Sono tempi di Olimpiadi invernali e di (ahimè per me) Sei Nazioni di rugby, per cui immagino che la vostra attenzione, soprattutto dei rugbisti “diehard”, sarà spalmata su vari poli di interesse. Per quanto mi riguarda, con le Olimpiadi che si disputano dall’altra parte del mondo, in un ambiente letteralmente asettico in tutti i sensi, con gente maledettamente forte che non potrà gareggiare causa Covid (tipo la povera Marita Kramer, che per chi non lo sapesse, è una fenomena austriaca del salto), e dunque con un evento che seguirò con molta minor partecipazione rispetto al solito, concentrandomi principalmente su quanto faranno i saltatori sloveni (e se il bel giorno si vede dal mattino…), Anamarija Lampič e le sciatrici italiane (sperando che Sofia Goggia ce la faccia), e con il rugby che, come sapete, è per me uno degli sport situato ai posti più bassi della classifica dell’interesse per quelli che esistono e di cui sono a conoscenza, mi succede che, incredibilmente, sono molto più focalizzato sul basket di quanto pensassi che avrei potuto esserlo. Chiaramente dell’NBA non potrebbe fregarmi di meno, soprattutto adesso che stanno organizzando quell’immonda kermesse circense denominata All Star Weekend, il campionato italiano è quello che è, il quinto-sesto fra i campionati nazionali europei (Spagna, Russia, Turchia, Grecia sono sicuramente molto meglio, probabilmente meglio sono anche Germania e Francia, per non parlare dell’ ABA e della Lega baltica che sono a parte – basta vedere le scelte degli stranieri e cioè dove vanno per prima cosa quando vengono in Europa), per cui è difficile vedere basket di qualità, mancando proprio i protagonisti, essendo i giocatori, inutile negarlo, di terza fascia europea, ma l’Eurolega in questi ultimi tempi mi sta offrendo partite di una qualità che non pensavo di poter vedere in questo A.D. 2022.

Ho già detto di Milano e della sua eccellente difesa. Poi ho visto Armani-Fenerbahce e ho visto come ha fatto Đorđević per attaccarla, detto in breve ho visto un eccellente partita di vero basket, di basket come gioco di squadra e non di esibizioni di funamboli egoistici, basket nel quale si fanno errori (e, mi dispiace, ma la lingua batte dove il dente duole, nella maggior parte dei giocatori la tecnica, leggi i fondamentali individuali, non sono della qualità che dovrebbe competere a questi livelli, potete dire quel che volete, ma posso farvi una lavagna alla Tranquillo-Crespi nella quale potrei sciorinare tutta una serie di nefandezze tecniche, cioè di azioni e di gesti tecnici scelti e poi anche effettuati nel modo sbagliato), ma, vivaddio, è basket, e già questo è un grossissimo sollievo. Chiaro, poi ci sono inserti di basket moderno che mi fanno sbellicare dalle risate, ma ogni tanto un po’ di sano divertimento ci vuole. C’è stata un’azione di Pierre (uno ex Sassari, può essere?) dopo la quale c’è voluto del tempo prima che mi riavessi. E’ partito come un tarantolato a fare tutta una serie di finte frenetiche con movimenti da ballo di San Vito del corpo e con una serie di virtuosistici palleggi avanti, indietro, di parte, ma con il piccolo guaio che per buoni 10 secondi è rimasto sempre lì dove era all’inizio. In tutto questo tempo ho guardato il giocatore di Milano che lo marcava, mi sembra fosse Datome (o Ricci?), che non si è mosso di un millimetro ed aveva un’espressione perplessa sul viso del tipo: “Ma questo qui è normale o cosa?”. Impagabile. Com’è finita? Che dopo questa esibizione Pierre ha passato la palla fuori senza che sia successo nulla. Ecco, questo è quello che dico quando affermo che un’azione fatta tanto per fare che non porta a nessun tipo di vantaggio è una stupidaggine colossale che, sì, da l’impressione che in campo succeda chissà che cosa, ma in realtà non succede niente, o meglio non succede niente nel migliore dei casi, perché normalmente in questo tipo di esibizione il perpetratore perde la maniglia e anche il pallone. Ecco, una volta, quando si giocava piano, ma con la testa, queste cose non venivano fatte e dunque si ha l’impressione che fossero molto più fermi di quanto non lo siano adesso. Semplicemente tutta la fatica che facevano era utile. E si stancavano molto di meno. E dunque potevano giocare di più…ma è un discorso che, lo so, con i modernisti non attacca, per cui mi fermo qui.

