In questi ultimi tempi sono sempre più dubbioso sull’opportunità di tenere ancora in piedi questo blog. Non si tratta di voi, ma di me. Per esempio ieri c’era in contemporanea su Sky la diretta gol della Champions’ League e Scafati-Brindisi di basket. Anni fa non ci sarebbe stata discussione, il basket aveva sempre la precedenza assoluta, praticamente per default. Ora è successo che della partita di basket ho guardato forse quattro azioni del terzo quarto e poi ho cambiato automaticamente canale (fra l’altro c’era su Slovenia 1 un bellissimo documentario francese sulla parabola politica di Margaret Thatcher – sapevate che quando morì in tutta l’Inghilterra sorsero manifestazioni di giubilo che festeggiarono l’evento accompagnandolo con la canzone “La strega cattiva è morta” del Mago di Oz? –  che mi sono goduto tutto continuando a chiedermi perché tutti gli europei – tedeschi e inglesi su tutti – facciano straordinari documentari di storia recente, meno gli italiani che sembrano sempre più maestri della superficialità sparando a raffica banalità sconcertanti e deprimenti), con il risultato che alla fine mi sono fatto un esame approfondito di coscienza venendo alla conclusione che di basket corrente ne so quasi meno di nulla, per cui non avrei assolutamente alcun diritto di parlarne. Poi però mi sono subito accorto che rinunciare, come dovrei, a parlare di basket attuale non mi impedisce di fare da memoria storica del basket che fu e che secondo me era vero basket, quello che mi fece innamorare al primo momento che lo vidi e che poi ha accompagnato tutta la mia vita dandomi da vivere e dandomi straordinarie soddisfazioni personali ogni volta che c’è una sconvenscion, quando mi accorgo di avere tanti veri amici che mi apprezzano soprattutto come persona.

L’idea era insomma di smettere di parlare al vento trattando del pseudo basket attuale come fosse il basket mio e di parlare di altro, tipo di musica visti i tantissimi spunti che mi avete dato con i vostri commenti al mio ultimo post e di cui vi ringrazio, oppure di fare come Dan Peterson che è ormai concentrato solamente a fare da memoria storica di un glorioso passato sia del basket di base negli USA, quello dei college, oppure di quello che lui ha vissuto qui in Italia, A proposito, scusate l’autopromozione, ma non vedo l’ora di essere a Pesaro il 22 prossimo a parlare di basket con Dan e con Valerio Bianchini nella serata organizzata da Superbasket.

Per fortuna è venuto in mio aiuto il post scovato da Llandre sulla Giornata Tipo (cos’è? Mai vista e, se pubblica le cose che mi postate, rimarrà tale per sempre) che celebra le gesta di Željko Obradović alla guida del Partizan. La prima reazione è stata: “Ma che tipo di caz…a è questa?”, poi è venuto a stretto giro di posta il commento di Buck che reputo una vera e propria “lectio magistralis” che sposo in pieno. Vorrei però anche aggiungere qualcosa per spiegare meglio il perché un commento simile lo reputo una straordinaria manifestazione di mancanza di conoscenza di cosa voglia dire essere un coach, non solo di basket, ma di qualsiasi sport, anche individuale. E allora mi viene il sospetto che l’estensore di un simile commento sia uno che non ha mai visto una panchina neanche da vicino e che parla per sentito dire da appassionato che segue tutte le partite possibili e che proprio per questo si reputa un esperto. Ma, come diceva un tale Albert Einstein, “ogni imbecille può sapere tutto, la cosa fondamentale è capire”.

La cosa fondamentale, appunto, che bisogna subito mettere in chiaro è che la grandezza e la bravura di un allenatore sono direttamente e linearmente proporzionali alla sua capacità di far rendere al meglio i giocatori che ha a disposizione. Punto. La cosa mi sembra lampante, assiomatica quasi, e se qualcuno, per ragioni che è inutile che mi spieghi perché per me sono roba da terra piatta che nega le più ovvie evidenze, pensa che questa affermazione possa essere messa in dubbio può anche smettere di leggere. In questa ottica leggere che è stato bravo a cambiare la sua filosofia facendo rendere al massimo i suoi giocatori e non viceversa mi ha lasciato letteralmente spiazzato. Ma cosa vuol dire quel viceversa? Che di solito faceva giocare i suoi giocatori come voleva lui? Indipendentemente da cosa sapessero e soprattutto “non” sapessero fare? Ma quale idiota vorrebbe far volare un tacchino e far grufolare per terra un’aquila? Non esiste. Una frase simile non ha alcun tipo di senso.

