Scusate il ritardo, ma la tanto attesa (da me) canicola non invita certamente ad elaborare pensieri profondi, e in più in queste ultime settimane c’è stata su Sky la maratona di tutti gli episodi di Castle (sono un appassionato delle serie giallo-rosa, tipo anche Bones o Rizzoli&Isles, ciascuno di noi ha segreti inconfessabili di cui dovrebbe vergognarsi, ma ormai sono arrivato ad un’età nella quale me ne strafrego di mantenere un contegno dignitoso), per cui ero impegnato intanto a guardare e poi ad immagazzinare gli episodi più interessanti per riguardarmeli con calma nei momenti di sconforto. E comunque Stana Katić è sempre un bel vedere. Ora è finita e dunque posso ritornare alle cose serie.

Intanto un abbraccio di cuore a tutti quelli che siete venuti alla sconvenscion. Se vi siete divertiti solamente la metà di quanto mi sono divertito io allora voleva dire che ne valeva la pena. Penso che si sia creata da subito un’eccellente chimica, dovuta probabilmente anche al fatto che dopo l’incubo dei due mesi di serrata la gente voleva incontrarsi e vedere gli amici dal vivo, chiacchierare e divertirsi con loro. Vorrei chiedervi comunque una cosa. Tutto quello di cui abbiamo parlato dovrebbe rimanere confidenziale. Non si sa mai. A me non interessa, ma tanti di voi sono ancora attivi nel mondo del basket e non vorrei che vi capitasse qualcosa di strano.

È anche ritornato alla grande lo sport agonistico. Lasciamo stare il calcio che so che non vi interessa, ma tanto per dire, anche a me che pure non lo disprezzo, anzi, vedere la scalcagnata amata Juve di questi ultimi tempi è stata una tortura che vorrei dimenticare al più presto. È ripartito il ciclismo, e ho potuto ammirare una bellissima Sanremo nonché la straordinaria esibizione di strapotenza che hanno palesato Roglič in Francia ed Evenepoel in Polonia. Se tanto mi da tanto al Tour ne vedremo delle belle. Io sono di una generazione per la quale il ciclismo era lo sport numero due, da piccolo seguivo alla radio le imprese del mio idolo assoluto Charlie Gaul, per cui mi piace sempre seguirlo e non vedo l’ora che cominci il Tour, soprattutto in quest’epoca nella quale stanno esprimendosi giovani talenti incredibili che in breve dovrebbero riscrivere la storia di questo sport.

Ci sono di nuovo i motori, anche se nella Formula Uno l’unico motore che funziona sembra quello della casa tedesca con il mirino sul cofano (conoscete quella barzelletta bosniaca con Mujo che invita Haso a fare un giro sulla Mercedes di seconda mano comprata in Svizzera? Dopo avergli rotto le scatole con tutta una serie di domande sulla macchina Haso alla fine chiede: “Mujo, cos’è quella cosa sul cofano?” E Mujo, spazientito: “Un mirino per non mancare il bersaglio quando voglio investire qualcuno” Dopo un po’ Mujo sente un gran colpo e vede Haso con la mano sulla maniglia della portiera: “Cosa fai?!” “Li stai mancando tutti, per cui ti aiuto a colpirne qualcuno”) e l’unica cosa veramente interessante è vedere quanto durano le loro gomme. Evidentemente le macchine tedesche non sono abituate ai pneumatici italiani.

