Sergio Tavčar

Sergio Tavčar

Parte seconda sugli Europei. A Lubiana, prima della semifinale fra la Spagna e la Francia parlavo con il mio mentore, il professor Milutin “Mik” Pavlović, a suo tempo Preside della Facoltà del basket all’Istituto Superiore di Educazione Fisica di Lubiana, quello che aveva tenuto tutti i corsi di coach che ho fatto in carriera e che a suo tempo aveva fatto due campus, uno a Opicina e uno a Lubiana di una settimana ciascuno, nei quali aveva allenato le mie squadre mostrandomi come si faceva ad allenare una squadra giovanile, è stato anche allenatore dell’Olimpija, insomma un mammasantissima del basket a cui devo tutto quello che so su questo sport. Mi disse: “La Spagna è forte, però i giocatori mi sembrano (scusate, ma devo usare questa parola, perché è l’unica che rende l’idea) scazzati fin sopra la testa e danno l’impressione di giocare solo perché l’anno prossimo hanno i Mondiali in casa.” Con ciò è detto tutto e non ho nulla da aggiungere. Sicuramente la loro indolenza e la piattezza delle loro reazioni alle varie situazioni in campo può facilmente spiegarsi con questa attitudine mentale che, a vederli dal vivo e una volta attirata l’attenzione su questo aspetto, appariva quasi palpabile. In realtà non hanno mai dato l’impressione di tenerci veramente. Se potevano vincere, bene, se no, pazienza. Poi, è ovvio, ci sono state altre carenze estremamente importanti, però secondo me nessuna così importante come quella appena menzionata. Il problema principale era a mio parere la pessima chimica di squadra. Penso che siamo in presenza di un cambio generazionale, non tanto tecnico, quanto di gerarchie di spogliatoio. Fino all’anno scorso comandava il nucleo storico dei Gasol, Navarro, Reyes e Calderon, i campioni di tutto dai cadetti in poi, ai quali per ovvie ragioni di parentela si è aggiunto Marc, con gli altri che andavano silenziosamente a ruota. Ora, con Pau in tribuna, Navarro e Reyes a casa e Calderon abbastanza bollito (sembrava Lakovič) questa struttura si è sgretolata, solo che Marc e Calderon sembravano non essersene accorti. Però, e qui è secondo me la massima colpa di Orenga (su quelle tecnico-tattiche lascio che vi sbizzarriate voi, tanto in questo caso tutto vale), il coach ha guidato la squadra come se queste gerarchie fossero ancora valide facendo in modo che la squadra fosse senza leader riconosciuti. Marc e Calderon volevano esserlo, Rudy e il Chacho dall’altra parte se ne strafischiavano e giocavano assieme a Llull come se fossero nel Real e non nella Seleccion, gli altri erano pallidi comprimari, compreso Rubio che non ho mai visto in vita mia con la faccia così triste, in quanto mi pare che si rendesse conto che in questo quadro non era di alcun aiuto, semmai di nocumento e quasi si meravigliava quando giocava probabilmente chiedendosi: “Ma cosa ci sto a fare in campo?”. Bella domanda, peraltro, che ci ponevamo tutti. Come per la presenza costante di Turkoglu nella Turchia che è stato in ogni partita di gran lunga il miglior giocatore degli avversari. (Per continuare a leggere clicca sotto su “leggi tutto”)

Capitolo jugoslave. A proposito, inciso: perché si continua a usare la definizione ex-jugoslave? Perché ex? Sempre lì sono e non hanno cambiato etnia. Secondo me sarebbe sempre ora, adesso che si sono decantate tante passioni e le giovani generazioni neanche sanno, se non dai libri di storia, che esisteva uno Stato di nome Jugoslavia, di cominciare a usare l’espressione jugoslavo come attributo puramente geografico senza alcuna connotazione politica. Dire jugoslavi significa dire: “slavi che vivono nel sud dell’Europa, principalmente nella penisola balcanica”, cioè gli slavi divisi dai fratelli del nord dalle successive occupazioni dei loro territori dai tedeschi all’ovest e dai magiari a est. Non è più semplice dire jugoslavi e basta? Dunque, tornando a bomba. Considerazione che accomuna tutti: la scuola jugoslava sta svanendo, purtroppo, e sono, ahimè, perfettamente d’accordo con quello di voi che si chiede perché gli jugoslavi, soprattutto i serbi, siano sempre più simili agli altri europei, mentre invece i baltici continuano a essere tali anche nella concezione del gioco. Una volta, senza sapere nulla, se entravi in una palestra durante una competizione giovanile con squadre di diverse nazioni i serbi li riconoscevi subito, da come si comportavano, da come giocavano, dalla loro attitudine mentale, da come si muoveva il coach, da tutto. Come riconoscevi gli altri jugoslavi dalla scuola, dalla tecnica, dalla filosofia di gioco. Potevi confondere magari croati e sloveni, bosniaci con montenegrini o macedoni, ma tutti giocavano più o meno allo stesso modo. I serbi no, loro erano inconfondibili. Ho paura che sia un fenomeno irreversibile. L’Europa si sta omogeneizzando, i giovani hanno molta più facilità di comunicare a distanza con i coetanei grazie alle nuove tecnologie, i gusti stanno diventando comuni dappertutto e, soprattutto, decisivo, il basket non è più per nessuno ragione di vita. Come ha detto Vilfan concludendo la strepitosa serata di Capodistria: “Noi vivevamo il basket. Andavamo a scuola e pensavamo al basket, eravamo con la ragazza e pensavamo al basket, tutta la nostra vita era il basket. Per cui volevamo eccellere e avremmo dato qualsiasi cosa per essere bravi nel gioco che era tutta la nostra vita. Si può dire la stessa cosa oggigiorno? No, di certo.” Quando si spegne la scintilla che ha acceso e poi alimentato il sacro fuoco che ha fatto sì che ci fosse quasi una simbiosi fra il basket e la Jugoslavia (stavolta sì intesa come Stato), letteralmente crolla il palco. Certo, se si mettessero assieme i 12 migliori giocatori jugoslavi e li si facesse giocare sotto la stessa bandiera, si avrebbe una squadra molto forte, ma non tanto quanto forse crede qualcuno. I campioni semplicemente non ci sono più. Ci sono tanti giocatori bravi, tutti però con evidenti limiti, chi tecnici, chi di comprensione del gioco (chissà perché quando indico quest’ultima categoria mi viene immancabilmente in mente Goran Dragić), però la scintilla del genio non la vedo in nessuno.

