapendo che “sz” si legge in ungherese come una “s” molto sibilante e che l’“a” accentata è una “a” molto, molto chiusa, quasi una “o”.

Dunque volere è potere, qualsiasi sia l’origine e il background linguistico che uno possa avere. Il problema secondo me è che per fare il telecronista bisognerebbe volere sempre e comunque. Se non vuoi sapere cambia mestiere. Fa anche rima.