scarpetterossewpedrazziNon esistono soltanto i Califfi del parquet, nella pallacanestro. Quelli che ci deliziano, ci estasiano, con un soffice tiro in sospensione, una geniale assistenza, un gesto atletico eclatante, un volo sopra il ferro. Esistono, anche e per fortuna, i Califfi della penna. Cantori del cesto col polpastrello che picchia duro, forsennatamente, per restituirci nella sua immutata grandezza l’epica del basket, ma soprattutto quello che c’è oltre la pallacanestro. Uno sport per tanti, ma non per tutti. Anche a livello di prosa, di racconto. Ci sovvengono questi pensieri sparsi, mentre ci accingiamo a recensire Scarpette Rosse. La storia dell’Olimpia Milano, Signora del basket (Limina edizioni, 18 euro molto ben spesi) , la storia (a suo modo) dell’Olimpia Milano.

In verità, noi che siamo piuttosto bastian contrari, diciamo che questo libro è stupendo, intenso, ma  che il titolo è sbagliato. Sarebbe dovuto chiamarsi ‘Dal Vangelo secondo Werther Pedrazzi. Gli uomini dell‘Olimpia Milano‘. Aspettiamo una chiamata, come editor non saremmo affatto male. Poi l’autore di queste righe è notoriamente sempre in caccia di sottane, e l’ambiente editoriale è sempre pieno di donne. Quindi..
Cambiare titolo sarebbe stato un atto d‘amore verso Pedrazzi, autentico Califfo del giornalismo cestistico italiano, di rito (giornalistico, e non altro..) Antico e Accettato. Ma non fa niente, il libro è ugualmente da non perdere.

Werther Pedrazzi

Werther Pedrazzi

STORIA E MISCELLANEA

Storia per modo di dire, o meglio al modo di Werther, che in realtà pesca dal passato remoto e prossimo- ma anche dal presente, pezzi di storia qua e là, ma soprattutto storie di uomini, per poi rimescolarli in un vortice esaltante, a tratti emozionante, fresco, vivace, convulso, giocato spesso sul crinale tra ricordo e sentimento, tra rimpianto e disincanto. Ne (fuori)esce uno spaccato bellissimo dell’Olimpia di ieri, di oggi e forse anche di domani, anche se dell’epoca Armani l’autore si riserva giustamente il giudizio, giacché trattasi di storia presente, sulla quale un giudizio- anche minimo- potrà venire solo col tempo.
Una miscellanea affascinante di nomi, storie, evocazione di vittorie e di grandezza; un filo che si dipana per oltre 200 pagine, che tradiscono un particolare legame di Werther con alcuni ben precisi passaggi ed alcune persone: gli anni Ottanta, il passaggio dalla proprietà di Adolfo Bogoncelli a Gianmario e Giovanni Gabetti, ma soprattutto l’ultima vittoria del 1996, con in panca lo zingaro triste Boscia Tanjevic, cui l’autore di questo libro dedica sette righe-sette di rara e autentica bellezza.

‘CERCA L’UOMO’