Ah sì, e poi ci sarebbe anche il basket NBA. Che si gioca senza pubblico nell’asettica bolla di Orlando, lontano dal virus che in Florida imperversa incontrollato e impunito. E l’NBA senza pubblico si sta rivelando in modo lampante per quello che in realtà è: uno spettacolo che, tolto appunto per ragioni oggettive lo spettacolo di contorno, non ha proprio nulla di tecnico né di stimolante da offrire. Io, sarò anche prevenuto, vedo l’azione che inizia con un pick-and-roll alto con gli altri tre giocatori in attacco fermi a vedere quel che succede e che si conclude con uno scarico fuori a qualcuno sulla linea del tiro da tre che tira senza che nessuno dei suoi vada a rimbalzo se non altro per contestare in qualche modo l’apertura del contropiede avversario. Il livello tecnico che vedo è letteralmente infimo: ho guardato i highlights dell’ennesima tripla doppia di Luka Dončić contro Milwaukee e l’ho visto andare a canestro a difesa schierata con la più classica e scontata finta da campetto, quella nella quale a un dato momento fai finta di mettere la palla dietro alla schiena e che noi più di 50 anni fa facevamo di continuo dopo averla vista fatta fare a una fortissima ala mancina belga del Racing Malines, tale Willie Steveniers, giocatore che all’epoca era un po’ un nostro idolo. Lui a dire il vero faceva fare alla palla tutto un giro dietro alla schiena, ma evidentemente oggidì basta solo accennare al movimento che tutti ci cascano come polli. È  possibile che nessuno di questi giovani fenomeni l’abbia mai vista? Pare proprio di sì.

E a proposito di Luka c’è la somma ironia che, a quanto leggo, ha anche vinto il premio quale giocatore più migliorato nella stagione. Mentre dal mio punto di vista ci sarebbe da dargli il premio esattamente opposto, quello di giocatore più peggiorato, in quanto, da quella persona straordinariamente intelligente che è, per affermarsi definitivamente si è adeguato in modo perfetto al non basket dell’NBA e, se continua così, presto lo vedremo nella categoria dei “fazo-tuto-mi” che ha in Harden e Westbrook i capostipiti indiscussi e nella quale si sta velocemente inserendo anche quell’altro straordinario talento rovinato dall’NBA che è Giannis “The Greek Freak”.

Guardando i giocatori e le loro maglie ho anche visto che l’NBA sta cavalcando in modo secondo me ipocrita e spudorato i sentimenti dei tempi innescati dall’ennesimo omicidio razzista operato dalla polizia americana ai danni di un poveraccio di colore. A proposito, se a qualcuno interessa quanto scrive sulla maglia di Luka, “Enakopravnost” in sloveno vuol dire eguaglianza di diritti. Perché dico ipocrita? Perché secondo me l’NBA, ma non solo l’NBA, anche l’NFL e l’MLB, potrebbe, se lo volesse, fare ben molto, ma molto molto, di più per i diritti degli afroamericani che non esibire magliette infarcite di slogan.

Per spiegare bene quanto voglio dire parto da molto lontano. Uno degli insegnamenti che mi ha inculcato mio padre (a proposito, il 31 di luglio c’è stata a Dutovlje – Duttogliano quando era sotto l’Italia – una cerimonia nella quale gli hanno dedicato per il centenario dalla nascita una targa commemorativa nella sua casa natale, che è ora fra l’altro una specie di museo, con il sottoscritto e mio fratello a scoprirla, cosa che mi ha procurato un grande orgoglio – alla prossima sconvenscion vorrei invitarvi a fare un giro per andarla a vedere, è a poco più di cinque minuti di auto dal confine, così che potrò anche offrirvi da bere nel bar gestito dal mio secondo cugino) è stato quello che non esiste riscatto sociale senza istruzione. Se fai parte di una qualsiasi minoranza (e noi sloveni di Trieste ne facciamo parte) l’unico modo per farsi strada è quello di essere accettato dalla maggioranza come qualcuno pari a loro in fatto di dignità umana e ciò può essere ottenuto solo se dimostri alla maggioranza di valere quanto essa stessa pensa di valere (sempre molto di più di quanto non valga in realtà), e per farsi percepire in tal modo devi in realtà valere molto di più di quanto non valgano loro. In breve per farsi accettare bisogna farsi un mazzo gigantesco. Studiare e poi ancora studiare per istruirsi e poter così salire i gradini della scala sociale.

