Ai tempi delle scuole superiori, Stanley Clarke giocava a basket e suonava il basso. Poi rimase solo la musica. Ed è stata una fortuna. Per tutti.

Stanley Clarke è uno dei bassisti elettrici più dotati e influenti che si trovino in circolazione. Un virtuoso che ha speso i suoi giorni e le sue notti a intersecare jazz, rock, funk, soul e fusion, a cercare, trovandolo, un suono personale, fino a dotarlo di una cifra stilistica inconfondibile.
Clarke, classe 1951, inizia a fare sul serio sin dai tempi delle scuole superiori. Nativo di Filadelfia, si iscrive alla Roxborough High School, a pochi passi da casa, ed è proprio tra le aule del vetusto edificio di Ridge Avenue che comincia a sviluppare le proprie passioni, riconducili a due macro categorie: il basket e la musica. Non ci è dato sapere quali fossero le doti da cestista di Stanley: alto 1,91, è probabile che il suo destino sia stato quello di guardia o di playmaker, o comunque di esterno. Ma non si sa mai…
In realtà, Roxborough ha sempre avuto un rapporto difficile con la spicchia: quando si associa il suo nome alla pallacanestro, è inevitabile tirare fuori dagli archivi una partita del 17 febbraio 1955, quando i Panthers Overbrook di Wilt Chambelain massacrarono il malcapitato quintetto filadelfiano per 123-21, con l’allora diciannovenne e già rampante “Wilt the stilt” autore di 90 punti, conditi da un enorme 36/41 dal campo. Questo per dire come stanno le cose.
Giusto per il gusto di infierire, sapete quanti giocatori ha concesso Roxborough ai campionati professionistici nordamericani nella sua storia quasi centenaria? Be’… uno! Tale Chubby Cox, scelto alla settima chiamata dell’ottavo giro dai Chicago Bulls nel 1983, finito poi a indossare la casacca dei Washington Bullets: 7 partite giocate, media di 4,1 punti ed è finita lì. Chiaro, non si può dire che il buon Cox abbia lasciato una traccia fondamentale all’interno del circuito Nba. Al contrario di sua sorella. Sta per partire una battuta sessista? No. Vogliamo solo ricordare che Pamela Cox, la sorella di Chubby, finirà per convolare a nozze con il futuro Sebastiani Rieti Joe Bryant, e che un giorno i due sforneranno un figlio di nome Kobe. Ecco cosa significa avere un posto di rilievo nell’Nba.
E allora, povero Stanley? Doveva continuare ad andare su e giù per due canestri fissati su di un parquet sperando che una sorella (a patto di averla) arrivi in soccorso, o giocarsi tutto confidando in un manico dotato di quattro corde parecchio spesse? La seconda che ho detto. Clarke percorrerà la strada della musica, una scelta che gli cambierà la vita. In meglio.
Il bassista di Filadelfia ha sin qui inciso 23 album nelle vesti di solista o con la sua band, collaborato con gente del calibro di George Duke, Gil Evans, Stan Getz, vinto quattro Grammy Awards, scritto colonne sonore per film di successo, venduto milioni di dischi, suonato ovunque ricevendo in cambio applausi convinti e cachet accompagnati da parecchi zero. E si è tolto ogni sfizio, compreso quello di tributare un pezzo al basket.

“Hideway” esce nel 1986 per la Epic Records e per alcuni, addetti ai lavori e non, è il miglior album mai inciso da Stanley Clarke. Cosa che ci importa fino a un certo punto: in fondo, il merito dell’LP di cui sopra è solo uno, quello di contenere al proprio interno “Basketball”. Che Clarke scrive con la complicità di Robert Brookins che, da lì a poco, troverà uno strapuntino nella line-up degli Earth, Wind & Fire.
“Basketball” risente delle atmosfere degli anni ’80, con il basso di Clarke intento a menare le mani, come sempre, ma c’è anche dell’altro. Ci sono le tastiere del già menzionato Brookins e quelle dell’ex Giant Alan Pasqua, le percussioni di Rayford Griffin, la chitarra di Paul Jackson Jr., già al fianco dell’omonimo Michael in “Thriller”, il sassofono di George Howard. Ne esce fuori un suono allegro, vivo e denso, qualità che, peraltro, dovrebbero possedere il basket e chi ogni volta scende in campo per cercare di insaccare una palla nel mezzo di una retina.
Per Stanley è un ritorno al primo amore: non ci sono dediche particolari, “Basketball” potrebbe essere destinata a Julius Erving come a Charles Barkley, le due stelle più lucenti dell’epopea 76ers, o a chissà chi, oppure al ricordo di quelle partite giocate all’ombra della palestra della Roxborough. Quando Stanley, pur di non finire asfaltato da qualsiasi avversario che gli capitasse a tiro, a un certo punto decise che sarebbe stato meglio lasciarsi trasportare da un basso elettrico.

La foto è tratta dal sito fanart.tv