Scarpette Rosse è scandito in 14 capitoli, 14 sinfonie diversissime tra loro, ma unite dallo stesso (va da sé…) fil rouge: la passione per l’uomo, la ricerca ininterrotta dell’umanità oltre l’atleta. Dai Duellanti alla Diaspora, Pedrazzi ci racconta l’Olimpia attraverso i volti e i nomi di chi l’ha voluta, fatta e resa grande. Non è un caso che il primo capitolo si apra con un epico scontro tra Dino Meneghin ed Art Kenney. Non è un caso che Pedrazzi appartenga, per lignaggio di penna e non solo età anagrafica, alla nobiltà del giornalismo sportivo che affonda la sua più solida radice nel Principe della Zolla, Gianni Brera fu Carlo da San Zenone. Fu Brera, d’altro canto, ad ammonire sempre che il cronista sportivo- quello vero- avrebbe sempre e incessantemente dovuto ricercare l’uomo, non soltanto l’agonista. Perché l’agonista, e persino il gesto atletico, lo racconti al meglio se prima hai carpito l’intima essenza dell’uomo. Altrimenti, sarai sempre e soltanto un estensore di cronachette, buone per farci un cappello da imbianchino.
E sembra quasi di risentirlo, Breragiovannifucarlo, in alcune pagine del libro di Werther. Il Brera che parlava, estasiato, del suo rapporto con Nereo Rocco, il Paron (“È che il mondo non sa distinguere fra chi beve “per scientiam” e chi per sete banale, o addirittura per vizio. Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia, dover bere per sete, che banale destino! Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons”); il Brera che cantava, per l’ultima volta, l’amico di sempre Beppe Viola (Era nato per sentire gli angeli e invece doveva, oh porca vita, frequentare i bordelli. Povero vecchio Pepinoeu! Batteva con impegno la carta in osteria e delirava per un cavallo modicamente impostato sulla corsa; tirava mezzo litro e improvvisava battute che sovente esprimevano il sale della vita. Aveva un humour naturale e beffardo: una innata onestà gli vietava smancerie in qualsiasi campo si trovasse a produrre parole e pensiero. Lavorò duro, forsennatamente, per aver chiesto alla vita quello che ad altri sarebbe bastato per venirne schiantato in poco tempo. Lui le ha rubato quanti giorni ha potuto senza mai cedere al presago timore di perderla troppo presto. La sua romantica incontinenza era di una patetica follia. Ed io, che soprattutto per questo lo amavo, ora ne provo un rimorso che rende persino goffo il mio dolore… ».

Ed è (potendolo) comparare al più grande, inarrivabile gigante della letteratura sportiva italiana che Werther s’avvicina e s’accosta, quando a pagina 204- al fondo, perché tutte le verità della vita, quindi anche del basket, si colgono al fondo- dedica a Boscia Tanjevic, l’allenatore dell’ultimo scudetto Olimpia, anno 1996, nove righe nove filate dritto nell’antologia della letteratura cestistica: “Boscia non era un uomo: era un romanzo. D’amore, rabbia e avventura. Innamorato della luna, nelle notti fredde, limpide e serene. Boscia guardava i fuochi nella notte di Milano, non erano i falò accesi per scacciare i lupi in una vigilia rivoluzionaria, ma soltanto cupi segnali d’improvvisati mercati dove si vendono e si comprano corpi avariati, non certo l’anima delle cose e della gente, come sognava Tanjevic. Boscia deve aver patito tristezze metropolitane. Avara. Per uno zingaro tenero e crudele, che amava bere il fuoco liquido e sognare l’Utopia e la Città del Sole’.
Game, set, match…

