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Earvin “Magic” Johnson è stato celebrato dai Red Hot Chili Peppers nel 1989, ai tempi di “Mother’s milk”, il loro quarto album. Con un inno a un uomo dal sorriso contagioso che ha cambiato le coordinate del basket contemporaneo.

In principio fu “Mother’s milk”, anno domini 1989. Il disco che mette insieme per la prima volta Chad Smith, Flea, Anthohy Kiedis e John (Jack se sei Andrea Brizzi) Frusciante. Ovvero la perfetta macchina da guerra grazie alla quale i Red Hot Chili Peppers, a partire dall’epocale “Blood sugar sex magik”, esploderanno con tutto il loro fragore. Ma prima, appunto, c’è “Mother’s milk”, album di un certo successo negli Usa (8000000 copie vendute, numero 52 in quota Billboard) che ha il merito di mettere a fuoco l’estetica dei quattro ragazzotti californiani: crossover a manetta, ritmi ossessivi, funk e rock’n’roll come parabole da lasciare ai posteri. E dodici pezzi incendiari, compreso “Magic Johnson”, dedicato, come si può intuire, al più grande playmaker di tutti i tempi. O almeno sono in molti a pensarla così. Anzi, per dirla tutta, c’è una sparuta ma combattiva minoranza pronta a giurare che colui che indossò la canotta numero 32 dei Los Angeles Lakers tra gli anni ’80 e la prima metà del decennio successivo è stato il più grande di tutti in assoluto. Più di Lui, per dire (come Lui chi?), ma non divaghiamo. E torniamo a bomba sulla quarta traccia di “Mother’s milk”, quasi tre minuti che sembrano (sembrano) lambire il repertorio dei Ramones più giocherelloni. Ma forse, al di là di qualsiasi riferimento si possa tirar fuori, ai RHCP interessava più che altro celebrare le gesta di un campione amato e rispettato da tutti. Larry Bird arrivò a dire: “La prima cosa che facevo ogni mattina era di andare e vedere i boxscore per sapere cosa avesse fatto quella sera Magic. Non riuscivo a pensare a nient’altro”.

"Mother's milk", quarto album dei RHCP

“Mother’s milk”, quarto album dei RHCP

Già, Earvin (così fu iscritto all’anagrafe Mr. Johnson da mamma Christine e papà Earvin Sr.) era un’ossessione un po’ per tutti, tranne per una Los Angeles ricopertasi vincente (a parte quei gran pipponi dei Clippers, si capisce). Nel 1989 Magic si era già infilato cinque anelli tra le dita (lo chiamarono Showtime), tre anni più tardi avrebbe completato l’opera con la medaglia d’oro conquistata dal Dream Team ai giochi olimpici di Barcellona. Esatto: quando i Red Hot si decisero a cantare le sue gesta, lui era nel pieno della maturità. Ma stiamo ancora divagando. Ecco, quindi, “Magic Johnson”, apologia del “ragazzone nero venuto per giocare a modo suo”, leader di una squadra con “una voglia di vincere che rimane intatta”. Nell’attacco del brano c’è già tutto: il basket votato all’immaginazione abbinato a una tecnica senza pari, qualità che i gialloviola avrebbero sfruttato fino in fondo. “Penetrando lungo il corridoio di gioco, veloce come un treno, arriva il sangue magico, il cervello telepatico. Quei coglioni farebbero meglio a scansarsi, quando il ragazzone nero avanza come un camion”: come a dire che il ragazzone nero era in  grado di spaccare in due le difese avversarie con la sua velocità, la sua materia grigia. E che non ce n’era per nessuno quando partiva con la palla in mano. Già, tutto vero, se solo i Boston Celtics del già menzionato Larry Bird non fossero mai esistiti…
Magic ma non solo. Kiedis e soci trovano il tempo di menzionare altri protagonisti di uno dei migliori periodi della franchigia losangelina, come Byron Scott, che “causa un fallo in area” e poi “rientrando riceve una manata da un uomo di nome A.C. Green”, o James Worthy, che è “fortissimo e con la sua ascia da guerra fa canestro così tua madre ne parlerà”. E non poteva certo mancare una citazione riservata a Kareem Abdul Jabbar, altra icona dell’universo Nba, quello che “siede su un trono non per i record che detiene ma perché è caldo e coraggioso”. Esattamente come i Lakers dell’epoca.
Rimane un dubbio: cosa offrirebbe il testo di “Magic Johnson” se i RHCP lo avessero scritto nel 2014 o giù di lì? Più o meno le stesse cose, forse ci sarebbero stati l’aggiunta di qualche nome sulla lista (tipo Kobe Bryant) e un finale diverso. Che allora recitava “Una superstar di tutti tempi (…) sta arrivando nella tua città e la raderà al suolo: qualcuno vuole Magic Johnson?”. Oggi sarebbe bello suonasse più o meno così: “Fuck off Mr. Sterling, and go to hell!”. E stavolta evitiamo di tradurre.