Avete presente Paperino quando sente la rabbia montargli e si vede il sangue che sale gorgogliando dalla pancia fino in testa e poi alla fine esplode? Ecco, questo è stato il sottoscritto quando ha letto i vostri commenti sul basket olimpico. Come vedete è arrivato il momento per me di parlare di basket e so benissimo che dopo quanto leggerete la percentuale di presenti alla prossima sconvenscion diminuirà drasticamente. Anzi sono molto curioso di vedere in quanti verrete ancora.

Prima di tutto archivio una volta per sempre, almeno dal mio punto di vista, la questione Wembanyama. Poi voi fate quello che volete. Io parto dalla semplicissima premessa che vedo con raccapriccio che tutti, ma proprio tutti voi, trascurate in modo per me angosciosamente colpevole. Noi siamo formati da fisico e testa che si formano e sviluppano in modo completamente diverso. E se il fisico cresce, si sviluppa, raggiunge a un dato il momento il massimo del rendimento e poi inevitabilmente comincia a deperire, la testa resta tale e quale per tutta la vita. Il carattere si forma per ragioni genetiche, di ambiente e di educazione, fate voi tanto alla fine è irrilevante come si forma, l’unica cosa importante è che in qualche modo si forma. Alla fine dell’infanzia uno ha un tipo di carattere che lo accompagnerà per tutta la vita e che potrà essere forse cambiato e plasmato in superficie, nel reparto interazione con i propri simili, ma che nell’intimo rimarrà sempre quello. Detto in breve, se uno è determinato e testardo, lo sarà per tutta la vita, se è nato pappamolla lo sarà altrettanto per tutta la vita. Ma la cosa più importante, detta in soldoni e molto crudamente, è che se uno è nato mona lo rimarrà per tutta la vita. La monaggine, come la chiamiamo noi a Trieste, rimane un dato totalmente immutabile e nessun coach potrà mai eliminarla. Su uno scalino più basso mettiamo l’imbecillità o magari la capacità di non arrivarci del tutto, ma queste caratteristiche sempre su quello scalino rimangono e nessun mago potrà mai far salire nessuno neanche di un gradino.

