Con Franz e Llandre ci vediamo ad ogni sconvenscion, siamo amici, ci vogliamo bene e ci stimiamo, Franz addirittura mi ha dato una mano decisiva quando mi si era fulminato Internet mandandomi a casa un bravissimo tecnico, insomma non so da che parte prendere e come presentare quanto sto per scrivere. Forse per mettere le mani avanti proporrei una minisconvenscion fra noi tre in un futuro il più prossimo possibile per dirimere le nostre questioni e dircele tutte in faccia a sei occhi davanti a un buon bicchiere di quelli giusti.

Il minicommento di Llandre sul passaggio nel quale afferma di non essere d’accordo su quanto sostengo in merito alla cultura del playground e le ragioni che espone devo confessare che mi hanno fatto sobbalzare sulla sedia e la mia faccia è immediatamente diventata di un bel rosso paonazzo. Poi mi sono calmato un tantino quando Llandre ha articolato meglio il suo pensiero sull’ovvia obiezione di Edoardo-Hawkeye. Però il problema di fondo rimane.

La cosa che mi meraviglia è che Llandre e tanti altri, persone che conosco bene, intelligenti e di ampia cultura, non riescano proprio in questo campo a vedere le cose da una prospettiva più elevata, cosa possibile solamente se ci si astrae dall’attuale pensiero dominante, che è un pensiero a due dimensioni, x e y, senza che quasi nessuno si accorga che esiste anche una dimensione z che è peraltro quella di gran lunga più importante delle tre. Nel concreto. Il basket, volenti o nolenti, è uno sport di squadra, su questo non credo ci possano essere obiezioni. Ho avuto già modo di dire e scrivere che le libertà individuali di interpretazione all’interno di uno sport di squadra sono inversamente proporzionali al numero dei componenti della squadra stessa. Nello sport di squadra a un giocatore, che per quanto sembri incredibile esiste e si chiama tennis, in quanto nel tennis vengono esaltate le doti, oltre a quelle fisiche e di istruzione tecnica ovviamente, soprattutto di inventiva, creatività, furbizia, capacità di adattamento e soprattutto velocità di pensiero il più possibile supersonica, che caratterizzano i giochi di squadra, nei quali ogni tua azione dipende dalla pre o contro azione del tuo avversario con lo scopo alla fine di essere più bravo o meglio ancora furbo di lui per poterlo battere, nel tennis dicevo la tua libertà è illimitata e dipendi solo da te. Già nel doppio di tennis le cose cambiano radicalmente e ogni giocatore della coppia ha le sue mansioni. Per esempio la sola presenza del compagno a rete fa sì che il giocatore al servizio non sia più libero di servire come farebbe se giocasse da solo. Mi sembra inoppugnabile che il fatto stesso di essere in campo in più di uno presupponga un elementare e ovvio adeguamento al compagno o compagni con lo scopo finale di far vincere la squadra. Il che può succedere se e solo se tutti remano nella stessa direzione, cioè provano a ottimizzare il rendimento complessivo che è tutt’altra cosa rispetto alla somma del rendimento dei singoli. E mi sembra altrettanto ovvio e inoppugnabile che più componenti ha una squadra più la necessità di sincronizzare le azioni sia fondamentale. L’ho già detto, ma lo ripeto, in quanto repetita juvant (si spera), che dall’altra parte dello spettro degli sport di squadra rispetto al tennis c’è il rugby con i suoi 15 effettivi giocatori di movimento (cioè senza portieri, in sostanza). Ora proviamo a fare uno sforzo di fantasia e, visto fra l’altro che fra chi mi legge ci sono tantissimi estimatori e appassionati di rugby, loro non solo faranno questo sforzo di fantasia senza problemi, ma potranno anche subito con molta maggior cognizione di causa dire se lo scenario che propongo è plausibile o meno. Immaginiamo un playground di rugby. Arrivano in una quarantina, i due più bravi sorteggiano i compagni, si mettono in campo e giocano. Voi rugbisti potrete dirmi cosa ne viene fuori? Secondo me ne viene fuori un caos indescrivibile con ogni squadra che va in meta come e quando vuole, visto che dall’altra parte lasciano buchi incredibili non avendo alcun tipo di amalgama, o forse non si segna neanche una meta perché quello con il pallone non ha alcun tipo di riferimento accanto a lui, e non sa proprio a chi potrebbe dargliela, la palla, per cui corre da solo ed alla fine qualcuno lo abbatte. Delle fasi di mischia aperta (di maul, può essere?) e di sostegno dell’azione dopo uscita del pallone dalla mischia non se ne parla neanche. Quanto si divertirebbero questi 15 presi a caso? Secondo me esattamente niente. E ciò proprio perché il rugby è la quintessenza del gioco di squadra. O gioca la squadra o non si gioca. E solo entro strettissimi obblighi di squadra possono rifulgere i singoli. Se per caso impazziscono e vorrebbero fare loro quello che spetta agli altri tipo, che ne so, un pilone che si sostituisce al mediano di mischia per aprire l’azione, verrebbero subito ricoverati in manicomio e non giocherebbero mai più a rugby. 

