Ho veramente tanta roba da dire dopo che nei vostri commenti avete toccato un’infinità di argomenti che non saprei da dove cominciare. Lascio le mie riflessioni sui tiratori metafisici per la fine, così che forse leggerete anche il resto.

Comincio con una nota di cronaca che forse non vi interessa, ma ieri si è svolta la cerimonia della consegna dei premi per lo sportivo dell’anno in Slovenia. Ha vinto ovviamente Tadej Pogačar davanti a Primož Roglič con Luka Dončić terzo (!) per un’incollatura (!) davanti alla medaglia d’oro olimpica nella canoa fluviale Benjamin Savšek. Che è dunque giù dal podio pur avendo ottenuto un successo straordinario per un Paese piccolo come la Slovenia. Come a dire troppa grazia Sant’Antonio. Fra le donne ha vinto ovviamente a mani basse spiderwoman Janja Garnbret, altro oro olimpico, mentre fra le squadre c’era da scegliere fra i quarti alle Olimpiadi, i cestisti, e i vicecampioni d’Europa della pallavolo. Anche qui niente male, che ne dite? Hanno vinto, come è solo normale, i cestisti.

Scrivendo questi nomi mi è venuto subito in mente che, malgrado ne abbia scritto a iosa un milione di volte, i commentatori TV italiani continuano a fare strafalcioni nella pronuncia dei nomi slavi. Posso capire, ma se uno si sforza di pronunciare in modo giusto i nomi nelle lingue più importanti sarebbe anche giusto che per una semplice questione di rispetto (o, se volete, per essere politicamente corretto) si sforzasse di fare altrettanto per le lingue meno importanti. Gli slavi sono tanti in Europa, sparsi dappertutto, per cui un po’ più di attenzione sarebbe benvenuta. Per esempio il povero Tadej, nominato sopra, è riuscito a farsi pronunciare il cognome in modo giusto solo perché è tanto forte che devono nominarlo di continuo. Ovviamente l’accento giusto è Pogàciar per la semplice ragione che pogàča in sloveno vuol dire semplicemente pagnotta e dunque Pogačar è uno che fa pagnotte, leggi fornaio. Come kopìto vuol dire ferro di cavallo, per cui la stella dell’hockey slovena si chiama Anže Kopìtar, che significa semplicemente maniscalco. Non parliamo del nome Anže, che si legge Anzhè con l’accento sulla e finale, in quanto deriva dalla versione slovena del nome francese Angel. Per cui, caro Max Ambesi, il saltatore sloveno sugli sci si chiama in realtà Anzhè Lanìshek con l’accento sulla “i” e non sulla “a” (per rimanere in tema, l’altro saltatore sloveno si chiama in realtà Timi Zai-tz, cognome comunissimo in Slovenia in quanto significa coniglio, lepre). Stranamente in Italia si pensa che i nomi slavi abbiano tutti accenti sulla terzultima sillaba, mentre per la stragrande maggioranza sono normalmente con l’accento piano. Vale anche per il russo, per dire. Le eccezioni accadono normalmente quando i cognomi sono patronimici con i suffissi –ič o –ovič e in questi casi vale l’accento del nome originale che forma poi il patronimico.

Un altro caso che ormai mi fa quasi cadere le braccia perché la gente proprio non ci arriva, e non riesco a capire perché, in quanto la cosa è molto facile, è il famoso “ch” delle lingue nord-slave (polacco, ceco, slovacco). Queste lingue hanno due tipi di acca pronunciata, una dura e una molto più dolce e quasi (quasi!) muta. Quella dolce si scrive semplicemente “h” (che poi nella grafia cirillica russa diventa “g” – Glinka, Gari), mentre quella dura, molto accentuata, si scrive secondo la grafia tedesca come “ch”. Dunque quando vedete un nome slavo nel quale c’è una “ch”, questa è sempre, senza alcun tipo di eccezione, una acca molto dura (scritta dai russi con la lettera cirillica “H”, traslitterata come “kh”). Per cui, sempre cari Ambesi e Puppo, la biathleta ceca si chiama Kharvatova con l’acca iniziale, che vuol dire semplicemente croata. Se gli slavi vogliono scrivere tsch lo scrivono con la “c” col segnetto sopra come nel mio cognome (cechi, slovacchi) o “cz” (polacchi). Di sfuggita, la biathleta austriaca specialista del tiro è una slovena purosangue della minoranza della Carinzia (che fino al 1919 era maggioranza, ma lasciamo stare – se qualcuno vuole approfondire posso tornare sull’argomento) e si chiama Dunja (Dunia, ma ci torno subito) Zdouc, stesso identico cognome del grandissimo giocatore e ora allenatore sloveno di basket, e si legge s-do-utz che vuol dire letteralmente “z” = da, “do(u)” = basso,valle più il suffisso “(e)c” = colui che, in breve in italiano sarebbe Dalla Valle. Fra l’altro è una ragazza molto simpatica che i media sloveni hanno intervistato in lungo e in largo dopo che l’anno scorso ai Mondiali di Pokljuka andò a medaglia (con la staffetta mista mi pare).