E ancora in merito due altre cose. Perché la diatriba sul mancato impiego di Joksimović su Parker lo considero una bufala? Perché come ormai saprete sono un’anima semplice e dico che, quando in un tempo fai fare allo squadrone avversario 26 punti, però lo perdi di due, allora nel mio animo ingenuo reputo che il problema fosse l’attacco e non certo la difesa. Per non dire che di questi 26 punti i francesi ne hanno segnato almeno 10 da rimbalzi in attacco. L’unica tripla di Parker nel primo tempo è stato un tiro preso dopo il secondo consecutivo rimbalzo offensivo francese sulla stessa azione e lì, sulla riapertura immediata dopo il rimbalzo d’attacco, è assolutamente ininfluente chi lo marcasse, perché la difesa ovviamente in situazioni del genere non è piazzata. Se poi in attacco fai 1 su 14 da tre con tutti tiri aperti non è certamente Joksimović, che è tutto fuor che un attaccante, che poteva rimediare.

Dario Saric (foto Fiba.com)

Dario Saric (foto Fiba.com)

Secondo: ho sentito accostare il nome di Šarić a quello di Kukoč. Non bestemmiamo, per favore. Fra i due ci sono almeno due pianeti di differenza. Toni era un genio assoluto dotato anche di straordinarie doti fisiche. C’è qualcuno che si ricorda di una sua schiacciata a difesa schierata partendo dalla linea del tiro libero contro il Barcellona al McDonald del ’90 (fra l’altro aveva appena compiuto 22 anni, tanto per dire dei giovani)? Šarić è un bravo giovane che capisce di basket, che è versatile, che può giocare in molti ruoli (e in nessuno proprio bene perché è troppo lento per giocare all’ala piccola e troppo debole fisicamente per giocare sotto). A Lubiana ho chiesto a Skansi la sua opinione su Šarić e mi ha confermato quanto sospettavo: “E’ un ottimo talento, che è però rimasto allo stato grezzo, soprattutto perché nessuno ha lavorato su di lui dal punto di vista fisico. Il suo problema sono le gambe gracili che, se vuole diventare qualcuno, deve per forza rinforzare. Hai notato che quando va in entrata gli mancano sempre le gambe sull’ultimo passo?” Ciò non toglie comunque che nel desolante panorama odierno sia l’unico giovane assieme allo svedese Hakansson e al serbo Micić che si sia visto agli Europei (ho la mentalità jugoslava, per cui per me giovane vuol dire massimo nato nel ’94).

Livello medio. Triste. Gioco fisico, grandi spinte, intimidazioni a ogni pie’ sospinto, arbitraggi pessimi (ma dove li hanno trovati?) e soprattutto contrari allo spirito del gioco, permettendo cose turche ai violenti. Inutile, per me stoppata vuol dire contatto pulito sul pallone e basta. Se mentre prendo il pallone sposto con il corpo l’attaccante di due metri facendolo schiantare contro i cartelloni, per me, antico appassionato, è fallo tutta la vita. Se poi finisce sui cartelloni è anche antisportivo per definizione. Come era una volta. Ma, nostalgie di gioco pulito a parte, sono stufo di vedere il gioco che sempre più somiglia a quello scheletrico dell’NBA. Si parte con un pick and roll, si prosegue con un altro e si finisce con uno scarico all’angolo per la tripla. Tutto qua. Come ho avuto modo di scrivere per il Primorski, se solo fossi nato 30 anni più tardi la mia vita sarebbe stata dedicata a tutto meno che al basket. Io da piccolo mi sono innamorato di tutto un altro sport, la famosa atletica giocata di Aldo Giordani, soprattutto giocata. Forse oggi sarei un giocatore di golf, se già avessi fatto qualche attività. Per fortuna sono nato in tempo per vedere il basket vero, innamorarmene e farne una ragione di vita che ancora oggi mi dà da mangiare. Per fortuna.