Parlando di cose serie le ragioni per le quali Obradović è uno dei più bravi allenatori che ci sia me le ha spiegate Jaka Lakovič nella lunga intervista che gli feci a Doberdob (dove abbiamo fatto l’ultima sconvenscion) in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria per le origini della sua famiglia alla quale è rimasto sempre molto legato, tanto da passare il periodo della guerra in Jugoslavia proprio lì ospite della cugina del padre. Cito a memoria: “Sono arrivato al Panathinaikos dal Krka nel quale ero stato l’anno prima capocannoniere in Eurolega, e dunque pensavo di essere uno forte. Ebbene, per tutto il periodo che sono stato lì, per il coach qualsiasi cosa facevo era quella sbagliata e mi correggeva di continuo facendomi sentire un povero principiante. Alla fine ho capito che aveva perfettamente ragione e ora posso dire con assoluta convinzione che Žele è stato il migliore allenatore che abbia mai avuto e per le cose che mi ha insegnato gli sarò sempre profondamente grato.”

In definitiva cosa ha fatto Obradović con Jaka? Intanto gli ha fatto capire che non c’è limite al progresso che un giocatore può fare e che solo lavorando duramente, correggendo di continuo gli errori, per quanto piccoli possano essere, può dare il massimo di se stesso. Soprattutto però gli ha fatto capire esattamente cosa voleva da lui, concretamente che facesse al meglio le cose che sapeva fare bene e che smettesse il prima possibile di fare cose che non sapeva fare o che semplicemente non avevano posto in un ben definito gioco di squadra. Come si può vedere il lavoro di un allenatore di vertice è qualcosa di molto più profondo e sostanziale di quanto si può dedurre vedendo poi i giocatori evoluire in campo. Come è solo giusto il lavoro principale si fa nella testa dei giocatori su una serie molteplice di piani, da quello strettamente tecnico a quello caratteriale con il fine ultimo di far capire loro intanto che non ci possono essere dubbi su chi comandi, e che un coach ha un solo scopo, che è quello di vincere le partite, e per farlo ci vuole un gioco armonico di squadra nella quale non ci possono né devono esserci primedonne designate in anticipo o, peggio ancora, che si percepiscono come tali. Per cui, tranquillo Buck, sono perfettamente convinto che Žele non prenderà mai in una sua squadra un giocatore come James. Per corroborare un’affermazione come quella che ho appena fatto un buon supporto può fornirlo una prova in negativo, cioè cosa può succedere quando il tentativo non ha successo per eccessive personalità negative da gestire. In merito viene subito in mente la catastrofe della nazionale allora ancora serbo-montenegrina allenata proprio da Obradović agli Europei in casa del 2005 quando dopo la sconfitta con la Francia per l’accesso ai quarti il coach si presentò piangente in sala stampa annunciando le sue dimissioni immediate confessando il suo fallimento, dovuto, si dice, alla presenza in squadra di vere e proprie t.d.c. dall’ego smisurato, tipo, si sussurra, Gurović su tutti. O ancora, se volete, il “fracaso” della nazionale serba agli ultimi Europei per dinamiche interne pressoché analoghe che Pešić, allenatore dalle stesse caratteristiche ma meno bravo (la stessa differenza che c’era in campo fra i due quando facevano il play, uno al Partizan e l’altro al Bosna, e, guarda caso, in nazionale ci andò fra i due solo Obradović), non riuscì a gestire subendo il tracollo imprevedibile contro l’Italia.