Ora il basket, mi sembra, si gioca in cinque contro cinque, cosa che ne fa un gioco di squadra. Me lo concedete, spero. Essendo in cinque le libertà individuali sono maggiori rispetto al rugby, ma le limitazioni imposte a queste libertà dal fatto che in campo ci sono altri quattro compagni ci sono, e come se ci sono, maledizione! Nel pezzo precedente scrivevo dell’attenzione maniacale data in Jugoslavia agli aspetti della tattica individuale, cosa fra l’altro che si faceva anche in Italia, almeno a Trieste tanti anni fa quando ho iniziato io a allenare e mi abbeveravo delle conoscenze dei grandi anziani (cioè io a 18 anni li vedevo tali) che avevamo a Trieste, parlo della fine degli anni ’60, cioè 50 anni fa più o meno. Attenzione che secondo me ha reso grande il basket jugoslavo, perché la primissima cosa che si doveva imparare lì era il concetto che il basket è uno sport di squadra, ponendo l’accento proprio sul concetto di squadra prima di ogni altra cosa, perché senza capire questa verità fondamentale non si potevano sviluppare in modo armonico e produttivo le proprie qualità individuali, in quanto avendo una volta in mente ben impresso il fatto che a vincere deve essere la squadra si imparavano le cose individuali che ognuno sviluppava secondo le proprie capacità che servivano al successo e si abbandonavano, o meglio a suon di sganassoni te le faceva abbandonare l’allenatore, quelle che non servivano o, peggio ancora, recavano danno. Per quanto belle potessero essere viste a sé. Che fossero belle di per sé, se non servivano alla squadra, erano severamente proibite. E comunque una volta che facevi una figata senza senso erano già i compagni che ti facevano capire in modo molto persuasivo che la prossima volta era molto, ma molto meglio se certe cose le mettevi da parte. “La prossima volta che lo fai ti uccido con le mie mani” era la frase più blanda usata in questi casi. Insomma si imparava in stretto ordine cronologico: a) che il basket è un gioco di squadra e che saper giocare di squadra è fondamentale e b) che in questa ottica le tue qualità individuali devono essere sviluppate solamente in un contesto di utilità per il fine ultimo, che è quello che vinca la squadra.

Questa è stata da sempre la stella polare che mi ha indicato la via per approcciarmi al basket prima come giocatore, poi come tecnico e infine come commentatore televisivo, una via che per nessuna cosa al mondo sarei pronto a tradire, visto che nella mia lunghissima esperienza i fatti hanno continuato a darmi ragione in questo mio approccio. Alla fine insomma ho sempre giudicato la carriera di un giocatore per quanto abbia vinto la sua squadra e soprattutto per come lui si sia inserito nel gioco di quella squadra, ripeto squadra, migliorando e nobilitando il gioco dei suoi compagni. Altri criteri di giudizio per un giocatore non ne ho mai avuti né mai li avrò.