Della “j” che viene pronunciata “zh” ormai non parlo più perché rischio attacchi inconsulti di gonadociclosi. Ma è proprio così difficile capire che le lingue slave (e quelle germaniche, inglese a parte che per indicare questo suono usa la “y”) usano la “j” per indicare sempre, anche qui senza possibile eccezione, la “i” consonantica? Va bene che per ragioni per me misteriose in italiano si scrive sempre “i” per indicare ambedue i suoni, ma non dovrebbe essere difficile capire la differenza. E invece, oltre al solito “Dezhan”, mi tocca ancora sentire, come è successo in una recente partita di Champion’s, che il povero centrocampista sloveno della Dinamo Kiev Verbič (autore fra l’altro di un disastroso, anche se casuale, retropassaggio) fosse chiamato Benzhamin, mentre invece è un semplice Beniamino, Beniamin, come il succitato Savšek. E dunque anche Dunja, fra l’altro nome slovenissimo come Polona, Urška, Špela, Janja (ovviamente Iania), è sempre e comunque Dunia. Per fortuna almeno Iličić non è Džosip.

Passando pian piano verso il basket, ma rimanendo per il momento in Slovenia, devo ancora una risposta a Andriz che chiedeva di Žiga Samar. La sua storia è più o meno quella di Dončić e di tanti altri ragazzi della ex-Jugoslavia, tipo a suo tempo Nikola Mirotić. Storia che fa capire come gli schemi di una volta siano saltati totalmente e che ormai di scuola jugoslava del basket non si possa più parlare, cosa che fra l’altro mi inonda di tristezza inconsolabile. Del Real si può dire quel che si vuole, si può odiare visceralmente come fa Buck che capisco perfettamente, sia ben chiaro (una volta Erazem Lorbek confidò ad un amico che il giocatore più odioso che avesse mai affrontato era senza dubbio Rudy Fernandez: “Per tutta la partita ti picchia continuamente di nascosto, se però lo tocchi tu fa scene incredibili”), ma bisogna fare tanto di cappello al suo sistema di reclutamento che rasenta la perfezione. La storia di Samar ricalca a grandi linee quelle di Luka: classe 2001 di Jesenice, è figlio di un giocatore e poi coach di basket, per cui, per quanto avendolo praticato, sfugge all’hockey che è “lo” sport cittadino, e si dedica a tempo pieno al basket. E’ un play vecchio stampo, è molto alto (ora è 1,97) per il suo ruolo, per cui si mette subito in mostra, tanto che per un anno si trasferisce a Lubiana presso il settore giovanile dell’Olimpija. Nel solito torneo giovanile viene adocchiato dagli emissari del Real che si presentano al padre offrendogli ottime condizioni per il trasferimento del ragazzo a Madrid che la famiglia accetta. Solita trafila con le giovanili (frenata da un infortunio che gli ha fatto perdere quasi un anno), poi il trasferimento a Fuenlabrada, dove dapprima si fa le ossa per una stagione in una squadra di Lega inferiore nella quale però gioca molto e fa esperienza, e da quest’anno titolare. La classe 2001 fra l’altro è in Slovenia un’ottima classe che portò a suo tempo l’Under 16 al terzo posto all’Europeo di categoria e l’anno scorso a vincere uno dei tornei Challenge che sostituirono in tempi di Covid gli Europei di categoria. L’altra stella della squadra era l’ala tiratrice Gregor Glas, giocatore di oltre 2 metri, che ora sta passando le pene dell’inferno al Partizan sotto la durissima mano di Obradović che si spera possa tirare fuori dal ragazzo tutto il suo potenziale, che sarebbe grandissimo se non tendesse a volte a dormire in piedi. E voi vedete che destino possa avere con Obradović uno che dorme in piedi?