Lo sport professionistico americano sembra fatto apposta per offrire una formidabile chance a tutti gli afroamericani che vorrebbero istruirsi. Per come è strutturata la loro società (inutile dire che per me è una struttura che abbatterei con voluttà perché è secondo me profondamente inumana) studiare è difficile, costa tantissimo e dunque l’istruzione è un modo formidabile per perpetuare ad oltranza i privilegi della classe dominante, quella che per semplicità chiamiamo dei WASP, i White-Anglo-Saxon-Protestants. Però i neri hanno un grande vantaggio: sono mediamente molto più capaci nelle attività sportive rispetto ai bianchi, e dunque i college, per vincere, hanno un disperato bisogno di loro. Per cui dispensano loro una grandissima quantità di borse di studio per poterli reclutare per far vincere i loro college nelle sentitissime competizioni di qualsiasi sport, soprattutto di squadra.

A me pare che questo sia uno dei più squisiti cavalli di Troia grazie al quale gli afroamericani e con loro tutte le minoranze represse potrebbero minare dal di dentro la stessa base sociale sulla quale si regge la società americana. A dire il vero questo cavallo di Troia a suo tempo funzionava perfettamente e infatti ha fatto sì che tantissimi giovani di colore si istruissero e diventassero poi stimati elementi della società americana, rispettati e riveriti da tutti (Russell, Robertson, Erving, Jabbar, anche Robinson e Duncan, perché no?), ed era semplicemente l’obbligo di fare tutti e quattro gli anni di college senza alcun tipo di sconto “sportivo” riguardo agli esiti accademici. Insomma, quando il basket era ancora uno sport riservato alle elite accademiche era un modo formidabile per inserire nella società americana tantissimi afroamericani che senza il basket e lo sport in generale non avrebbero avuto alcuna possibilità di poter studiare.

Sì, ma li costringevano a studiare con il ricatto degli esami da dover sostenere e dove allora sarebbe la libertà? Sempre secondo mio padre la libertà è un concetto molto volubile e secondo lui non poteva esistere libertà senza conoscenza. In definitiva nessuno, o comunque pochissimi, nato e vissuto da piccolo in condizioni disagiate, può avere la cognizione che è solo l’istruzione che può elevarlo. E come potrebbe saperlo se neanche sa cosa voglia dire istruirsi? Per cui almeno agli inizi bisogna costringerlo, non c’è niente da fare.

A prima vista questa constatazione sembra molto poco libertaria e infatti quando ero più giovane ero convinto che nel ragionamento di papà dovesse esserci una falla. Che però nel tempo non sono proprio riuscito a trovare, anzi sono sempre più convinto che avesse perfettamente ragione.

Ora il basket, passato dalle palestre universitarie alla spazzatura dei playground da slum (ghetto, favela, fate voi), ha tutte le colpe che immaginazione possa concepire perché gli afroamericani regrediscano in modo sempre più irrimediabile. Direttamente da un liceo di comodo (dove secondo tutti l’istruzione che si riceve è più o meno quella di una buona media inferiore da noi) all’NBA, il fatto che si può andare fra i pro già dopo solo un anno di college, tutto ciò fa sì che i neri arrivino direttamente dai bassifondi a gestire cifre di dollari a tanti zeri delle quali non sanno cosa fare, perché semplicemente non hanno istruzione e dunque non hanno difesa. E dunque una volta finita la carriera per la maggior parte finiscono in miseria dopo essersi fatti spennare come tacchini dai vari avvoltoi che li circondano che normalmente passano sotto il nome di consulenti finanziari (ovviamente per la maggior parte bianchi WASP, se non direttamente criminali).

E ovviamente in tutto ciò la comunità afroamericana ha colpe secondo me colossali. Invece di affrontare il problema alla radice e costringere i “fratelli” a studiare per poter finalmente prendere il sopravvento (“We shall overcome”) si rifugia nella facile e pilatesca sfilza di slogan a effetto. E, se non si danno una scossa loro che sono parte in causa, chi lo farà al loro posto? Non certamente  quelli che vogliono che la situazione rimanga tale e quale com’è adesso.