Dopo questo preambolo (? – lunghetto?, beh allora chiamiamolo premessa), se qualcuno ha avuto la pazienza di leggermi con la dovuta attenzione potrà già da solo anticipare quanto avrò da dire. Allora tornando alla filosofia del campetto. C’è una differenza sostanziale fra i vari tipi di campetto. Uno è quello nostro al quale si recano per la maggior parte ex giocatori. I quali una volta sapevano giocare a basket mediamente in modo sostanzialmente migliore rispetto a quelli odierni, in quanto avevano già da piccoli assimilato il concetto che il basket è un gioco di squadra, per cui si muovono in campo in modo tale da rendersi utili in ogni momento agli altri compagni per agevolare il loro compito. E chi sa giocare di squadra non ha bisogno di mettersi d’accordo con i compagni, se non per un paio di veloci dettagli tipo su chi porterà la palla, chi andrà sotto canestro e chi marcherà chi. Il resto viene da solo. Se fra questi ex giocatori ogni tanto capita qualche giovane cestisticamente analfabeta, allora da un’esperienza del genere può solo trarre profitto, sempre che ascolti e che dia per scontato che i vecchi ne sanno infinitamente di più di lui. Cosa purtroppo oggigiorno tutt’altro che scontata, anzi rarissima visto anche l’ambiente sia familiare che scolastico di totale mancanza di regole, con tutti i diritti e nessun dovere, nel quale vivono i giovani di oggidì. Tutto un altro discorso vale per i playground americani nei quali vale la più primitiva legge della giungla nella quale prevale il più forte. Arrivando a questi campetti tutta gente che ha imparato a giocare a basket praticamente da sola o al massimo sfidando in qualche uno contro uno qualche amico, si tratta di gente che del basket non ha neanche la minima idea che sia un gioco di squadra nella quale si gioca in cinque contro cinque. Per cui ogni partita è necessariamente uno stucchevole cinque volte uno contro uno nel quale ovviamente la palla l’ha praticamente sempre il più forte e gli altri gli fanno semplicemente da supporto. E infatti il basket da playground si gioca in cinque contro cinque per pura e semplice tradizione. Non cambierebbe esattamente niente nella primitività della filosofia di gioco se si giocasse in quattro contro quattro o magari in sette contro sette.

Per questo dico che far uscire il basket dalle Università per relegarlo ad un’estensione del basket da playground è in essenza la definitiva sentenza di morte per il basket stesso, per come lo concepivamo noi. Sono perfettamente d’accordo con chi scriveva che oggigiorno anche il basket di college non è più formativo proprio perché, per la regola che si può fare solo un anno e poi andare nell’NBA, si è stravolto il significato stesso del college come esperienza formativa ed è diventato semplicemente un palcoscenico perché possano mettersi in mostra i futuri multimilionari schiacciatori e tiratori folli dell’NBA. E’ chiaro che il college potrebbe riprendersi il suo insostituibile ruolo solo se si tornasse alle vecchie regole dei quattro anni obbligatori con una clausola di indigenza “vera”. Ovviamente del tutto fuori dai tempi, per cui anche il basket di college è moribondo, anzi come basket è già defunto e senza scopo se non quello di riunire alle partite le bande degli studenti ed i vecchi studenti ora sostenitori finanziari del college stesso. Una volta spogliato delle coreografie sugli spalti e delle cheerleaders è tecnicamente totalmente inutile. E in questo contesto si può dare addirittura ragione a quanto detto da Simmons che già un anno è troppo. Di questo tipo di college sì, senz’altro. E infatti sono già un paio d’anni che non guardo più le partite NCAA perché le ritengo inutili, oltre che francamente totalmente inguardabili. Se già l’NBA, nella quale giocano tutti i migliori fra i quali anche tanti europei cestisticamente più istruiti, è una pizza, immaginarsi un calderone di giovani totalmente ignoranti di basket (sempre nell’ottica di conoscenza del basket descritta all’inizio) che pensano di sapere tutto e ai quali soprattutto della squadra non potrebbe fregare di meno, in quanto tutto quello che vedono sono i dollaroni dell’NBA che metteranno il prima possibile in tasca se solo avranno i famosi numeri giusti. E infatti, per quanto Franz possa non essere d’accordo, le varie prime scelte hanno di anno in anno un impatto sempre minore sulle squadre nelle quali capitano, per quanto fenomeni potessero sembrare al college.