Boscia

Boscia

L’ERA DEI GRANDI PATRON

Questione di uomini, insomma. Tanti, molti dei quali col nome impresso  a fuoco nella storia del basket italiano e mondiale, dalle parti della Hall of Fame o semplicemente nei cuori dei tifosi più attempati: Cesare Rubini, Sandro Gamba, Sandro Riminucci, l’indimenticabile Adolfo Bogoncelli, che nel 1956 ingaggia il primo straniero nella storia del basket italiano (per le cronache, fu un greco: Mimis Stephanidis), l’epopea del Simmenthal e la prima Coppa dei Campioni vinta da una formazione italiana (1966), e poi Bill Bradley, da Milano al Senato americano, Dino Meneghin, Mike D’Antoni, John Gianelli, Tojo Ferracini, Renzo ‘Barabba’ Bariviera, Vittorio Gallinari, bocconiano e padre di cotanto figlio.
Grandi uomini sul parquet, ma soprattutto fuori dal parquet: Pedrazzi, per ovvie ragioni di condivisione personale di alcuni dei frangenti descritti, ricorda l’importanza determinante di aver inserito figure quali Toni Cappellari (divertentissimo il racconto del suo titolo nobiliare e di un suo avo, che ascese persino al soglio di Pietro, e di un pranzo a Livorno nel post mancato canestro di Andrea Forti contro la squadra di Alberto Bucci), Dan Peterson, ma anche la lungimirante avvedutezza di patron quali la famiglia Gabetti, che acquista l’Olimpia dopo che Peterson incrocia in corso Venezia a Milano l’allora sponsor di Cantù. Quei Gabetti che nel 1989 stavano per cedere l’Olimpia all’arrembante Silvio Berlusconi, ma i desideri del rampollo di famiglia Gabetti bloccarono tutto al momento di firmare il contratto di vendita.
Altro basket, altri tempi, altri uomini. Quelli della cessione di Roberto Premier da Gorizia all’Olimpia, con Cappellari che resiste a sette ore di estenuante trattativa ad una tavola friulana, con vino e grappe in abundantiam e lo sfinito Cappellari che, concluso l’affare, declina l’invito a cena (erano le 19.30..) e se ne va in albergo, incapace di salire in auto per tornare a Milano.
Personaggi maggiori e presunti minori, come il Benito Picone- storico responsabile della biglietteria Olimpia- che rischia l’arresto per aver cercato di negare un numero consistente di biglietti a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, ma che grazie al suo passato di dipendente comunale agevola la concessione dello status di italiano a Mike D’Antoni, evitandogli però il servizio militare con una geniale trovata (non ve la sveliamo..).
I grandi americani, Califfi d’oltre Oceano che hanno segnato anch’essi ed indelebilmente la storia dell’Olimpia: il già citato Kenney, Bradley, Skip Thoren, Mike Silvester, Antoine Carr, Russ Schoene (galeotta fu la cena a 4 con D’Antoni, che grazie al rosso conobbe la sua futura moglie, Laurell), il Faraone Nero, al secolo Joe Barry Carroll, e il totem di Greensboro, Bob McAdoo. Che con un volo sul parquet labronico valse a Milano uno scudetto.
E poi, come per incanto dopo i fasti della da molti decantata (ma solo da Pedrazzi, forse, realmente colta in tutta la sua portata epica e irripetibile) Olimpia anni Ottanta, dei Grande Slam e della vittoria a Losanna con seguito di carosello biancorosso da Milano alla Svizzera, l’ultima versione vincente dell’Olimpia: quella di Bepi Stefanel, Nando Gentile, Dejan Bodiroga, Gregor Fucka, Sandro De Pol, Rolando Blackman ed ovviamente Boscia, Boscia Tanjevic. Il tecnico che alzò Coppa Italia e Scudetto 1996 nonostante sapesse già che non sarebbe stato confermato l’anno successivo. Poi gli anni dell’oblio, Caputo-Tacchini-Corbelli-Papà del Mamba, e la rinascita (sin qui incompiuta) targata, anzi griffata, Armani. Ma questa è un’altra storia.. L’autore dedica anche alcune righe speciali alle donne dell’Olimpia, soprattutto alle mogli della Milano da sogno del Nano Ghiacciato e Franco Casalini, che ebbero un ruolo determinante durante quell’epopea trionfale e non riproponibile. E siccome la grandezza di Milano derivò anche dagli inenarrabili scontri con Cantù, Bologna e Roma, ecco che Pedrazzi rende il dovuto omaggio anche ai Porelli, agli Allievi, ai Corsolini, ai Morbelli, al geniale Bianchini che si fa espellere scatenando l’analoga reazione di Peterson (espulsi entrambi). Chapeau.