Tornando al Real si deve ancora dire che il caso di Dončić prima e Samar poi è tutt’altro che isolato. Lasciando per ora da parte il fratellino di Žiga, Matija, di cinque anni più piccolo, che ha seguito le orme del fratello grande, ci sono nella prima squadra juniores del Real ben due sloveni, il 2004 Urban Klavžar, considerato uno dei migliori giocatori europei della sua generazione, e il 2005 figlio d’arte Jan Vide (il padre fu ex play dello Slovan e poi del Koper finalista nel ’92 del primo campionato sloveno della storia). C’è qualcuno che è rimasto in Slovenia? Ci sarebbe il “vecchio” Jurij Macura, nato ancora per 8 giorni nell’altro secolo, 210, centro mancino dalla mano molto morbida e dall’ottima comprensione del gioco che ora gioca molto bene nel Krka, rampollo del ramo dei Macura trasferitosi a Lubiana (lo zio, o comunque stretto parente, Branko era un giocatore molto bravo del Šibenka di Dražen). Fra l’altro ora a Casale (Tortona? Non ho ancora capito) gioca un americano che ha questo dalmatissimo cognome e che viene pronunciato all’americana Maekjura invece dell’ovvio Matzura, cosa che mi fa ogni volta sbellicare dalle risate. Il migliore prospetto che è rimasto in Slovenia è un goriziano di 2 metri, classe 2003, che ora gioca titolare nell’Ilirija sotto la guida di Saša Dončić, e che sia di molto vicino al confine lo rivela il cognome stesso, in quanto si chiama Saša Ciani, sì, proprio come il coach di Trieste.

E ora passo al basket teorico per il quale avete toccato due punti importanti: come si riconosce un tiratore “metafisico” e come possono quelli che sono “normali” diventare grandi tiratori, magari allenandosi con metodi zen, tipo occhi chiusi o focalizzazioni interiori e robe del genere (come potete vedere dalla presentazione a questi ultimi metodi credo molto poco, o per meglio dire penso che possano servire per gente dalla personalità fragile, ma non certamente per chi sa quello che vuole – e dunque sulle neuroscienze applicate allo sport lascio che vi sbizzarriate fra di voi, a me count me out).

Parto da lontano: a me hanno sempre affascinato i gesti sportivi che richiedono ripetitività sfibrante nell’allenamento per acquisire l’automatismo necessario per essere effettuati in modo produttivo. Lascio stare da parte tutti gli sport che richiedono precisione per centrare un bersaglio, tipo il tiro o il tiro con l’arco, che meriterebbero volumi di analisi a parte, e dico che per me ci sono molti gesti sportivi che hanno tantissimo, se non tutto, in comune. Per esempio il tiro nel basket, lo swing nel golf, il servizio nel tennis, per non parlare dello stacco dal trampolino in una gara di salti con gli sci. Ma ce ne sono tanti altri, tipo i tuffi, o l’azione fulminea del sollevamento del peso nella pesistica. In tutti questi casi si possono definire gli sportivi “metafisici” e quelli “normali” allenati bene. Per esempio nel tennis chi più di John McEnroe, o Goran Ivanišević, si potrebbero definire servitori “metafisici”, contrapposti a servitori normali e “imparati” tipo il pur straordinario Rafa Nadal? Roger Federer e Nole Đoković? Sicuramente più verso il metafisico il primo e verso l’imparato il secondo, ma qui vi lascio ai vostri gusti, io ho detto i miei. Nel golf c’era un fortissimo giocatore americano, Jim Furyk, che aveva uno swing orribile, ma non sbagliava mai. D’altra parte ci sono giocatori attuali come il da me odiato Bryson DeChambeau che si sono concentrati su un unico movimento dello swing tirando la pallina il più lontano possibile previa anche una cura ricostituente che non voglio assolutamente sapere come l’abbia fatta. Tiger? Lui è sempre stato di un altro pianeta.

