I Dowsing e il basket. Un rapporto strano. Eppure la band di Chicago, nel 2013, ha inciso un pezzo dal titolo “Where’re here to basketball”. Un inno alla spicchia? Beh, non proprio…

Questa volta alziamo le mani. Ci arrendiamo, capitoliamo. Si nota quella bandiera bianca che sventola sul ponte? Ebbene, è la nostra. Pick and Rock ha sempre fatto la sua porca figura. Abbiamo analizzato decine di canzoni frantumandole in mille pezzi, scavando, talvolta bene, talvolta un po’ meno bene, tra i loro più reconditi significati: non ci siamo mai fermati davanti a nulla, poco ma sicuro. Ma questa volta come facciamo? Come ve la raccontiamo “Where’re here to basketball” (no, non è un refuso) dei Dowsing? E soprattutto, chi diavolo sono i Dowsing?
Confessiamolo: non ci fosse la rete delle reti, l’interrogativo di cui sopra sarebbe rimasto senza risposta. E andiamo di Wikipedia allora. I Dowsing arrivano da Chicago, Illinois, e suonano un frullato di emo, grunge, punk e indie. Nel Belpaese nessuno (o quasi) se li è mai filati nemmeno per sbaglio, ma negli USA dovrebbero avere un certo seguito – almeno nell’ambito del rock indipendente –  se è vero che nel corso degli ultimi cinque anni hanno inciso una bella sfilza tra singoli ed EP oltre a tre album. All’interno della loro seconda fatica discografica, “I don’t even care anymore”, uscito nel 2013, ecco spuntare “Where’re here to basketball”. Bella canzone rotonda e chitarrosa, roba da nerd, roba bella e stilosa però. E sin qui ci siamo. Il problema è il testo. Perché se mi intitoli un brano in quel modo, vuol dire che a un certo punto dovrai per forza di cose parlarmi di schiacciate, assist, buzzer beater, alley-oop, al massimo del tiro libero come metafora della vita o della frustrazione del giocatore scarso costretto dall’allenatore a ripetere la treccia fino allo sfinimento. No, niente di tutto questo.

La storia di “Where’re here to basketball” avrebbe potuto scriverla un Billy Corgan allegro, tanto per dare l’idea. È la descrizione (una delle tante) della generazione X: amore, alcool, mi faccio schifo, no future for you and for me, piove e sono triste. Frasi tipo: “Ti vengono i lividi quando sei maldestro, peggio ancora se sei ubriaco. Potremmo provare a fare un bambino nel soggiorno, ma non credo sia una buona idea: il tappeto è liso, ci sono avanzi di cibo e ho ribaltato gli occhiali”. E questo è niente. “Le mie intenzioni non sono mai state chiare, ho solo voglia di starti vicino ma non c’è da stupirsi se sei confusa dai miei insulti ubriachi. Cerchiamo di non rovinare tutto, ho bisogno di un amico, non di un rapporto, perché io sono il tipo peggiore di persona, quella che butta via le cose belle”. Segue la promessa di andarsene a Seattle “perché qui piove sempre” (a Chicago, si suppone), e “ho bisogno di una spiaggia per tenermi in forma”.
Tutto bellissimo, ci mancherebbe altro, ma che c’azzecca la palla a spicchi? È come se “O sole mio” si intitolasse “It’s raining again”, o “Yesterday” fosse uscita come “Tomorrow”, magari con Amanda Lear ai cori. O forse, e stiamo raschiando il barile, oltre che del mare, chi ha vergato quel testo avrebbe avuto bisogno anche di assistere a una partita dei SuperSonics, salvo poi scoprire che la franchigia che fu territorio incontrastato di Jack Sikma e Gus Williams ha fatto le valigie, trasferendosi, peraltro un bel po’ di anni fa, da Seattle a Oklahoma City. Proprio come quelli che buttano via le cose belle. O forse no, è solo un gioco. O una metafora (un’altra), un modo per ricordare che la vita ti sottopone a prove dure, almeno quanto provare a marcare LeBron James o guardare una partita in tv con il commento di Franco Lauro. Cosa quest’ultima, per la quale abbiamo già alzato le mani tanto ma tanto tempo fa.

La foto è tratta del sito aimatrabolmeicher.com