Da tutto quanto scritto sopra potete facilmente capire quale sia la mia considerazione per giocatori quali Harden o Westbrook. Proprio ieri in ufficio parlavo con Robi Siljan, mio collega e eccellente giocatore di basket (ai suoi tempi), uno che per fortuna ne capisce di basket e infatti le nostre chiacchierate sono molto noiose, perché ci troviamo d’accordo su tutto. Senza che lo provocassi a un dato momento ha detto: “Io l’NBA proprio non la guardo, soprattutto se ci sono Houston o Oklahoma City. In quelle due squadre potrei giocare anch’io, in quanto non cambia nulla quando non si vede palla per tutta la partita o la si vede casualmente ogni tanto perché il padrone della squadra deve riempire qualche statistica. E correre su e giù per il campo per fare numero lo saprei fare anch’io.” Non ho nulla né da correggere né da aggiungere.

E infine dulcis in fundo (o in cauda venenum, fate voi) il discorso della costruzione della squadra, tipo quella di Divac a Sacramento. Ho visto casualmente una partita di Sacramento mi pare contro Portland. Non conoscevo i giocatori, ovviamente, ma avevo visto dei highlights di questo De’aron Fox o come cavolo si scrive il suo nome che mi avevano subito fatto alimentare il sospetto che sia il classico zompatore decerebrato tanto di moda in questi tempi. E grande è stata la mia meraviglia quando durante la partita l’ho visto fatto fare anche cose umane da basket. E mi sono detto: “forse allora non è tanto mona”. Poi sono arrivati gli ultimi minuti nei quali questo sciagurato, a partita virtualmente in cassaforte, ha fatto tante e tali cazzate di principio, facendo cose che nel quadro di un gioco di squadra sono totalmente incomprensibili per non dire inesistenti, da riuscire a perdere la partita. Per cui l’ho subito depennato dalla categoria dei potenziali giocatori di basket. Franz, tienitelo, te lo lascio volentieri. Ma se pensi che Sacramento possa diventare una squadra con lui come perno, sono pronto a scommettere con te il tesoro di Fort Knox che non potrà mai succedere.

E comunque in generale il discorso del prendo questo perché in questo modo riempio questo posto che è più debole di altri nella squadra, e allora per bilanciare prendo quest’altro tipo di giocatore per questo altro posto…eccetera, è un discorso che può andare bene quando si hanno a disposizione giocatori più o meno equivalenti. Quando si è invece di fronte a un genio tipo Dončić, uno di quelli che possiede anche la dimensione z, quella che i numeri non scoprono né rivelano, il discorso di sopra diventa del tutto idiota. Uno così lo si prende per primo a prescindere. Punto e basta. La squadra, con uno così in campo, si costruisce attorno a lui da sola. Come si costruirono i Lakers di Magic, i Celtics di Bird e la Chicago di MJ. A proposito: lui venne scelto al numero tre, se non sbaglio. Mi sapete dire cosa hanno vinto quelli che scelsero l’uno e il due perché si “inserivano meglio nel progetto” (e chi erano, fra l’altro – uno mi ricordo era un centro che poi si spaccò subito e che praticamente non giocò mai, dell’altro proprio non mi ricordo nulla)? E cosa e quanto ha vinto MJ partendo in una squadra che faceva ridere i polli? Il campione lo si prende e basta. 

In piccolo è un po’ il discorso di Zoran Dragić. Ripeto, confermo e sottoscrivo. Lui sano è un lusso per l’Alma. E non c’è discorso di “riempimento buchi” o “coerenza nel progetto” che faccia sì che io prenda un giocatore medio che “si inserisce” al posto di uno molto bravo che a volte, come si dice nel calcio, “può farmi reparto da solo”. Staremo comunque a vedere.