I Lincoln raccontano di tre ragazze annoiate. E di come il basket riuscì a cambiare la loro vita. Forse.

Prima o poi arriva il giorno in cui ti rendi conto che hai messo assieme una mole esagerata di pezzi tra vinili e cd. Accatastati uno accanto (o sopra) l’altro. E la tua compagna o compagno ti sopporta ma fino a un certo punto, perché la cazziata è nell’aria e prima o poi si materializzerà come il Matteo a panino al TG di turno. Magari proprio quando torni a casa felice di aver cattato il disco numero 5000, che è un bel traguardo, inutile negarlo, e vorresti festeggiare come un bimbo pronto ad andare a una gita. Ma vai a spiegarglielo a una/o che non vede l’ora di cazziarti, peraltro per futili motivi. Ecco, hai una caterva di materiale prezioso, e ogni tanto li rivedi quei padelloni, assieme ai meno attraenti dischetti in metallo. Li abbracci orgoglioso, qualcuno riesci pure a portartelo a letto, poi, all’improvviso, ti spunta tra capo e collo il disco dei Lincoln e dici: ma chi diavolo sono questi? Ah, sì, son quelli di “Basketball”! E il discorso prende un’altra piega. All’improvviso ricordi quei giorni di fina anni ’90, quando la band newyorkese era lì, nel mezzo della giungla dell’indie rock. A sgomitare, a provare a farsi largo. Fatica inutile, nonostante le buone intenzioni.
“Basketball” è una delle poche canzoni scritte dai Lincoln, quinta traccia del loro album (intitolato, con poca fantasia, con la loro stessa ragione sociale), uscito nel 1997. È un periodo strano, il grunge è deceduto e neanche il brit pop sta troppo bene. La band di New York, capitanata da Chris Temple, gioca le proprie carte affidandosi a un pulito e apprezzabile pop chitarroso. Niente di particolarmente innovativo, ma siamo pur sempre nel dignitoso. “Basketball”, appunto. Una canzone contro la noia. Che la combatte, la mette KO. Con l’aiuto di una palla a spicchi.

In effetti, il canovaccio del brano prende vita da tre ragazze che non sanno come passare la giornata. E tra un “che barba, che noia” e l’altro, si ritrovano nelle vicinanze di un campetto da basket, con le gonne di plaid e le calze al ginocchio. Roba che nemmeno nei film porno. Intanto una pensa ai tempi di quando se la spassava in quel di Newport (probabilmente con tutt’altro look), un’altra guarda con la fissità tipica dell’ottusa la metà campo, mentre l’ultima, la più energica dell’allegro trio, si sfruculia la pettinatura passandosi le dita tra i capelli. Il destino vuole che, da lì a poco, arrivino alcuni ragazzi afroamericani. E che la vita delle tre sbarbine cambi all’improvviso. Un momento epifanico, che si concretizza quando gli eredi degli schiavi sbarcati nel nuovo mondo a raccogliere cotone danno vita a una partita di pallacanestro. È spettacolo puro sin dalla palla a due, con tiri da tre punti, canestri incredibili e qualche fallo cattivo che fa sempre la sua porca figura. E le ragazze? “Stanno guardando ragazzi neri che giocano a basket”. La loro vita (quella delle tre protagoniste, non quella dei giocatori) potrebbe anche fermarsi, tanto da desiderare che quella partita non finisse mai, che quegli istanti diventassero eterni e il loro ricordo si cristallizzasse. Possiamo solo immaginare cosa sarebbe potuto accadere dopo quella partita: i Lincoln non daranno seguito né alla canzone, lasciandoci alla mercé di tanti interrogativi, né alla loro effimera carriera: il disco che contiene “Basketball” sarà il loro unico biglietto di un viaggio di sola andata. E a quelle tre ragazze, purtroppo, non verrà mai dato un futuro. Anche se loro, con ogni probabilità, avrebbero desiderato rimanere per sempre in quel campetto a guardare in ragazzi neri giocare a basket. Come in uno spensierato loop.