Come mi sembra lampante e banale uno nasce così e così rimarrà per tutta la vita. Per cui leggere che uno aspetta Wembanyama alla fine del terzo anno di NBA mi chiedo perché, di grazia? Forse che in tre anni avrà un’illuminazione da parte di qualche forza sovrannaturale che lo trasformerà da palla lessa inguaribile in un fiero guerriero senza paura? Io in questi miracoli non ci credo, per cui sono convinto che quello che è adesso, sostanzialmente un’ameba, lo rimarrà per sempre.  E la cosa è tanto più sconfortante se si prende in considerazione il potenziale smisurato che il suo fisico potrebbe esprimere, ma che mai, ripeto mai, e ne sono profondamente convinto, potrà essere, se non in minima parte, espresso. Personalmente penso che l’unica sua salvezza sarebbe stata quella, ovviamente fantascientifica, di nascere in Jugoslavia poniamo verso la fine degli anni ’60 e di essere poi svezzato dagli allenatori tipo obersturmbahnfuehrer che avevano lì in quei tempi e che sostanzialmente lo avrebbero preso a calci nel sedere fino dalla più tenera età facendogli alla fine capire, ed è un grande se ci sarebbero mai riusciti, che uno, con quelle doti e con quella smisurata statura, avrebbe dovuto essere semplicemente totalmente immarcabile nel pitturato. Dice: il tiro da tre porta il 50% di punti in più. OK. Però quanti punti in totale portano, poniamo, 30 schiacciate in una partita? Il compianto Artis Gilmore, uomo dalla mano totalmente anchilosata, era quello che aveva la più alta percentuale dell’NBA nel tiro da due semplicemente perché ogni canestro che faceva era in schiacciata o comunque da due centimetri dal canestro. E non scomodo qui Wilt Chamberlain perché lui era anche un grande giocatore di basket, oltre ad avere un grandissimo fisico, per cui ogni paragone è impossibile. Ragion per cui se uno come Wemba tira da tre è solo ovvio che non è a rimbalzo, dove potrebbe prendere tutte le carambole che passerebbero a distanza di arpionamento da parte dei suoi smisurati tentacoli trasformandole in facili canestri semplicemente facendo cadere la palla dalle sue mani che comunque arrivano ad altezze totalmente irraggiungibili dal resto dell’umanità. Per il tiro da tre esiste una sola eccezione, ed è l’ultimo tiro, quello della possibile vittoria. Lì sì che vorrei che tirasse lui, semplicemente perché dipenderebbe solo e esclusivamente da lui se lo segnerebbe, visto che sarebbe totalmente immarcabile. Per il resto che tirino i piccoli e che lui per favore vada a prendere il rimbalzo. Ma è deboluccio e gli altri lo spingono via. A questo punto mi viene in mente la barzelletta che mi raccontavano da piccolo. Uno va in un ristorante, appende il cappotto e lascia un biglietto con su scritto: “Questo cappotto appartiene al campione nazionale dei pesi massimi di pugilato.” Quando ritorna il cappotto non c’è più e al suo posto c’è un altro biglietto con su scritto: “Questo cappotto è stato rubato dal campione nazionale dei 100 metri piani.” Della serie prima di picchiarmi vienimi a prendere. La faccenda del fisico che sarebbe decisivo è una cosa che non ho mai capito. Da quanto ne so il basket non è (o almeno una volta non lo era) uno sport di combattimento nel quale prevale il più forte. Certo, quello ben piantato ha un grande vantaggio nel prendere posizione sotto canestro, però dall’altra parte c’è il fatto che uno più magrolino può sempre sfruttare a suo vantaggio la “leggerezza” semplicemente muovendosi più velocemente. Può apparire e sparire, nascondersi e riapparire, insomma può rendere il vagone ferroviario ridicolo girandogli intorno. Per far questo deve avere piedi veloci, ottima tecnica di gioco senza palla e di lettura delle situazioni di precario equilibrio del suo diretto avversario, deve avere una dote fondamentale che è quella di interpretare il momento per capire dove andrà a finire il pallone dopo il rimbalzo, insomma deve sapere giocare a basket. Qualcuno parlava di Ćosić che non era certamente un vagone, ma che guarda caso era una specie di piovra che catturava il pallone che passava dalle sue parti solo perché sapeva dove sarebbe andato a finire. Normalmente finisce dalle parti del canestro, per cui per prendere il rimbalzo sembra logico che uno debba trovarsi lì. Cosa che Wemba non fa mai, nel senso che quando parte il tiro di un compagno lui rimane lì a guardare, mentre ogni essere umano che gioca a basket e vorrebbe prendere il rimbalzo in quel momento dovrebbe tentare di depistare il difensore che sta facendo il tagliafuori per evitarlo, passargli accanto e magari anche davanti. Se, e sottolineo se, lui lo volesse potrebbe essere sempre lì visto che la sua magrezza gli permette di passare per ogni minimo buco e poi la sua elevazione aggiunta alla debordante statura farebbe il resto. In sostanza: se Wemba fosse un vero giocatore di basket questo sarebbe il suo modo base di stare in campo, al quale poi potrebbe aggiungere a mo’ di variazione il tiretto dalla media e, a fine partita, magari anche il tiro da tre se serve. Del gancio non parlo neanche: secondo me gli basterebbe un’estate di allenamento per imparare a farlo in modo devastante con ambo le mani da centro area, diventando semplicemente immarcabile. Sono convinto che se Wemba invece di essere un’ameba fosse un essere umano normale potrebbe fare 60 punti in un quarto e poi magari fermarsi per permettere anche agli altri di giocare. E tutto ciò già per come è adesso. Se pensate che un giorno lo farà perché avrà visioni e illuminazioni paranormali che lo libereranno dalla sua condizione di inguaribile palla lessa, liberi di crederlo. Tanto vale che crediate in Babbo Natale.

Parlando in generale di basket ripeto quanto ho detto. Quello che ho visto a Parigi era uno sport che aveva vaghe attinenze con il gioco che praticavo ai miei tempi e che era un gioco di squadra prima di tutto, nel quale i giocatori si muovevano in sincrono per il campo per trovare l’uomo più libero per un buon tiro. Ai miei tempi il tiro si considerava buono se era scagliato da vicino e più da vicino si arrivava a tirare, più il coach era contento. Una delle cose fondamentali era nell’1 contro 1 battere il proprio uomo, ovviamente, per poter poi sfruttare questo vantaggio con una serie di passaggi che avevano come scopo di portare un nostro uomo il più possibile vicino al canestro per un facile tiro da sotto. Il passaggio fuori era visto come un’azione tendenzialmente abortita a cui si tentava di rimediare sperando che magari entrasse il tiro da fuori o in subordine di poter competere per il rimbalzo. Qui aveva ragione Aldo Giordani: fu la Jugoslavia con la sua imbattibile batteria di tiratori micidiali a inventare il penetra-e-scarica, ma era pur sempre un’azione di gioco che sfruttava le mani fatate dei vari Kića, Praja e Mirza, ma state pur sicuri che Moka Slavnić di fronte alla scelta se dare la palla a un compagno per il tiro da fuori o servire magari Jerkov sotto canestro non avrebbe mai avuto alcun tipo di dubbio sulla scelta ovvia della seconda opzione. Si trattava semplicemente di aggiungere un’altra arma al fantastico potenziale di attacco di quella generazione, ma le priorità del gioco del basket tutti quanti le conoscevano e le seguivano fedelmente.