Per quanto riguarda la storia recente del Partizan pensò che il figliol prodigo sia tornato a casa con altre intenzioni rispetto a quanto è poi successo. E’ una mia impressione, dunque da questo punto in poi abbandono le mie certezze, per cui, se avete qualche idea migliore che spieghi le cose, ditela pure. Secondo me la sua prima intenzione era quella di rimettere in piedi la società dalle fondamenta creando una sana struttura piramidale basata sul lancio di giocatori locali usciti magari dal vivaio. Poi. per ragioni che non so, ma che suppongo siano dovute all’afflusso di supporto finanziario successivo alla qualificazione per l’Eurolega, le priorità siano cambiate e che la società abbia voluto avere risultati subito, il prima possibile. Per far ciò Obradović ha dovuto far acquisti un po’ “z brda z dola”, come dicono loro, dai monti e dalle valli, prendendo quello che il mercato offriva e che era ancora sopportabile per il coach. Il quale, ovviamente, ha visto quello che aveva a disposizione e si è ingegnato a fare in modo che una simile armata Brancaleone potesse avere un qualche senso tecnico. Non si tratta di convertirsi al “nuovo” basket. Obradović che si “converte”? Mentre lo scrivo mi sto tenendo la pancia per le risate. I giocatori odierni sono quello che sono, giocano in un certo modo, e tutto quello che si può fare è accettare questa deriva (per fortuna accettata, o subita, fate voi, da tutti, per cui tutti sono sullo stesso piano) e fare buon viso a cattivo gioco. L’importante è che anche in un quadro talmente desolato la squadra giochi come tale senza sedicenti fenomeni secondo la vecchia e sempre validissima regola che recita che in ogni singola partita la stella è quello che in quella serata tira meglio e dunque segna più degli altri. Poi per il resto il convento passa questo e con questo bisogna avere a che fare. L’articolista della Giornata Tipo può essere strasicuro che se potesse rimaterializzare Kića, Praja e Mirza o magari Dražen giocherebbero loro tutta la partita senza cambi. E infatti qui l’articolo ha ragione: Obradović gioca le partite con otto giocatori di base. Come mai? Perché è un grandissimo allenatore che sa come far giocare le sue squadre, con gerarchie e compiti ben definiti. In questo quadro più gente gioca, più casino si crea, ma lasciamo stare. Oggi sembra che dire queste cose secondo me di stupida banalità sia fuori dallo zeitgeist attuale. Per cui continuate a credere che solo amplissime rose possono ambire a grandi traguardi. Io sono qui, come il famoso mus (asino) triestino che speta che l’erba cressi. Convinto che aspetterà all’infinito.

Ho scritto di basket, come vedete. Incredibile. Per finire vorrei parlare in breve di musica, cosa che volevo fare prima di leggere il post di Llandre. L’altra volta ho scritto che anche in campo musicale secondo me la fusione, un po’ la “bastardizzazione”, fra generi è una cosa buona e auspicabile. A questo punto l’episodio storico che vorrei raccontare mi sembra molto pertinente a quanto affermo. Tanto tempo fa, parlo del periodo a cavallo degli anni ’50 e ’60, c’era in America un cantautore country che aveva il grandissimo difetto di apparire in scena come un pesce lesso, per cui aveva il carisma di una triglia, ma che scriveva bellissime canzoni, tutte tristissime peraltro, il che ancora acuiva il senso di depressione che creava al suo apparire. A un certo punto Don Gibson, si chiamava così, decise di scrivere una canzone un tantino più briosa e uscì il suo 45 giri con sul lato A “Oh, lonesome me” (testo comunque tristissimo come sempre), pezzo che ebbe un buonissimo successo con la cover quasi immediata fatta nientemeno che da Johnny Cash. Del lato B non si parlò neppure, finché non lo sentì un cantante-autore-pianista nero cieco dalla nascita di nome Ray Charles, icona del blues e del rhythm and blues (uno dei primi pezzi che Elvis cantò in TV fu la sua “I Got A Woman”). Charles era interessato a tutti i tipi di musica, bastava che fosse buona, e non aveva alcun problema a pescare nel repertorio country per reinterpretare a modo suo i pezzi che gli piacevano. Non solo, ma rimangono famosi alcuni duetti che fece con leggende country tipo Willie Nelson nella meravigliosa “Seven Spanish Angels”, o addirittura uno scherzoso e straordinariamente autoironico duetto con il massimo interprete del mainstream country George Jones in un pezzo dal titolo “I Didn’t See (?) You”. A proposito vi consiglio di vedere su You Tube lo straordinario concerto che tenne assieme a Fats Domino e Jerry Lee Lewis e nel quale esegue una incredibile versione di “Jambalaya“, uno dei più famosi pezzi di Hank Williams, uno di cui vorrei ancora parlare a lungo. Insomma, come fece poi con un altro pezzo country che portò ai massimi successi, “Cryin’ Time” di Buck Owens, Ray Charles incise per il suo nuovo disco il lato B di “Oh, Lonesome Me” reinterpretandolo come solo lui sapeva fare. Il nome della canzone? “I Can’t Stop Loving You”, diventata poi un superclassico che più o meno tutti hanno, chi prima chi poi, eseguito. Ecco, senza Ray Charles, un bluesman nero, un grandissimo e famosissimo pezzo, originariamente una ballata country qualsiasi, mai avrebbe vissuto la giusta e meritata ribalta. Mi sembra un esempio fulgido di quanto andavo dicendo all’inizio di questo capitolo finale.