Il discorso sulla fatica inutile è secondo me molto importante, ma completamente negletto in questi tempi di ricerca dello spettacolo a tutti i costi con i highlights che riguardano principalmente roboanti schiacciate che, ricordo sommessamente, valgono due punti esattamente come un sottomano da fermo, oppure clamorose botte di sedere che portano a canestri segnati da posizioni impossibili e che magari decidono una partita all’ultimo secondo. Guardavo i highlights della clamorosa partita giocata da Dončić contro Philadelphia (bisogna pur informarsi…) e quello che hanno mostrato in tutte le salse sono state due schiacciate che ha piazzato in entrata a difesa schierata, ma nessuno ha mostrato il “vero” incredibile canestro che ha segnato, quando da sotto, attorniato da tre avversari, con una serie di finte ha gelato tutti e ha segnato in controtempo un tiretto da fermo. Ecco, questi sono secondo me i canestri che dividono i veri campioni dai saltimbanchi, perché dimostrano con assoluta certezza che chi riesce non tanto a farli, ma a concepirli, è uno che ha in testa un paio di marce in più rispetto agli altri.

Questo aspetto del basket lo avevo continuamente in testa mentre guardavo Real-Zenit, squadra quest’ultima che secondo me gioca un ottimo basket e che mi sta sempre più rivalutando Xavi Pascual che consideravo abbastanza brocco quando allenava il Barcellona. Evidentemente nessuno è profeta in patria, in quanto probabilmente a quei tempi, da novellino impaurito per la seggiola sulla quale era seduto, era molto più esposto a pressioni di tutti i generi possibili che si verificano in società con una grande storia e con un immane seguito di tifosi. Peccato per lo Zenit che il Real possieda giocatori molto più forti e che dunque nulla potesse fare se non sperare che il Real si ammazzasse da solo. Cosa che non ha fatto, soprattutto adesso che ha in squadra tutti i play, e potendosi dunque permettere di far giocare da terzo play addirittura Llull dietro a Heurtel e Causer. Sotto ha Tavares o come cambio Poirier che avrà tutti i difetti che si vogliono, il primo dei quali è che è proprio brutto da vedersi in tutti i sensi, ma che ha questa incredibile dote, vera perla nera nel basket di oggidì, di saper tagliare a canestro con i tempi giusti per ricevere il pallone al momento opportuno, con ciò creando veri sconquassi nella difesa avversaria che non può permettersi molti lussi nell’andare a raddoppiare o a ruotare sul perimetro. Come ali ha Yabusele e Hopkins, due vagoni ambulanti che comunque ambedue segnano grazie a una buonissima mano. E sono inoltre veri giocatori di basket. E poi c’è nei momenti giusti, ed è stato infatti proprio lui a indirizzare la partita verso la facile vittoria finale, Rudy Fernandez. E’ sicuramente il giocatore più odioso che ci sia al mondo per come si comporta, ma devo confessare che mi ha incantato. Nel senso che con gli anni ha fatto quello che tutti i giocatori veramente fenomeni, Jordan per primo, hanno sempre fatto, ha eliminato la fatica inutile. Eppure a suo tempo non è che fosse sprovvisto di doti fisiche. L’altro giorno ha ricevuto da solo una palla in angolo e ha segnato una tranquilla tripla con un piazzato stile anni trenta del secolo scorso. E lì mi son detto: “Cavolo, ma questo è veramente un giocatore vero!

Sempre guardando i giocatori sotto quest’aspetto mi sono concentrato su un giocatore dello Zenit che non sapevo neanche esistesse dallo strano cognome di Poythress. E più lo guardavo più diventavo un suo tifoso: giocatore nero, giovane, aitante, dunque uno si immagina che pensi solo a volare e a piazzare violente schiacciate con l’urlo, ma che invece gioca in modo assolutamente sobrio, è sempre dove deve essere, non forza nulla, quando lo raddoppiano sotto canestro prova sempre le conclusioni più cestistiche ci possano essere, e cioè non quelle che vorrebbero andare “sopra”, ma quelle che prevedono il tiro “di lato”, fuori dalla portata della stoppata avversaria. Cosa che gli procura tantissimi tiri liberi. Vedere in quest’epoca giocatori di questo tipo mi fa veramente sperare che non tutto sia ancora andato a escort.

