Kula_shaker_K_

È uscito “K 2.0”, il nuovo album dei Kula Shaker. Dieci anni dopo “K”, lo scintillante esordio della band inglese. Ricordate? “Govinda”, il misticismo, la psichedelia di ritorno, il brit-pop che se ne va. E poi ci sarebbe molto da dire anche sulla copertina dell’album. Mai notato chi è quello lassù in alto?

Era il 1996 e del brit-pop non se ne poteva più. A meno di non appartenere alla folta schiera di quelli che vivono a pane e gossip. Le scazzottate dei fratelli Gallagher, le loro fiamme, le foto rubate (si fa per dire) era tutto quel che rimaneva. Una fine ingloriosa. Avevamo già dato e, soprattutto, avevamo già familiarizzato con band di una certo spessore, come gli stessi Oasis, i Blur, i Pulp, gli Suede, gli (o le, fate voi) Elastica. Certo, qualcosa di buono ci sarebbe stato anche dopo quel 1996 (leggasi Verve, Travis, Stereophonics…) ma fu proprio in quell’anno che qualcosa cambiò. Soprattutto perché arrivarono i Kula Shaker. Che tirarono fuori dal loro armamentario un suono legato all’oriente ma anche al rock, di origine psichedelica protetta, al limite del misticismo. “K” è un disco di una bellezza non comune, quasi di rottura. Certo, nulla di nuovo sotto il sole, ma vogliamo mettere con il pop imperante fino a quel momento?  Peraltro, Crispian Mills e compagni trovarono persino il tempo di omaggiare il nostro mondo. Come? Ci arriviamo. Andando con calma, altrimenti rischiamo di perderci.
I Kula Shaker nascono tra le mura del college di Richmon Upon Thames, a sud ovest di Londra. Dove nessuno, e sottolineiamo nessuno, avrebbe mai osato gettare una palla in un cesto appeso a un tabellone. Lo diamo per scontato. Più che il pick and roll da quella parti preferiscono il fish and chips. E restando in tema di agonismo, lassù vanno fuori di testa per il calcio, il rugby, le freccette e tante altre discipline sportive che noi umani non potremmo mai immaginare. E se in quel college di cui sopra fosse esistito un campo di basket, allora lo avrebbero preso per una pista di atterraggio per astronavi aliene. Tipo i disegni di Nazca. E in poco più di cinque minuti, a bordo di un razzo interspaziale, sarebbe arrivato un professore un po’ tocco pronto alle più estreme comparazioni con i vicini monoliti di Stonehenge.

I Kula Shaker nel 1996

I Kula Shaker nel 1996

Allora che c’azzecca la palla a spicchi con i Kula Shaker? A leggere i titoli delle tredici canzoni contenute in “K”, nulla, ad approfondire i relativi testi nemmeno. Allora chiediamoci perché i ragazzi decisero di collegare il loro album di esordio all’undicesima lettera dell’alfabeto latino. Un’occhiata alla copertina del disco può bastare: è al suo interno che il fumettista Dave Gibbons (quello del Dottor Who a fumetti) raffigura una serie di volti appartenenti a personaggi i cui nomi (o cognomi) iniziano per K: ecco allora, tra i tanti, Grace Kelly, King Kong, Karl Marx, Krishna, John Fitzgerald Kennedy, Martin Luther King e poi, lassù, in alto, nientemeno che Kareem Abdul-Jabbar. Proprio lui, l’ex asso dei Los Angeles Lakers, quello dello sky hook.
Non ringrazieremo mai abbastanza i Kula Shaker per aver sdoganato la spicchia nella perfida Albione. Certo, ci sarà sempre qualcuno che ancora oggi dirà: “ma chi diavolo è quel pelato ritratto nel primo disco dei Kula Shaker? Chi? Kareem Abdul-Jabbar? Non sarà mica uno dell’Isis?”. E poi non crediate che dopo il successo di “K” gli inglesi abbiano scoperto il reale funzionamento di quegli strani rettangoli così somiglianti a piste di atterraggio per astronavi aliene. E nemmeno che dall’uscita di quel disco siano nati chissà quali fior fiori di campioni autoctoni. No, gli inglesi sono e rimarranno dei brocchi incommensurabili (sia detto con rispetto) a basket, poco ma sicuro, ma intanto qualcuno ha provato a ricordare loro che c’è vita oltre le freccette, la birra e i rutti. Finora non è bastato, poi tutto può succedere. Anche l’impossibile. Non ci resta che rivolgerci a Krishna e sperare.