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Una vita movimentata quella di Jim Carroll. Playmaker di talento in gioventù, poeta e rocker negli anni della maturità. Un mancato protagonista della palla a spicchi, che avrebbe meritato maggior fortuna.

Basket, droga e rock and roll. Non è per parafrasare per forza di cose Ian Dury ma quando si parla, o si vuol tentare di farlo, di Jim Carroll, all’anagrafe James Dennis Carroll, è impossibile girarsi dall’altra parte. Perché i punti cardinali della vita dello scrittore/poeta/cestista/musicista newyorkese sono stati quelli lì. Punto.
Jim Carrol il basket lo ha amato sino alla follia, almeno in gioventù. La palla a spicchi ha rappresentato la sua prima vita, quella di playmaker di talento. “The basketball diaries” (libro edito per la prima volta in Italia da Frassinelli e tradotto con “Jim entra nel campo di basket”) è la cronaca, in pratica un’autobiografia, di quell’adolescenza inquieta. Vissuta tra partite infinite, giocate spesso in palestre anonime, impreziosite da avversari di prim’ordine come Lew Alcindor, il futuro Kareem Abdul-Jabbar. Poi il fatale l’incontro con le sostanze (Lsd, fumo e tanta, tanta eroina). E non solo con quelle. “Io me ne sono stato tutto il tempo ad ascoltare Bob Dylan”, scrive Carroll tra le pagine del libro. Altri passaggi da “The basketball diaries”: “Poi arriviamo a casa e siamo lì ad ascoltare Dylan”; “Bob Dylan lo fanno alla radio”; “Dico al mio amico di suonare Dylan. Dylan chi? Cascamento di palle…”. Mr. Zimmerman, più degli schemi da applicare sul parquet, è diventato un’ossessione. Che presto travolgerà ogni cosa. Buchi a parte.

La Jim Carroll Band

La Jim Carroll Band

Il basket sarà solo un passaggio nell’esistenza di Jim Carroll. La maturità lo porterà in tutt’altra direzione. Verso una fertile carriera di poeta dedito al culto di Arthur Rimbaud (e di Jack Kerouac) e di rocker. “Jim è il ragazzo che mi ha insegnato a scrivere poesie”, dirà in tempi non sospetti una certa Patti Smith. Sei album incisi tra il 1980 e il 2000, collaborazioni con Lou Reed, Rancid e John Cale. E uno status di artista di culto guadagnato sul campo. Il suo era un rock sporco di energia punk e pieno di pathos, ben espresso da una band (la Jim Carroll Band) che molti esponenti del circo del r’n’r avrebbero voluto come complice.

 

Le canzoni di Jim Carroll non hanno mai affrontato la tematica della palla a spicchi. Idem per quel che riguarda l’attività letteraria post “Jim entra nel campo di basket”. Rimossa, accantonata, la pallacanestro è finita in un angolo, come un ricordo non troppo importante. Difficile conoscere i motivi di tale e tanta ritrosia. Tuttavia, nel suo repertorio, per essere precisi in “Dry dreams”, il secondo album a firma Jim Carroll, uscito nel 1982, è possibile trovare un pezzo intitolato “Work not play”. È il caso di ribadire il concetto: non si parla della nostra disciplina sportiva preferita ma, forse, tra quelle tre parole c’è un messaggio, nemmeno tanto nascosto: che il tempo del gioco, compreso quello esercitato con profitto sui campi di basket, è finito, chiuso, come un capitolo di un libro che non si riesce ad amare. Non sono in fondo, almeno. Sulla strada, polverosa alquanto, di Jim ci sarà spazio solo per la poesia e il rock and roll. E, purtroppo, anche per l’eroina. Che contribuirà non poco alla sua prematura scomparsa, l’11 settembre 2009, giunta all’età di sessant’anni, dopo un fatale attacco di cuore.