Questo tipo di approccio nella valutazione di un giocatore di basket si allaccia perfettamente alla domanda che mi fa Llandre su cosa potesse avesse avere di più Ćosić rispetto a Jokić. Risposta: esattamente tutto quello che fa di un giocatore di basket un campione per tutte le epoche. Se vogliamo andare alle cose semplici, intanto aveva molto più fisico: aveva di fatto la metà, forse meno, del peso rispetto a Jokić, ma era fatto di una lega al carbonio-titanio, per cui non si spaccava mai. Aveva il doppio della reattività sia fisica che nervosa e saltava molto di più. Tutto ciò prima della sua conversione mormone ed all’acquisizione di abitudini alimentari che mal si conciliano con le necessità caloriche e soprattutto proteiniche di un atleta di vertice. Ripeto per la ennesima volta che il Ćosić che si è visto in Italia era la pallidissima controfigura di quello che era da giovane a Provo o ai Mondiali di Lubiana, e che a Bologna giocava secondo le più stringenti regole che portano a evitare fatiche inutili. E infatti, giocando da fermo, faceva comunque quello che voleva. Vi immaginate se solo si fosse anche mosso qualche volta? O saltato? Parliamo della tecnica? Ripeto quello che ho detto milioni di volte: nella mia prima telecronaca dal vivo a Umago nel ’71 vidi Ćosić, verso la fine della partita di preparazione per gli Europei a risultato ormai acquisito, prendere un rimbalzo, palleggiare verso destra (verso la mia postazione) e dal palleggio passare la palla con la sinistra (la sua mano debole) dietro la schiena attraverso tutto il campo recapitandola con i giri contati a Simonović che era già scattato in contropiede e che finì il terzo tempo senza dover neanche fare un palleggio. Tiro? Magnifico, tecnica sopraffina e precisione assoluta. Già questo basterebbe, ma la vera differenza la fa la sua testa, assolutamente di un altro pianeta. Era una persona dotata di intelligenza spaziale, che del basket vivisezionava ogni aspetto, addirittura troppo perfezionista per poter essere un allenatore di successo avendo a che fare con giocatori che semplicemente non riuscivano a seguirlo nelle sue elucubrazioni, un vincente nato di natura che aveva sempre in mente in fatto che lui si trovava in campo per far rendere al meglio i suoi compagni e ogni sua giocata aveva un suo perfetto senso. Le tre “c” di Diaz Miguel lui le aveva in misura esorbitante, come ogni giocatore che ha segnato un’epoca. Ragion per cui, scusa Andrea, ma il paragone fra Ćosić e Jokić mi sembra blasfemo. Sarebbe come paragonare Vermeer al famoso falsario belga dell’ultima guerra su cui hanno fatto un recente film, molto bello fra l’altro. Una cosa è il virtuosismo tecnico, tutta un’altra cosa il genio creativo.

Sempre Llandre ha postato un commento musicale che mi ha stroncato totalmente, dimostrandomi ancora una volta come le nuove generazioni, senza loro colpa, sia ben chiaro, ma solo per ignoranza, intesa nel senso etimologico di carenza di informazioni, abbiano un’idea totalmente distorta e profondamente sbagliata sulla genesi della musica rock, quella che ha poi caratterizzato tutta la seconda metà del secolo scorso e che in quello presente è vista ormai come la musica classica di riferimento dalla quale partire per andare avanti (o indietro, ma è questione di gusti). Per lui e la stragrande maggioranza dei suoi coetanei la musica popolare moderna è nata con la rivoluzione britannica, dai Beatles in poi. E’ totalmente falso. Basta leggere qualsiasi biografia dei gruppi britannici dell’epoca per capire che il loro unico, ma stragrande e fondamentale, merito fu quello di tenere accesa la fiammella della “vera” musica rivoluzionaria che dette il via a tutto, quella nata attorno alla Sun Records di Memphis nel 1954. Non per niente John Lennon affermò una volta che “prima di Elvis non c’era niente”, Paul McCartney dice che il suo più grande successo di musicista in erba fu quello di riuscire a riprodurre l’originalissima intro chitarristica di “That’ll Be the Day” di Buddy Holly, il suo idolo musicale di riferimento, per George Harrison l’idolo totale, di cui conosceva ogni canzone, era Carl Perkins (i Beatles hanno inciso e pubblicato ben tre cover di suoi pezzi, due cantati da Ringo e uno da George), gli stessi Stones nel loro primo LP inserirono una splendida cover di “Not Fade Away”, altro pezzo di quello straordinario genio che fu Buddy Holly, morto a 21 anni in un incidente aereo dopo aver dato alla musica popolare dell’epoca pezzi che sono ormai veri e propri classici, eseguiti da una miriade di complessi in tutto il mondo ancora ai giorni nostri. E per altro non è un caso che il germe della rivoluzione britannica sia nato a Liverpool, città di mare nella quale i giovani potevano avere accesso ai dischi che venivano importati dall’America e scaricati in porto.