I VOLTI, MA ANCHE I LUOGHI

Siamo certi che i lettori dalla calvizie incipiente o dalla chioma imbiancata apprezzeranno particolarmente il capitolo dedicato ai luoghi divenuti storici per l’Olimpia, da via Caltanissetta- quella palazzina Liberty le cui mura trasudano storia del cesto- alle sue innumerevoli stanze, alla nascita di un negozio di culto per tutti i patiti di questo sport transitati per gli anni Ottanta (All Basket), sino ad arrivare al luogo che forse più di tutti ha sempre esemplificato e plasticamente restituito l’esprit Olimpia: il Torchietto di via Ascanio Sforza, il ristorante affacciato sul mare di Milano (i Navigli) dove per anni si sono celebrate le vittorie e pianto le sconfitte di casa Olimpia, dove si giocavano interminabili partite a carte, dove c’era sempre un piatto pronto.
Dove oggi c’è buio, passano distratti venditori abusivi di fiori, non ci sono neppur più delle Graziose in stile De Andrè, ma solo ragazzini impasticcati con cui faremmo anche volentieri a pugni, ma ormai il tempo passa (anche per noi), e dopo la mezzanotte siamo spesso a letto. Un tempo invece.. Quel magico angolo di via Ascanio Sforza, dove in un altrettanto mitico locale a fianco del Torchietto- quello in cui un tempo si esibirono Stewart Copeland ed Andy Summers, Enzo Jannacci e i più grandi mostri sacri del jazz- oggi cantano imberbi ventenni, che fiaccano le resistenze più dure, proponendo versioni inascoltabili di Foxy Lady o Voodoo Child. La decadenza di Milano è anche nel tramonto dei luoghi e dei simboli.
Ma Werther ce la restituisce tutta, quella magia, e sembra canticchiare un motivo di inarrivabile purezza e sensualità, Jazz, nella versione della Loredana Bertè femmina-da far-venir-sangue-persino-agli anemici, e- che- allora avrebbe-stecchito-persino-il-compianto-Gigi -Rizzi:

“Ma quest’anno stelle del mare / come sarà ? / Ci vuole più forza / e chissà se verrà / barca o rondine / a curarci / accanto al sogno da / dentro il cuore / dall’anima / o da dove sarà “

PER FINIRE

Insomma, se giunti a questo punto non avete ancora capito che correre a comprare questo libro è la prima cosa da fare non sappiamo cos’altro aggiungere. Siete irrecuperabili. Noi ci siamo stancati e stiamo per andare in piscina. Siamo gente che si annoia in fretta. Tranne quando si imbatte in libri come questi. Ma non capita spesso. Solo il tempo per avvisare- soprattutto i milanesi- che giovedì 11 luglio (verso le 18/18.30: Werther ha un nome mitteleuropeo ma, evidentemente, tempi cubani o sudamericani) Scarpette Rosse sarà presentato al pubblico al Quanta Sport Village di via Assietta 19 a Milano, poco lontano da dove un tempo furoreggiavano Renato Vallanzasca, Francis Turatello e la Banda della Comasina. Al tavolo della discussione, in rappresentanza delle varie età dell’Olimpia, saranno invitati Gianfranco Pieri, Sandro Gamba, Dan Peterson, Franco Casalini, Dino Meneghin, Lupo Portaluppi, Nando Gentile, Boscia Tanjevic e ancora Vittorio Gallinari, Roberto Premier ecc ecc.. Con  anche Luca Banchi, neo allenatore della EA7 Emporio Armani (impegni,suoi, permettendo).
Dopo l’incontro/dibattito, ci informa l’autore, per chi volesse intrattenersi ancora per prolungare la discussione o porre ulteriori domande ai protagonisti di una lunga storia, seguirà un ricco “happy hour” (a bordo piscina) a pochi euri. Cazzo, vuoi mettere uno Spritz a bordo piscina con Gallinari senior, Meneghin o Casalini?? Dailybasket, statene certi, ci sarà. E adesso, piscina. Prima un po’ di musica, però:

Come lo vedi camminare quest’uomo, subito egli ti sembra goffo e sproporzionato, non fatto, direi, per muoversi in terra, come tutti. Il suo passo, alla ricerca di un equilibrio malagevole e difficoltoso è quasi stentato e sghembo. Le braccia, assai gracili, spiovono inerti, impacciate dalle spalle non larghe. E la tua presunzione non se ne adonta. Piccolo comune uomo quale sei, non ti entra al suo cospetto nell’animo l’amaro dell’umiliazione fisica, quel senso di inferiorità che subito intimidisce e anzi talvolta annichila come di fronte all’atleta esteticamente bello e possente.

Gianni Brera, signore e signori. Se non vi piace, andì tucc a ‘scoà el mar’… Perché è tutto qui. Anche questo libro.

Fabrizio Provera