Nel basket di tiratori naturali che “vedevano” il canestro sempre e comunque ce ne sono stati tantissimi, anche in Italia. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Charlie Recalcati, per non dover andare ai tempi antidiluviani di Sandro Riminucci (che tirava, almeno dal mio punto di vista, proprio male, ma segnava sempre) e Tonino Zorzi. Avete fatto il nome di Claudio Malagoli. Per me lui è stato invece il sommo interprete del gesto tecnico sempre uguale a se stesso, cioè l’esatto contrario del tiratore “metafisico”, cosa che non è un difetto, ma uno straordinario pregio che permette di effettuare sempre lo stesso movimento e dunque con l’allenamento si possono tirare serie infinite dallo stesso posto segnando sempre, una volta sistemata la mira, cosa che porta in partita a dover semplicemente ripetere il gesto automatizzato in allenamento. Se la fiducia nella propria meccanica di tiro è presente, e uno non vede perché non debba essere presente se in allenamento si segna sempre, allora anche in partita si tira come se si fosse in allenamento e si segna. Basta fare sempre lo stesso identico gesto. Cosa peraltro difficilissima, se ci pensate bene, con tutte le variabili che ci sono, tipo magari il peso della palla che basta che sia di qualche grammo più leggera o pesante che tutto va a catafascio. Comunque Malagoli segnava praticamente sempre e infatti non gli occorreva andare sotto canestro a prendere botte, per cui quasi tutti gli rimproveravano il fatto che non andasse mai in entrata. E perché, di grazia, visto che ogni volta che alzava la mano faceva ciuff?

Llandre ha portato l’esempio di Larry Bird che con la schiena rotta ridicolizzò il suo giovane avversario che si era degnato di prenderlo in giro. Personalmente ricordo la finale dell’Open di Madrid dell’’88 quando nel secondo tempo, con i Celtics già nettamente avanti contro il Real, Larry si vide declassare a canestro da due punti quello che lui era convinto fosse una tripla. Si incazzò come una iena e nell’azione dopo si portò allo stesso punto, fece ostentatamente un passo indietro, segnò, ovviamente, e poi si recò dall’arbitro per chiedergli sarcasticamente: “Ref, questo vale 3?”. Lui era un tiratore metafisico sui generis, nel senso che con tutto l’allenamento che aveva fatto aveva acquisito una tale fiducia nei propri mezzi che era convinto che non potesse sbagliare, per cui aveva degli schemi mentali che forse solo MJ poi riuscì a duplicare. Si tratta però di campioni tanto immensi che sfuggono a qualsiasi tipo di catalogazione.

In Jugoslavia di tiratori sui generis ce ne sono stati millanta, tanto metafisici che segnavano quasi sempre pur tirando in modo orripilante, fuori da ogni schema. Uno era un giocatore del Beograd che giocò assieme a Boša Tanjević, che poi me lo presentò a Capodistria durante gli Europei, di nome Blaž Kotarac, l’ultimo è stato sicuramente Žarko Paspalj, giocatore con uno dei più brutti tiri della storia, ma che faceva spessissimo canestro. Facendo comunque una graduatoria dai più metafisici ai più imparati personalmente metto al primo posto senza alcun dubbio Dragan Kićanović, uno che poteva tirare con le mani messe in qualsiasi posizione e infatti era praticamente immarcabile anche da un immenso difensore quale era Mihovil Nakić semplicemente portando le mani fuori portata da una possibile stoppata verso destra, sinistra, più in alto o più in basso e poi scoccando il tiro al momento giusto. Una cosa simile poi non l’ho mai più vista. Dall’altra parte dello spettro c’è ovviamente un giocatore che stranamente nessuno di voi ha nominato. Eppure non era male. Avendo cominciato con il soprannome di “mano di pietra” poi i suoi punti in carriera li ha segnati grazie ad una fanatica applicazione che gli ha fatto imparare il gesto perfetto fatto sempre allo stesso identico modo. Ricordo sempre l’aneddoto di Italia-Croazia a Trieste, amichevole pre-Europei: il giocatore in questione sbaglia i primi tiri sempre allo stesso identico modo colpendo ogni volta il ferro nello stesso medesimo punto, durante un time out va da un inserviente, gli spiega che il canestro è leggermente spostato, cosa verissima, il canestro viene rimesso a posto e da quel momento in poi non sbaglia più. Di chi parlo? Mai sentito nominare un tale Dražen Petrović?S