La vera rivoluzione avvenne quando Sam Phillips trovò per sbaglio un cantante bianco che conosceva e amava la musica dei neri dell’epoca riuscendo nell’impresa titanica, conoscendo la mentalità razzistica di totale apartheid imperante all’epoca non solo nel Sud degli Stati Uniti, ma proprio in tutto il paese, facendogli interpretare proprio quei pezzi che erano vietati ai giovani bianchi, di sdoganare presso la maggioranza bianca tutto quanto di straordinario veniva fatto dai neri, sia nel blues che nel gospel, ma soprattutto nel rhythm e blues con precursori fantastici quali Fats Domino (il suo “Fat Man” del 1949 è considerato dagli esperti il primo vero rock and roll della storia) e grandi talenti dell’epoca quali Chuck Berry e Little Richard. Non per niente il disco che dette il via a tutto, “That’s All Right (Mama)” di Elvis è la sua cover di un pezzo di un cantautore afroamericano, “Big” Bill Crudup. Il problema fu che il rock and roll ebbe un successo immediato tale che suscitò un’immediata e violenta reazione da parte dell’establishment razzista bianco che non sopportava che la sua gioventù si dimenasse ai suoni che gli apparivano inconsulti della musica “nigger”, ma per i primi due anni non poté farci molto, visto che la marea era tumultuosa. Tutto cambiò quando beccarono il più scatenato di tutti, Jerry Lee Lewis, cugino fra l’altro di un famoso predicatore, Jimmy Swaggart, e dunque tanto più peccaminoso, che sposò una sua seconda cugina 13-enne, figlia del suo bassista, roba normale al Sud (forse non tanto normale fu il fatto che era già il terzo -!- matrimonio del 22-enne Jerry Lee con un divorzio tecnicamente ancora non ratificato), ma perfettamente inaudita altrove. Jerry Lee fu bandito, cadde nell’oblio e la marea cambiò segno. Come dice lo stesso Jerry Lee (l’unico ancora in vita!, non solo, ma ancora pimpante a 87 anni) tutto d’un colpo la musica popolare fu invasa da una serie di “Bobby” (Darin, Vinton,…) che evirarono il rock and roll trasformandolo in una melassa pseudo frizzante che eccitava esattamente nessuno. Ragion per cui è solo normale che se Llandre comincia la sua storia ascoltando i hit dal ’60 in poi (ricordando che Elvis era stato evirato già nel ’58, quando fu spedito a fare il servizio militare in Germania) si trovi di fronte a pezzi insulsi, datati e francamente scadenti. Per fortuna in Inghilterra avevano ancora i dischi vecchi e poterono dunque abbeverarsi alla fonte ridando poi l’impulso a tutto, quando finalmente anche i tempi cambiarono con la grande rivoluzione culturale e sociale della metà degli anni ’60. Semplicemente capitarono con la musica giusta nel momento giusto. Ma il più era stato fatto esattamente 10 anni prima.

Ancora sulla musica: ringrazio Stefano per il suo pezzo su Jimmy Otis che mi ha dato tante notizie che non conoscevo, anche e soprattutto su “Big Mama” Thornton. Per integrare un po’ il suo discorso su Jerry Leiber e Mike Stoller dico intanto che la causa citata in merito a Hound Dog non fu l’unica. La Sun a suo tempo fece uscire un 45 giri di Rufus Thomas (grande cantante di colore – famosa poi anche la figlia Carla) dal titolo “Bear Cat” e con la musica che era quella di Hound Dog. Il disco fu ovviamente subito accusato di plagio con successiva inevitabile causa. Come pensassero di farla franca ancora non sono riuscito a capirlo.

Leiber e Stoller, come disse lo stesso Leiber in un’intervista a Peter Guralnick, poi sfruttata da quest’ultimo a piene mani nella sua monumentale biografia di Elvis, avevano un atteggiamento molto snob nei suoi confronti, da buoni ragazzi di città nei confronti di un cafone campagnolo. Quando furono ingaggiati per scrivere le canzoni del terzo film di Elvis, “Jailhouse Rock”, volevano rinunciare, ma il compenso era molto, molto buono, per cui accettarono, anche se a malincuore (Mike Stoller si vede al piano nel film nel ruolo di componente del complesso di Elvis). Dice Leiber che ebbero subito modo di ricredersi, in quanto il ragazzo si rivelò una vera e propria spugna, capace di accogliere ogni consiglio e di ascoltare con grande piacere e passione tutto quanto gli veniva proposto, per cui pensarono di partire con una loro iniziativa e di scrivere un musical per Elvis perché lo interpretasse a Broadway. Elvis ne fu entusiasta, ma il colonnello Parker si intromise e proibì tutto quanto perché Elvis doveva cavalcare l’onda e portare a casa il pieno possibile di soldi. I due autori furono inoltre pesantemente cazziati per aver osato interferire nelle volontà dell’onnipotente boss. Ovviamente decisero che in queste condizioni insistere era inutile e, una volta espletati i compiti contrattuali di comporre le canzoni per il film “King Creole”, si dileguarono e non vollero mai più nulla aver a che fare con Elvis e il suo entourage.