Questo tipo di gioco, parlo del penetra-e-scarica, è diventato produttivo con la funesta introduzione del tiro da tre e il gioco del basket ha preso una deriva che non è stata mai fermata e lo sta portando alla rovina, nel senso che sta diventando un gioco da circo, un tiro a segno puro e semplice. Riporto sempre in merito le preveggenti parole che disse Kićanović in un’intervista che gli fu fatta a fine carriera e nella quale gli chiesero se avesse rimpianti di non aver mai giocato con la linea da tre (smise di giocare proprio nell’estate dell’ ’84): “Neanche per sogno. Immaginate se io e Mirza avessimo giocato con la linea del tiro da tre. Ci avrebbero dato tre punti per ogni tiro normale che facevamo e allora che bisogno ci sarebbe stato di andare sotto canestro per prendere botte e fare solo due punti? Sarebbe stato un ignobile tiro a segno e sono molto contento di non avervi fatto parte”.  Parole sacre che si sono purtroppo avverate in pieno anche per la piega che ha preso il gioco del basket negli USA, quando da gioco di college è diventato gioco da playground, cioè un gioco dove non esistono squadre organizzate, ma solo singoli che si mettono in mostra indipendentemente con e contro chi giocano. Tutta la filosofia del basket si riduce a un 1 contro 5 continuo che diventa 1 contro 1, in quanto le difese per regolamento devono stare sull’uomo che tutti sanno che non riceverà mai il pallone e, sempre per regolamento, non possono andare a aiutare e raddoppiare. E allora lo stucchevole e abominevole uno contro uno continuo paga, visto che non si può difendere. Poi magari, se uno arriva a aiutare la palla viene per principio scaraventata fuori per un tiro da tre. E questa abitudine è ormai talmente inveterata che non si vedono più azioni di penetra-e-segna, come diceva Franco Stibiel (a Trieste tutti sanno chi è), neanche quando il penetratore arriva solo a mezzo metro dal canestro semplicemente perché guarda dappertutto meno che verso il canestro (altra cosa che ai nostri tempi era assolutamente obbligatoria, base stessa del gioco del basket) e in automatico scaraventa la palla fuori. A proposito, non venitemi a recitare la manfrina che il tiro da un metro o meno dal canestro è difficile. Nessun difensore è Dr. Octopus dell’Uomo Ragno, per cui ha due braccia sole, e c‘è dunque tutto lo spazio per tirargli non sulle braccia, ma magari sotto o da parte (non si pratica più, ma una volta esisteva una cosa che si chiamava finta) e, se da mezzo metro uno che fa il professionista del basket non è capace di metterla in canestro, è solo normale che cambi sport.

Basta così. Sono troppo schifato e non solo scrivere, ma anche pensare a questo scempio mi fa star male. Forse a un’altra volta la continuazione di questa tristissima geremiade. Ci sarebbe ancora tutto il capitolo sul completo stravolgimento dello spirito del basket con l’incomprensibile metro arbitrale in vigore oggidì e poi soprattutto il capitolo sullo specifico, sul perché di grazia nessuno sa più attaccare la difesa fisica, spaventativa, in anticipo sul passaggio degli americani invece di buggerarli facilmente con tagli dietro previa finta, come hanno fatto Papaloukas e Spanoulis in quel magnifico clinic di basket che è stata la semifinale dei Mondiali 2006 e il cui filmato dovrebbe essere materia obbligatoria in ogni corso di basket che si rispetti. Se esistesse ancora, il basket. Almeno da come viene insegnato non solo in Italia, ma ormai anche quasi in tutta Europa, sembra proprio che si sia definitivamente estinto.